La volta scorsa abbiamo parlato di come un gruppo unito e compatto, privo del campione che emerge su tutti gli altri, possa essere in grado di compiere imprese eccezionali poiché i singoli calciatori realizzano se stessi all’interno di un contesto più generale. D’altra parte, però, una squadra di calcio non è la semplice somma delle sue parti. Che fine fa la diversità intrinseca delle singole individualità nella totalità di una squadra? Come può convivere una spiccata personalità, il talento, in uno schema unico? Dopo aver scomodato Hegel, è necessario chiamare in causa un altro fuoriclasse della filosofia tedesca, Immanuel Kant.
IL GENIO
Nella Critica del Giudizio (1790), il filosofo di Könisberg elabora sua personale concezione del “genio”:
«Il genio è il talento (dono naturale), che dà la regola all’arte. Poiché il talento, come facoltà produttrice innata dell’artista, appartiene anche alla natura, ci si potrebbe esprimere anche così: il genio è la disposizione innata dell’animo per mezzo della quale la natura dà la regola dell’arte» (Critica del Giudizio).
Al contrario della scoperta scientifica, che è il risultato di un metodo, quindi insegnato e imitato, la produzione artistica non segue metodi scientifici, ma si fonda su regole che provengono dalla natura. Kant identifica le prerogative del genio in tre aspetti: 1) il genio è originale; 2) il genio è capace di produrre opere esemplari, ossia che fungono da modelli per gli altri; 3) il genio non può mostrare scientificamente come compie la propria produzione. A differenza di quanto si possa pensare, il genio non è accompagnato da quella sregolatezza di cui tanto si decantano le lodi. L’originalità dell’arte deve essere sempre accompagnata dalle regole della natura, altrimenti si cadrebbe nella stravaganza. Per questo motivo, l’opera d’arte è insieme la sintesi di necessità e libertà. Per quanto libera e geniale sia infatti l’ispirazione dell’artista, egli dovrà tuttavia fare i conti con le regole del mondo della natura.
Questa concezione funziona perfettamente per capire i meccanismi di una squadra di calcio. Il campione (il genio, il talento) non deve limitare le proprie potenzialità ma deve esaltarle per metterle al servizio del gruppo. Tale modello, quindi, riesce sia a mantenere alto lo spirito complessivo della squadra sia a rispettare il ruolo di una personalità straordinaria all’interno di una complessità. Il genio che si esalta sulla base di regole ben specifiche si incarna perfettamente nella figura di Johan Cruijff e nella nazionale olandese.
IL PROFETA DEL CALCIO E L’ARANCIA MECCANICA
Nelle discussioni su chi sia il più forte calciatore di tutti, ancora oggi non si è trovata risposta certa. Il binomio Maradona-Pelè è stato ultimamente da quello composto da Cristiano Ronaldo e Messi, per rendere ancora più ardua la sentenza di noi appassionati. C’è una chiave però sulla quale tutti sono d’accordo senza lasciare spazio alle interpretazioni. Se dobbiamo soffermarci sul calciatore che più di tutti ha lasciato un segno nel calcio in senso assoluto, la risposta non può che essere Johan Cruijff. Non si parla solamente del fatto che dall’idea calcistica del fenomeno olandese siano nate quelle che rimangono le ultime rivoluzioni della storia calcio, ossia il Milan di Sacchi e il Barcellona di Guardiola (che di Cruijff è stato un allievo diretto), ma di come i suoi concetti tattici siano alla base del calcio moderno: la creazione dello spazio, il possesso palla e la circolazione del pallone, il falso nueve, l’inserimento in area dei terzini. Tutto ciò realizza la visione di un calcio che vedeva nell’organizzazione collettiva l’esaltazione della singola genialità. E il genio è Johan Cruijff, nemmeno a dirlo. Difficilmente inquadrabile in un ruolo specifico, sapeva unire il senso della posizione di un difensore, le doti di impostazione di un regista e la reattività di un attaccante. Dal suo talento prende vita il ciclo leggendario dell’Ajax e del calcio olandese: con i Lancieri vincerà, dal 1964 al 1973, 6 Campionati, 4 Coppe dei Paesi Bassi e alzerà per 3 anni consecutivi la Coppa dei Campioni, dal 1971 al 1973. Nel ’71, nel’72 e nel ’74 vince il Pallone d’Oro, il primo a riuscirci. Nel