Il futuro ridimensionato

Il futuro ridimensionato

Cara Fabiana,

negli anni in cui eravamo un’unica persona, il futuro è sempre stato molto presente nelle nostre giornate. Eterne sognatrici ritagliavamo pezzi di tempo per ipotizzare cosa avremmo fatto da lì a dieci o vent’anni, per vagare con la mente e saltare le tappe più faticose della vita. Ci spingevamo lontano, tralasciando il futuro prossimo, oltre i confini dell’immaginazione. In realtà di confini a quei tempi non ve ne erano proprio, sembrava che tutto fosse realizzabile o comunque era facile crederlo. Con la creatività solleticavamo un futuro possibile e questo era molto piacevole.

Ora, invece, questa creatività, questa forza del “tutto è possibile” sembra esser venuta meno. Non è dipeso dalla nostra separazione, dal trasferimento da Napoli a Parma, anzi è stata proprio questa forza a rendere possibile il cambiamento e tu lo sai. Quello che non sapevamo e che un’epidemia non prevista, neanche nella nostra immaginazione, avrebbe dettato nuove regole, messo dei confini.

Da un anno a questa parte, l’abbiamo detto e ridetto più volte, la nostra vita è cambiata, quella di tutti. Ci piace dire che si è fermata, forse per mantenere l’illusione di un brutto sogno che prima o poi finirà permettendoci di riprendere tutto dal punto in cui lo avevamo lasciato senza alcuna conseguenza.

Ci prendiamo in giro, una delle forme di amore più crudeli. E, invece, qualcosa è cambiato, tante cose lo sono. Quella per me più tangibile in questo momento è proprio la percezione del futuro. Se prima il nostro sguardo puntava lontano, ora sono stata colta da una sorta di miopia che mi consente di guardare solo il futuro prossimo.

La cosa terribile è che più vicino non vuol dire più facile da raggiungere, da realizzare. Questo covid maledetto ci ha catapultati in una realtà che nell’immaginario collettivo è sempre stata utopica – mi riferisco al hic et nunc, a cogliere l’attimo – privandoci, però, degli strumenti e degli umori per attuarla a pieno.

L’immagine che mi appare davanti agli occhi mentre scrivo queste parole è quella di un uomo incatenato a una sedia, impossibilitato a fare quello che potrebbe fare nel presente e costretto a guardare fuori dalla finestra un futuro difficile da toccare. Sembra quasi una punizione divina, una condanna a vivere in un limbo senza presente né futuro.

Oppure può essere una possibilità. Quello che resta quando si è privati di presente e futuro è il passato e, forse è proprio lì la chiave per liberarsi dalle catene che più che il covid, ci siamo messi da soli con la smania di volere sempre di più.

Sai dov’è che vedo il mio passato? Lo vedo nel mio futuro ridimensionato. Se due anni fa a quest’ora ero impegnata a organizzare la prossima vacanza estiva, ora la mia ambizione più grande è riuscire a tornare a Napoli per trascorrere le festività pasquali con la mia famiglia. Non la Pasquetta con gli amici, ma la Pasqua con la famiglia. E questo mi piace, perché sento di aver invertito una scala di valori che prima era errata. Questo non vuol dire che quando sarà possibile rinnegherò i piaceri della vita come i viaggi all’estero e il divertimento, ma probabilmente li saprò apprezzare di più, cogliere meglio l’esperienza proprio perché sono ripartita dalle mie origini.

Il mio futuro ridimensionato mi concede un tempo dilatato, svuotato d’azione spesso superflua e aperto alla percezione di tutte quelle cose che prima davo per scontate, che non vedevo più. Ora esco di casa e apprezzo l’aria che mi accarezza le guance mentre sono in bici.

Io non sono ciò che faccio

Io non sono ciò che faccio

Cara Fabiana,

in questi giorni riflettevo sui mali che affliggono la nostra società. Sono svariati e hanno un’importanza differente a seconda del punto di vista e di quanto ne parla la comunità. Se dovessi decide di impiegare il resto della mia vita a vestire i panni di un’eroina che combatte contro uno di questi mali, credo che sceglierei quello tra i più nascosti, ma anche più infimi: il giudizio.

Siamo tutti affetti da un’ingestibile predisposizione a dover esprimere il nostro giudizio su ciò che ci circonda, a sindacare su quello che accade e sui comportamenti che le persone assumono, sulle scelte che prendono. Ora, se da una parte l’esprimere il proprio pensiero sui fatti che accadono nella nostra società può essere cosa buona e giusta in quanto dimostra una certa partecipazione all’interno della società, un non essere passivi, ben altro è il sentirsi autorizzati a proferire la propria sentenza rispetto a ciò che fa o dice un altro individuo.