pieno del suo splendore calcistico lascia l’Ajax e l’Olanda, e si trasferisce, nel 1973, al Barcellona che riporta subito al titolo, dopo 13 anni di digiuno e di dominio del Real Madrid. Cruijff è il primo violino di quella meravigliosa e sfortunata orchestra che sarà la nazionale olandese ai Mondiali del 1974, l’Arancia Meccanica. Il gioco dell’Olanda di Cruijff, allenata dal leggendario Rinus Michels, passerà alla storia come calcio totale, per la fluidità interpretativa da parte di ogni singolo componente della squadra: tutti partecipano alla manovra d’attacco, tutti si fanno carico delle mansioni di copertura nella fase di difesa. Quando un giocatore passa la palla al proprio compagno, egli prenderà successivamente il suo posto in quella zona del campo, in modo da coprire tutti gli spazi. Il talento di Cruijff è perfettamente inserito in questa macchina quasi perfetta. Quasi perfetta perché il sogno di vincere la Coppa del Mondo sbatte sulla Germania Ovest di Franz Beckenbauer e Gerd Müller, che nella finale di Monaco di Baviera si impone per 2-1. Uno dei pochissimi casi in cui un secondo posto riesce a rubare la scena a un primo perché «i risultati finiscono sugli almanacchi, lo spettacolo resta nella memoria» (Fabrizio Tanzilli, Lo spazio della libertà).
«Il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti» affermava Arrigo Sacchi. È lo sport più praticato ma anche quello più discusso dentro lo stadio e fuori (il confine tra un tribunale e un bar è molto sottile). Tutti ci improvvisiamo allenatori esperti e fini commentatori e spesso le rivalità tra tifoserie finiscono per diventare delle vere e proprie lotte ideologiche.
Il calcio è la più splendida metafora della vita che possa esserci. È necessario saper controllare la palla per poter concretizzare delle azioni vincenti. Il controllo individuale però non basta per poter segnare. La palla va passata, va messa in gioco coinvolgendo i propri compagni. Va, cioè, rischiata affinché si possa vincere. La stessa cosa si può dire della nostra esistenza. Abbiamo bisogno di controllo e di giocare per poterci affermare.
Ma come detto, da soli non si vince. Il calcio è uno sport di squadra, non individuale. A volte è controproducente comprare gli undici giocatori più forti per ruolo per creare una squadra vincente. Il “gioco di squadra” è un’espressione che va al di là delle individualità. Per comprenderlo al meglio si può far riferimento a uno dei più importanti filosofi della storia, Hegel e al suo concetto di Stato.
HEGEL E IL CONCETTO DI STATO
All’interno della vasta produzione hegeliana, lo Stato rappresenta una nozione fondamentale, come dimostrano le pagine che il filosofo tedesco gli dedica nell’Enciclopediadelle scienze filosofiche e nei Lineamenti della filosofia del diritto.
Per Hegel lo Stato rappresenta il primo principio rispetto alla famiglia e alla società civile. Questa concezione può risultare “assurda” se ci si basa sull’osservazione empirica: senza la componente primaria del nucleo familiare (come sosteneva Aristotele, ad esempio) non sarà possibile raggiungere una totalità che andrà a formare per primo la società civile e successivamente lo Stato. In che senso allora leggere questo venir prima dello Stato? Il primato dello Stato va letto non in un senso cronologico ma finalistico. La famiglia e la società civile realizzano se stesse (la propria “volontà” per usare un termine hegeliano) solo all’interno dello Stato. Lo Stato viene prima perché famiglia e società civile sono finalisticamente orientate alla realizzazione della loro volontà all’interno dello Stato.
Alla luce di questa lettura, è più facile adesso comprendere cosa si intende per “gioco di squadra”. Senza i giocatori, ovviamente, una squadra di calcio non può esistere ma il singolo può realizzare se stesso solo all’interno di una squadra e di una totalità.
Proprio a partire da tali riflessioni, vogliamo raccontarvi tre delle imprese calcistiche più belle degli anni 2000, anni in cui i successi sono direttamente proporzionali al denaro che spendi. Tre storie di squadre in cui non era presente nessuna stella affermata, ma capaci di sfidare le potenti logiche del calcio moderno attraverso l’unione del gruppo.
“Dillyding dillydong”. L’IMPRESA DEL LEICESTER
Favola è il termine più giusto per sintetizzare la cavalcata di una squadra che nel giro di un anno si ritrova prima a lottare per non retrocedere e poi a salire sul tetto d’Inghilterra. La vittoria della Premier Leugue del Leicester nella stagione 2015/2016 è, ad oggi, l’ultima impresa calcistica che si ricordi. Nell’estate del 2015 le “Foxies” ingaggiano l’allenatore italiano Claudio Ranieri, reduce da un’avventura a dir poco fallimentare con la nazionale greca, con l’intenzione di agganciare una salvezza tranquilla, raggiunta solo alla terzultima giornata la passata stagione. Pur avendo alle spalle una società molto ricca (il purtroppo scomparso presidente del Leicester, Vichai Srivaddhanaprabha, era il proprietario della King Power, la più grande compagnia mondiale ad operare nel settore dei duty-free), non può certo competere con le altre corazzate inglesi come il Manchester City, Il Manchester United, Chelsea, Arsenal, Tottenham, Liverpool. Ma in campo non scendono i milioni e il Leicester riesce a mettere in fila le più grandi e a vincere il campionato grazie alle parate di Kasper Schmeichel (vissuto sempre all’ombra del padre), alla classe di Mahrez (quattro anni prima giocava nella squadra delle riserve del Le Havre), alla grinta di Kanté (acquistato dal Caen come seconda scelta perché la società non era riuscita a prendere Veretout), ai gol di Vardy (fino a cinque anni lavorava come operaio e giocava in una squadra di dilettanti) e alla guida di Ranieri, considerato ormai un allenatore di poco conto. Quest’anno il Leicester si aggira tra le parti alte della classifica. Chissà …
EURO 2004 COME MARATONA. LA GRECIA DEI MIRACOLI
Quando si parla di miracolo sportivo non si può non far riferimento alla vittoria della nazionale greca nel campionato europeo del 2004. La squadra guidata dal ct tedesco Otto Rehhegel ha saputo incarnare lo spirito epico degno degli opliti che a Maratona nel 490 a.C. riuscirono a scacciare l’esercito persiano. La vittoria di Euro 2004 ha saputo unire un popolo storicamente poco avvezzo all’unità. Priva di nomi di assoluto rilievo, Rehhagel ha saputo creare una squadra tatticamente perfetta. Dopo aver vinto per 2 a 1 la partita inaugurale contro il Portogallo padrone di casa, la nazionale ellenica riesce a passare alla fase eliminatoria solo per la maggiore differenza reti con la Spagna (entrambe a quattro punti). Dopo aver eliminato la Francia campione in carica e la Repubblica Ceca in semifinale, La Grecia batte in finale ancora il Portogallo. Tutte e tre le partite della fase eliminatorie finiscono con il risultato di 1 a 0 per i greci, a sottolineare la capacità e bravura di saper sfruttare le poche occasioni che venivano create. È così allora che nell’estate del 2004, calciatori come Charisteas e Zagorakis possono venire tranquillamente paragonati a Milziade e a Temistocle, i più grandi condottieri dell’antica Grecia. Come ha scritto il giornalista Kostantinos Lianos: «Per gli americani, il 4 luglio è l’Independence Day. Noi greci, invece, festeggiamo ogni anno la vittoria più inattesa nella storia del calcio. E un sentimento di unità che non abbiamo mai più ritrovato».