L’altro giorno parlavo con un amico che mi confidava un proprio malessere in ambito lavorativo, un non essere appagato da quello che faceva, un sentirsi costretto a portare avanti quella situazione per non deludere le aspettative che la propria famiglia ha su di lui.

Le aspettative. Quando si viene al mondo tutti si aspettano che tu segua un iter prestabilito, lo definirei “l’iter del bravo cittadino”. I punti fondamentali di questo percorso sono studiare, possibilmente laurearsi, poi “sistemarsi” parola che racchiude in sé il trovare un lavoro fisso e mettere su famiglia. Ottieni tutto ciò che gli altri si aspettano e gli altri ti ameranno e loderanno. Oppure no. I fatti dimostrano che qualsiasi cosa si decida di fare della propria vita, anche diventare la persona che tutti si aspettano, non rende affatto esenti dal giudizio altrui. Gli altri avranno sempre da ridire, si sentiranno sempre autorizzati a metter bocca.

Si tratta di un’arte antica che spesso coincide con lo spettegolare, con l’inciucio per dirla alla napoletana. E inciuciare a noi piace tanto, ci conferisce un senso di superiorità che accresce nel momento in cui troviamo sostegno da chi fa – sempre per restare nel dialetto – comunella con noi. Un senso di superiorità, per certi versi molto divertente, che tutti conosciamo. Così come tutti conosciamo la sensazione opposta, quella di sentirsi un dito puntato contro, di sentirsi sbagliati perché non appoggiati da chi ti sta intorno.

In questo momento anche io sto giudicando tutti, me compresa. Credo che questo sia un aspetto proprio della natura umana, che di umanità ha ben poco. Siamo umani in quanto uomini e per nessun altro motivo. Condizione per cui io non potrei essere altro che un’eroina che combatte contro un male che non può essere sconfitto. Anche questo fa molto ridere.

Io sono il punto di incontro tra nord e sud

Io sono il punto di incontro tra nord e sud

Cara Fabiana,

quando ero lì con te a Napoli, abitavo in periferia, tu ci abiti tuttora insieme a mamma e papà. Abbiamo sempre vissuto in periferia, prima Frullone, poi Chiaiano. Devo dire, che non mi è mai pesato, forse merito della metropolitana, forse merito dei nonni materni e paterni con casa rispettivamente nella Sanità e a via Marina. Insomma il centro di Napoli l’ho sempre vissuto molto. A parte le scuole primarie e secondarie, liceo e università le ho frequentate al centro, tutti i giorni della mia adolescenza/prima giovinezza li ho trascorsi tra vicoli affollati, opere d’arte a cielo aperto e profumo di pizza e sfogliatelle calde. Se proprio vogliamo dirla tutta per me il centro ha sempre rappresentato casa, la periferia un letto caldo dove dormire.

Poi è arrivato il trasferimento a Parma e i termini di paragone si sono ingigantiti. Non più centro e periferia, ma nord e sud. Su questi due termini la letteratura è molto ampia, i significati molteplici. C’è chi non vede alcuna differenza tra i binomi centro-periferia e nord-sud, chi li ritiene due facce della stessa medaglia, chi due opposti destinati a non avere un punto d’incontro.

Io! Mentre scrivo queste ultime tre parole, mi rendo conto che ora sono io il punto d’incontro tra nord e sud. Una napoletana che ha preso la sua valigia colma di vita partenopea e l’ha portata con sé al nord, ci ha riempito una nuova casa, una seconda vita.

Sì, perché diciamoci la verità, quando ti trasferisci in una nuova città, vicina o lontana che sia, non cambi la vita che avevi, ma ne dai inizio a un’altra. Quella precedente, soprattutto se ci sono ancora dei legami affettivi, è lì che ti guarda, che interagisce con te. Ogni tanto le si volta le spalle per essere più forti, altre volte la si abbraccia per cercare conforto.

La mia seconda vita è interessante. Sento la differenza tra nord e sud? Sì, la sento, è impossibile negarlo. Non sono, però, completamente convinta che tutta questa diversità sia dettata dal passaggio dal meridione al settentrione, o almeno credo che in parte non lo sia.

Certo, ci sono due cose che mi fanno percepire molto la differenza tra il vivere su e il vivere giù, entrambe non dipendenti dalla volontà umana. Sono il clima e il mare. Non ho mai avuto così freddo come qui a Parma e, mi dispiace dirlo, chi è nato tra le braccia del mare non si abituerà mai a questa immensa assenza.

Per il resto Parma è una bella cittadina, imparagonabile a Napoli per dimensioni e densità abitativa. Che i servizi funzionino meglio, che ci sia meno frastuono, insomma che la qualità della vita sia migliore è cosa ovvia quando c’è meno da gestire.

Il mio modo di vivere è decisamente cambiato, le mie abitudini lo sono. Il trasferimento in un’altra città ha coinciso con il passaggio alla vita adulta, all’abbandono del nido materno, e, di conseguenza, sono passata da una città frenetica a una vita frenetica. Ho dovuto imparare a gestire meglio il tempo, diviso tra casa, lavoro, relazioni e passioni.

Tanti cambiamenti, insomma, molti dei quali, però, non legati al fatto che io sia al nord. Tutto ciò lo avrei dovuto affrontare anche in una città siciliana, a Roma o, a dire il vero, anche a dieci minuti dalla casa natale.

Piuttosto, forse più che essere al nord pesa l’essere molto lontano da Napoli. È vero, con quattro ore di treno sono di nuovo da mamma e papà, ma il lavoro e, in questi tempi, il Covid spesso non lo permettono. Sì, qui ho più o meno creato nuove relazioni, ci sono i miei colleghi di lavoro la cui metà proviene tutta dal sud, ma stare lontani per molti mesi dalle persone a cui tieni, dagli affetti con cui sei cresciuta e che ti hanno vista crescere pesa. La differenza tra nord e sud e tutta lì.

Se il virus cambia, cambio anche io

Se il virus cambia, cambio anche io

Cara Fabiana,

oggi a Parma nevica (28 dicembre 2020, ndr) . Non avevo mai visto così tanta neve tutta insieme, i fiocchi che percorrono una linea orizzontale trasportati dal vento, i miei piedi che affondano nel bianco.

È proprio in giornate come queste che ai miei occhi appare ancora più chiaro quanto la mia vita sia pervasa dal cambiamento. Un cambiamento che ho voluto, che ho scelto e di cui vado anche abbastanza fiera.

Non bisogna dimenticare, però, che esiste anche un altro di tipo cambiamento ed è quello a cui la vita ci sottopone senza consultarci, un vortice di avvenimenti strafottente della nostra volontà che ci trascina via con sé.

Diciamoci la verità, questo secondo tipo di cambiamento è quello più presente nella vita di ognuno di noi. Anzi, direi che è l’essenza principale della vita. Il cambiamento è vita.

Vista sotto quest’ottica, quindi, quest’anno, di vita ce n’è stata proprio tanta, densa come la cioccolata calda di cui ora avrei tanto voglia.

Una cioccolata, però, rigorosamente amara, dato che i cambiamenti di questi mesi sono stati tutt’altro che piacevoli. Un virus misterioso ha sconvolto le nostre giornate, le nostre abitudini, insomma ci ha tolto il potere di governare la nostra vita.

La sensazione è quella di essere stati costretti a un blocco, una cristallizzazione. Chiusi nelle nostre abitazioni abbiamo lavorato e studiato a distanza, rinunciato alle uscite non necessarie, ad amici e parenti. E beffa della beffa, in questi giorni inizia a circolare la notizia che, mentre noi stiamo fermi, il virus, proprio quel nemico che è causa del nostro stop, ha deciso di mutare, di cambiare appunto.

Panico? Certo che no. Che ci piaccia o no l’idea, ogni virus non è altro che un organismo già presente in natura e che tende ad adattarsi, e quindi mutare, in base alle condizioni offerte dall’ambiente che lo ospita. Insomma, è un tipo come noi, con caratteristiche molto simili alle nostre.

In quanto tipo come noi, però, qualcosa non quadra. Perché il virus continua a cambiare, mentre noi siamo bloccati? È proprio qui, l’errore, cara Fabiana. Un errore di percezione a esser precisi.

Pensaci. È vero, in questi mesi siamo stati fisicamente fermi, rallentati nelle mille cose da fare, limitati. La nostra testa, però, non conosce ostacoli architettonici è ha continuato a riceve input dall’esterno che hanno contribuito a un accrescimento di informazioni da elaborare, di esperienze. Seppur da fermi, anche se risulta difficile crederlo, in questo momento siamo i protagonisti di una delle esperienze più forti della nostra vita. Il cambiamento è inevitabile, forse molti lo capiranno più in là.