A UN PASSO DALLA GLORIA. IL SOGNO DEL CALAIS
A volte non è necessario il lieto fine affinché una storia possa definirsi favola. A volte un finale amaro rende una storia dannata e quindi più romantica. Ma tutto sommato questa storia un lieto fine ce l’ha perché potrebbe essere la storia di tutti noi, persone normali, che il pallone lo vediamo come una passione, che giochiamo non per i soldi ma perché amiamo l’odore dell’erba e la fatica dopo una partita. Nel 2000, una piccola squadra militante in quarta divisione del nord della Francia composta da operai, insegnanti e magazzinieri decide di scrivere la storia e di sfidare le grandi del calcio transalpino fino ad arrivare in finale di Coppa di Francia. Quasi per gioco, il Calais si iscrive alla competizione poiché le regole del calcio francese consentono anche a una squadra dilettantistica di partecipare alla coppa. I “Canarini”, guidati dal tecnico ispano-francese Ladislas Lozano, dopo una serie interminabili di turni preliminari buttano fuori dal torneo una dopo l’altra Lille, Cannes, Strasburgo e Bordeaux (i campioni di Francia!). Il sogno del Calais però si interrompe proprio sul bello. Allo Stade de France di Parigi, in finale contro il Nantes, nonostante abbia chiuso il primo tempo sull’1 a 0, il Calais perde 2 a 1 all’ultimo minuto con un rigore alquanto dubbio. Ma non importa, essere arrivati fino a questo punto per quei ragazzi come noi è già una vittoria. Quando il capitano del Nantes, Landreau che alza la coppa insieme a quello del Calais, Beque, noi abbiamo solamente occhi per il Canarino, in quella che resta la sconfitta più dolce della storia del calcio.
Fin dall’antichità l’essere umano ha avuto bisogno di raccontarsi delle storie per interpretare la propria esistenza e ciò che lo circonda. La natura, la vita e la morte si manifestano come un insieme di immagini prive di significato e le storie, i miti per la precisione, appaiono come uno strumento per ordinare la realtà, per spiegare le contraddizioni dell’essere e le leggi della natura, per individuare le regole del bene e del male. La parola “mito” deriva dal greco mythos e vuol dire, appunto “storia”, “racconto”. Al proprio interno il mito contiene una trama con dei personaggi e delle vicende che si susseguono. Oggi, come in passato, per comunicare messaggi di difficile comprensione, si utilizzano dei racconti il cui fine ultimo è quello di giungere a significati più profondi. Dapprima si coglierà solo il lato formale del racconto ma poi, con il passare del tempo, si potrà giungere ai significati più reconditi. L’essenza del mito è quella dunque di far cogliere, attraverso il coinvolgimento emotivo, i principi ultimi dell’universo mediante la narrazione.
I miti e le storie appartengo alla tradizione dell’umanità fin dalla notte dei tempi. Dai miti greci alla Bibbia, dalle favole di Esopo alle fiabe dei fratelli Grimm, ognuno di questi racconti ha cercato di dare un senso al mondo in cui viviamo. Da questa prospettiva, i film possono essere considerati dei miti contemporanei. Se ci sono delle pellicole che alla fine ci fanno riflettere e porre domande sull’esistenza, allora svolgono con precisione il loro compito di mito. In questo senso, Soul, l’ultimo film della Pixar, disponibile sulla piattaforma Disney+ dal 25 dicembre, assume i contorni del mito. A partire da una storia semplice, il film si interroga sulla domanda esistenziale per eccellenza: “Qual è il senso della vita?”.
Protagonista del film è Joe Gardner, insegnante di musica insoddisfatto in una scuola media di New York che sogna di diventare, senza successo, un grande musicista jazz. Nel giorno stesso in cui gli viene assicurato il tanto aspirato “posto fisso” come professore (e con tutti i vantaggi che ne derivano come assicurazione, assistenza medica, pensione), riesce finalmente a conquistare il suo sogno: suonare in quartetto jazz assieme a una delle più grandi musiciste viventi, Dorothea Williams. Il suo scopo sembra essersi realizzato. Joe è così euforico che presta poca attenzione a dove cammina e finisce per cadere in un tombino. Improvvisamente si ritrova su una lunga passerella nera che scorre incessantemente verso una luminosa e indefinita sfera bianca. L’anima di Joe si è staccata dal corpo e quella sfera è l’Altro Mondo. Il musicista non vuole morire proprio ora che ha realizzato il suo sogno più grande e corre disperato cercando di trovare una soluzione. Nel tentativo di fuggire, Joe finisce però nell’Ante Mondo (detto anche “Io Seminario”), il luogo dove le anime dei futuri nascituri vengono plasmate nella personalità e educate alla vita dai mentori, delle illustri personalità che hanno saputo vivere e che le formano trovando loro una passione che le accompagnerà durante la vita sulla Terra.
Joe viene scambiato per un mentore e gli viene assegnata “22”, un’anima ribelle rimasta nell’Ante Mondo per millenni la quale non riesce a trovare la propria “scintilla” – lo scopo che le permetterà di incarnarsi in una vita nel mondo –, nonostante abbia avuto mentori illustri come Jung, Copernico o Madre Teresa di Calcutta. Joe e 22 stringono allora un accordo: lui avrebbe aiutato 22 a trovare la propria scintilla per poterla usare per tornare sulla Terra e poter suonare con la band.
È palese l’ispirazione del regista Peter Dector al mito di Er, narrato da Platone nella Repubblica. Esso racconta di un soldato valoroso morto in battaglia, originario della Panfilia, Er appunto, figlio di Armenio. Dopo che il suo corpo fu portato sul rogo per essere arso come da tradizione, tornò in vita e si mise a raccontare quello che vide nell’Al di là. Una volta uscita dal corpo, la sua anima si incamminò insieme alle altre arrivando in un luogo divino dove si aprivano due voragini in terra e due in cielo. Al centro di esse si trovavano i giudici, i quali ordinavano ai giusti di salire a destra in cielo e agli ingiusti di scendere a sinistra nelle profondità della terra. Gli stessi giudici ordinarono a Er di assistere e di riferire agli uomini ciò che accade nell’Al di là. Gli ingiusti venivano puniti con una pena che corrispondeva a dieci volte il male commesso. I giusti venivano premiati mediante la stessa proporzione. Concluso il periodo prestabilito dei premi e delle punizioni, che corrispondeva a mille anni, le anime ritornavano, attraverso le altre due voragini, al punto di partenza, dove rimanevano per sette giorni. All’ottavo giorno erano costrette ad incamminarsi al cospetto della Necessità e delle sue figlie, le Moire: Lachesi rappresentava il passato, Cloto il presente e Atropo il futuro. A quel punto un banditore prese dalle ginocchia di Lachesi i vari modelli di vita – in numero maggiore rispetto alle anime presenti – e li schierò a terra ordinatamente. Qui Platone capovolge un fondamento nel quale l’uomo greco ha sempre creduto: la vita non è più soggetta ad un fato necessario al quale non è possibile porre rimedio. Il destino dipende dall’uomo perché egli stesso può scegliere il demone che lo accompagnerà per tutta la vita (eudaimonia, “benessere”, vuol dire appunto “essere accompagnati da un buon demone”). Ma così come può scegliere un buon demone, può sceglierne anche uno malvagio. Ogni anima, quindi, era chiamata a scegliere il proprio destino secondo un ordine prestabilito. Solitamente, le anime che provenivano dal cielo effettuavano scelte avventate perché erano inesperte di sofferenza, scegliendo ad esempio vite di tiranni, attratte dall’apparente felicità. Le anime provenienti dal basso sceglievano con giudizio le loro vite successive, memori delle sofferenze patite. La maggior parte delle anime sceglieva, però, in base allo stile di vita precedente: per esempio, l’anima di Odisseo, dopo aver vissuto un’esistenza travagliata, preferì scegliere la vita di un uomo tranquillo qualsiasi. Dopo la scelta, ogni anima riceverà da Lachesi il proprio demone; Cloto confermerà la scelta del destino; Atropo lo renderà immutabile. Successivamente, tutte le anime sono costrette a bere l’acqua del fiume Amelete, così da dimenticare l’accaduto (Lethe in greco vuol dire “dimenticanza”).
Il film sembra ispirarsi anche alla “teoria della ghianda” dello psicanalista americano James Hillman. Riprendendo Platone, ne Il codice dell’anima egli sosteneva che ogni individuo viene al mondo con una forma unica e irrepetibile che ci contraddistingue, il daimon, che chiede di essere realizzata per portare felicità nella propria vita. Questa forma è la particolarità che ogni essere umano porta dentro di sé, caratterizzata da quei talenti, passioni e attitudini predeterminati dal demone interiore ma che dimentichiamo al momento della nascita. Come la ghianda sboccerà e diventerà una quercia poiché ne racchiude il potenziale, così ogni individuo è destinato a realizzare il destino racchiuso nel daimon.