Un cambiamento personale, in seguito al quale ognuno raccoglierà i propri frutti più o meno aspri. Io spero ci sia tanta riflessione e una riconsiderazione di quali sono i veri valori della vita. Quelli che in questi mesi ci sono stati tolti, ma che avevamo già un po’ perso prima che iniziasse quest’incubo.

Quando il virus si ritirerà, non torneremo a essere quelli di prima, saremo diversi, cambiati. Il nostro cambiamento è già in itinere. Lo è sempre. Di certo, quando il velo del virus sarà strappato via, non avremo più scuse per evitare di  prendere in  considerazione quello che siamo alla luce del sole.

Diamoci una mossa e stiamo tutti fermi

Diamoci una mossa e stiamo tutti fermi

Cara Fabiana,

siamo ormai a Natale e di conseguenza agli sgoccioli di questo 2020, tanto sorprendente nel bene e nel male. Come ogni anno, bello o brutto che sia, ora è giunto il momento di lasciar spazio all’ultima signora della fila, la speranza.

La speranza, che con la sua bacchetta magica spazza via tutto ciò che è passato e apre un varco verso il futuro. Arriva il tempo dei buoni propositi, l’occasione di ricominciare, quel qualcosa di diverso che possa portare una ventata di novità nella solita routine. Che sia stato un anno di merda o un anno da ricordare, anche il migliore dei pessimisti durante ogni dicembre della sua vita, insieme alla fine vede l’inizio di qualcos’altro. La speranza, appunto.

Eppure quest’anno è diverso. Sembra che anche questa signora dai vestiti ricamati di ottimismo voglia mantenere le distanze, si fa timida, restia a farsi avanti seppur sia giunto il suo turno. Sarà la stanchezza che quest’anno, causa le molteplici ore di straordinario effettuate per gestire il panico e lo sconforto di massa, ha preso anche lei. Eh sì, perché si sa, la speranza è l’ultima a morire, ma non è detto che sia l’ultima a stancarsi.

Ironia a parte, è inutile negare che quello che stiamo per lasciarsi alla spalle è stato un anno molto difficile durante il quale siamo stati assorbiti da un vortice di regole, divieti e limitazioni. È innegabile, siamo stanchi e anche un po’ disillusi. La speranza, almeno io, l’ho messa un attimo da parte. Non perché sono rassegnata a una fine del mondo imminente, sia chiaro. Più che altro sono consapevole che non sarà sufficiente il passaggio all’anno nuovo per mettere fine a questo periodo buio della storia dell’uomo. Il primo gennaio saremo ancora chiusi in casa, a distanza l’uno dall’altro, insomma non sarà cambiato nulla. E, mi spiace dirlo, non cambierà nulla ancora per lungo tempo se non ci ficchiamo nella testa che il cambiamento parte da noi.

È vero, la speranza è l’ultima a morire ma questa volta, e in generale sempre, da sola non può farcela. E lei lo sa, ecco perché sta temporeggiando prima di fare un passo avanti. Quindi cara Fabiana, cari tutti, sarebbe bene che ognuno di noi prenda sotto braccio questa signora tanto ben voluta e l’accompagni verso la meta.

Intendo dire che dobbiamo darci una mossa, agire e non aspettare che avvenga il miracolo. Questa volta neanche San Gennaro è riuscito a farlo. E sapete qual è la bella notizia? Lo dovreste sapere perché è stata ribadita più e più volte, ma comunque la ripetiamo. Agire non è stato mai così semplice come questa volta, dato che per agire dobbiamo stare fermi. Sembra che questo non sia chiaro, che sia più importante riunirsi in famiglia, scendere a comprare i regali, fare l’aperitivo con gli amici. Menefreghismo? Ignoranza? Non so neanche come definirlo, ma di certo so che più che un atteggiamento mi sembra un’epidemia pericolosa al pari del Covid-19.

Lo so, in queste mie parole si legge un filo di arrabbiatura. In effetti è così, sono abbastanza incazzata perché ovunque io mi volti vedo gente a cui risulta difficile rispettare regole elementari. Oggi pomeriggio mentre lavavo i piatti per un attimo mi ha attraversato il pensiero che forse non sarà più possibile tornare alla vita di prima, che continueremo a vivere con una mascherina, tra un lockdown e l’altro. Ovviamente, poi, sono tornata lucida, ma comunque diamoci una mossa e restiamo tutti fermi. Si sa, la speranza è l’ultima a morire, ma chi di speranza vive disperato muore.