La scintilla del film sembra essere dunque ciò che Hillman introduce nella teoria della ghianda, lo scopo per cui ogni essere umano sembra destinato a compiere. Ma Soul va al di là delle teorie psicanalitiche e ci insegna che scintilla non è lo scopo. La passione e il talento non determinano necessariamente quello che dobbiamo essere. Saper fare una cosa, come saper suonare il piano o essere un campione di calcio, non vuol dire che quella cosa ci faccia star bene. Molte volte il talento può trasformarsi in vera e propria ossessione, determinando il distacco dalla vita. La scintilla è dunque la presa di consapevolezza che la vita non va vissuta per uno scopo ma con uno scopo, ossia assaporarne ogni istante. Quando, nel corso della trama, 22 si incarnerà per sbaglio in un corpo, tutte le sue ansie e le paure di vivere spariranno. Sperimenterà quanto può essere gustoso assaporare un pezzo di pizza appena sfornato, parlare del più e del meno con il barbiere, ascoltare con passione una canzone, lasciarsi trasportare dai colori e dagli odori dell’autunno. La scintilla appare solo quando si è pronti a vivere. «Magari la mia scintilla è guardare il cielo blu o camminare. Sono davvero brava a camminare!» afferma 22. Questa è la scintilla: vivere. Questo significa jazzare!
Alla fine del primo The Last of Us, Joel ed Ellie sembrano aver trovato un faticoso equilibrio tra le mura di Jackson, nel Wyoming, una comunità autonoma e apparentemente al sicuro dai dolori di un mondo ormai lacerto dall’infezione del Cordyceps. Un equilibrio scandito da musica e da gite al museo di scienze naturali, attimi di semplice umanità ma che in un contesto malato assumono un significato salvifico e purificatore. Un equilibrio costantemente minacciato dal peso di una bugia che ha definitivamente condannato il mondo alla dannazione, ma che rappresenta il più estremo atto d’amore mai compiuto. È da queste premesse che prende avvio la storia di The Last of Us – Parte II.
Il gioco costruisce un intreccio narrativo monumentale, con una trama guidata dal sentimento primitivo della vendetta. Attraverso una scrittura dei personaggi al dir poco sensazionale, The Last of Us – Parte II mette in scena una storia rivoluzionaria, con improvvisi e inaspettati cambi di prospettiva che costringono il videogiocatore a dubitare persino delle proprie convinzioni. La narrazione ci costringe a prendere decisioni che non avremmo mai immaginato di compiere, lasciandoci storditi e increduli. Ancor più del primo capitolo, la Parte II ci consegna un mondo le cui azioni vanno al di là dei giudizi morali tradizionali. Bene e male lasciano spazio a sentimenti ancestrali e primordiali dettati dall’istinto umano della sopravvivenza. The Last of Us– Parte II ci presenta un mondo sfumato di grigio, in cui il bianco e il nero non esistono più. Per tutti questi motivi, The Last of Us- Parte II rappresenta una pietra miliare nel panorama videoludico contemporaneo e punto di riferimento obbligatorio delle prossime generazioni, tanto da meritare il premio come miglior gioco del 2020. Ma raffigura molto di più. Infatti questa cornice non vuole essere l’introduzione di una più vasta recensione del titolo. Il mio obiettivo è cercare di analizzare filosoficamente alcuni aspetti della trama ma soprattutto per dimostrare che questo titolo rappresenta molto più di un semplice videogioco.
HOMO HOMINIS “INFECTUS”: LUPI E IENE
A seguito della disgregazione sociale dovuta allo scoppio della pandemia, la popolazione degli Stati Uniti si è divisa in una serie di organizzazioni, culti e bande volte soprattutto a contrastare la tirannia dell’esercito, il quale aveva preso il sopravvento dopo la caduta dei governi. Nel primo capitolo avevamo fatto la conoscenza delle Luci, un gruppo paramilitare che aveva lo scopo di ristabilire una qualche forma di istituzione politica. A Seattle, città in cui svolgono le vicende della Parte II, il malcontento per le azioni dell’esercito ha dato vita a due organizzazioni distinte e separate.
La prima è il Washinton Liberation Front, capitanati da Isaac Dixon, i cui membri si fanno chiamare “Lupi” (l’acronimo WLF ricorda la parola inglese Wolf). Dopo aver scacciato la FEDRA (l’esercito) a seguito di una violenta battaglia, il WLF acquisisce il controllo dell’intera Zona di Quarantena di Seattle. Per cercare di amministrare al meglio i sopravvissuti, Isaac ha ordinato di far trasferire la popolazione all’interno dell’enorme stadio della città in cui ha fatto costruire scuole, palestre, mense e tutto ciò che potesse ricordare una struttura civilizzata. Avendo sottratto all’esercito ogni sorta di equipaggiamento, i Lupi hanno acquisito una potenza di fuoco senza pari cominciando però a compiere azioni poco considerevoli. Infatti, tutti coloro che erano contrari alle leggi del “branco” venivano espulsi dalla comunità o giustiziati. Assumendo un atteggiamento xenofobo nei confronti degli stranieri, i prigionieri venivano torturati in vere e proprie stanze degli orrori all’interno dello stadio.
Accanto al WLF troviamo il culto religioso dei Serafiti, rinominati con disprezzo “Iene”. La setta era guidata da donna una donna misteriosa, convinta che l’infezione cerebrale da Cordyceps fosse un castigo divino abbattutasi sull’umanità, schiava della tecnologia e dei beni materiali. Da poche centinaia di adepti, il culto di trasforma in una vera e propria e comunità e si su di un’isola a poche miglia dalla costa di Seattle fondando perfino una piccola città, Haven. Lontani dagli orrori della malattia e della guerra, i Serafiti si organizzano in una società rurale e distaccata da ogni forma di tecnologia. Costruiscono fattorie, campi da coltivare e vivono in case di legno. La profetessa fissa su carta il credo del culto lanciando messaggi di pace, amore e speranza. Come però spesso è accaduto nella storia, alla morte della donna, le nuove guide della comunità, gli Anziani, hanno cominciato a interpretare il culto a proprio vantaggio. Essi hanno ordinato di costruire altari votivi e statue in onore della profetessa e imposto ai membri della comunità di impararne le scritture. Pretendevano la totale sottomissione al culto, esigevano il cibo più pregiato e potevano chiedere in sposa perfino delle adolescenti. Da ora in poi, gli uomini erano obbligati a rasarsi barba e capelli e le donne ad acconciarsi i capelli con una treccia a forma di corona e a tagliarsi le guance.
Divenuti abilissimi nell’utilizzo dell’arco, i Serafiti iniziarono a compiere atti brutali e barbarici. Il più violento era quello di appendere al collo le vittime e sventrale vive. I cultisti erano convinti che solo in questo modo le vittime potessero purificarsi dai peccati.
Inevitabilmente, con il passare del tempo sono scoppiati degli attriti tra i Lupi e le Iene, fino a sfociare in una vera e propria guerra di sterminio del gruppo opposto, le cui origini sono del tutto ignote, con atrocità da entrambe le parti e con un numero incalcolabile di vittime. Tutta questa malvagità è estremamente coerente con il contesto violento di The Last of Us – Parte II in cui bene e male hanno lasciato il posto ad un’umanità imperfetta e brutale, il cui unico scopo è di sopravvivere a qualunque costo. Con la caduta della civiltà e della legge, gli uomini sono stati relegati in uno “stato di natura” primitivo. Molti filosofi, da Platone a Rousseau, hanno teorizzato questo concetto, ma è nel filosofo inglese Thomas Hobbesche questa condizione assume lo stesso significato pessimistico presente nel mondo di The Last of Us.
Nel Leviatano, testo del 1651, monumento della filosofia politica moderna, a dispetto delle credenze tradizionali, Hobbes nega che l’uomo sia per natura un animale socievole e politico. Ciò che spinge l’uomo ad organizzarsi in strutture comunitarie è solo il bisogno e la reciproca paura. Lo “stato di natura” è quindi quell’ipotetica condizione in cui gli uomini, ancora privi delle leggi, sono spinti dal proprio egoismo a perseguire i propri interessi a discapito di tutti gli altri. Tutti hanno il diritto su tutti e su tutto. Dall’esercizio di questo diritto deriva necessariamente la guerra di tutti contro tutti. Tale condizione rappresenta la situazione inevitabile dello stato di natura, in cui l’uomo, avendo diritto su tutto, perfino sulla vita altrui, risulta essere un “lupo” verso l’altro uomo (homo homini lupus). È bene sottolineare come per il filosofo inglese, lo stato di natura rappresenti solamente un’ipotesi poiché, se in un determinato momento storico l’umanità fosse venuta a trovarsi nella condizione di guerra di tutti contro tutti essa si sarebbe sicuramente estinta. Gli uomini però sono in grado di uscire dallo stato di natura solo seguendo i suggerimenti della ragione, cioè la facoltà di prevedere e calcolare i pericoli futuri. Grazie a questa facoltà, l’uomo riesce ad individuare alcuni precetti volti a sottrarlo dalla condizione di miseria di partenza e a garantirgli una migliore condizione di vita. Questi precetti sono le cosiddette “leggi di natura”, delle leggi scoperte dalla ragione che vietano agli uomini tutto ciò che è lesivo a se stessi e agli altri. Rinunciando ai propri poteri su tutto, gli uomini stipulano un contratto sociale in cui nasce lo Stato civile e trasferiscono i propri diritti a un sovrano. Il sovrano garantisce l’irreversibilità e l’unilateralità del patto sociale, concentrando su di sé ogni forma di forza e di potere. Come abbiamo visto, anche nel mondo di The Last of Us gli uomini sono portati inevitabilmente a raggrupparsi in comunità per poter fronteggiare le nuove insidie che il nuovo mondo presenta. Nonostante ciò, nonostante la malattia che incombe sulle vite di tutti, gli uomini non hanno rinunciato al proprio egoismo in nome di ideali pacifici e comunitari. In un mondo in cui le risorse scarseggiano e la morte è sempre in agguato, l’uomo mostra tutta la sua natura violenta ed egoistica, spingendosi, in situazioni estreme, anche a compiere atti di cannibalismo. I veri innocenti non sono coloro che muoiono di morte violenta per mano di altri uomini ma gli infetti, vittime di una natura cinica e malvagia, anch’essa vittima dell’egoismo dell’uomo.
IL RAGAZZO IN RIVOLTA
Delusi dalle logiche dei gruppi ai quali appartenevano, alcuni dissidenti hanno deciso di abbandonare il WLF e i Serafiti in nome di valori più alti, in nome di un’umanità e di una libertà che la guerra stava distruggendo. Uno dei casi più significativi è sicuramente quello di Lev, ragazzino che a un certo punto abbandona i Serafiti per seguire la propria strada. In realtà Lev si chiama Lily ed è una ragazza. Il suo destino è lo stesso di tante altre sue coetanee: diventare la sposa di uno degli Anziani. A Lily tutto questo non sta bene. Non sente che propria la sorte che le spetta, non è a suo agio in un corpo femminile. Decide così di rasarsi i capelli a zero, di indossare abiti femminili e di farsi chiamare Lev. Tutte queste azioni non passano di certo inosservate agli occhi dogmatici degli adepti e quindi il ragazzo è costretto a fuggire, supportato da sua sorella Yara. Lev ha quindi svelato la sua vera natura a discapito di un ordine precostituito che la voleva castrata. Il ragazzo ha compiuto una vera e propria rivolta atta a far emergere la sua essenza più vera e profonda.
La rivolta è un concetto approfondito dallo scrittore e filosofo francese Albert Camus. Ne L’uomo in rivolta (1951) Camus afferma che dire di no è la cifra essenziale della rivolta. La negazione dell’ordine costituito è la prerogativa, primaria ed essenziale dell’uomo che si rivolta, il quale non accetta una situazione data. Non è un no autorefernziale e fine a se stesso. L’uomo che si rivolta, nella misura in cui dice no ad un ordine costituito, dice di sì a valori ulteriori per i quali appunto si rivolta. Nella rivolta l’uomo acquista coscienza della propria natura oltraggiata e ricerca valori più alti o meglio, più propri. Il senso della rivolta di Lev risiede quindi nella scoperta della propria natura che vuole liberarsi dalle catene che l’opprimono. Egli, attraverso un atto rivoltoso, si rasa i capelli e abbandona i Serafiti. È sicuramente spaventato e timoroso per il futuro che gli aspetta, ma è un futuro che riuscirà ad affrontare con la consapevolezza della sua vera natura.
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