da Andrea Cerrito | Ott 11, 2021 | Lo sbriglialacci
Instagram, Facebook, Twitter e tutta l’allegra comitiva del mondo social di internet ha creato un luogo etereo in cui ciascuno di noi si immerge con la sua identità, frutto dell’interazione tra esperienze di vita e caratteristiche innate come temperamento e sensibilità agli stimoli. Questo mondo permette a chi ne fa parte di mettere in mostra gli aspetti di sé che ciascuno dei partecipanti ritiene più importanti per permettere al resto della comunità di conoscerlo. Ma perché l’immagine proposta, spesso, si allontana così tanto da quella propinata nel mondo reale e tangibile? Tutto merito del narcisismo…o colpa!
Fin dalla nascita ognuno di noi è impegnato a costruire il mondo in cui vive attraverso la percezione dell’ambiente circostante: quando questo mondo assume una struttura abbastanza stabile (parliamo di un’età che si aggira intorno ai 3 anni) inizia quel processo di costruzione che camminerà in parallelo con noi fino alla fine: la costruzione dell’identità. Questo perché, in poche parole, durante i primi anni di vita impariamo, per prima cosa, che siamo un’entità distinta e fisicamente separata da nostra madre, dalla persona, cioè, che ci nutre sia concretamente che psichicamente. Difatti, oltre al latte, nostra madre ci insegna a pensare nel vero senso della parola e in questa sede sarebbe troppo lungo approfondire il concetto. Sta di fatto che la costruzione dell’identità prende inizio dal momento in cui ci si rende conto di poter fare cose anche lontani dalla mamma e, non a caso, questo processo inizia con la scuola materna, ossia, dal momento in cui entriamo in relazione con altri bambini. Se capiamo che siamo enti separati da nostra madre quando ci rendiamo conto che sappiamo fare delle cose in autonomia (per rendere l’idea, mi riferisco banalmente al momento in cui un bambino impara a mangiare da solo senza dover essere imboccato per forza), ci rendiamo subito conto che ci sono azioni accettate e altre no a partire dalle risposte che nostra madre ci fornisce.
Arriva un momento in cui le risposte materne non bastano semplicemente perché, intanto, il mondo è diventato più grande e si è popolato di altre persone. Per questo ognuno di noi sente di dover cercare conferma della bontà del proprio operato attraverso quello che la gente pensa di ciò che fa. Ma perché è così importante sapere cosa ne pensa la gente di noi?
La risposta sta nel fatto che, per completare quel processo di distinzione dalla propria madre, lo scatto in avanti è costituito in prima istanza dall’innamorarsi di sé. Mi spiego meglio: fino a un certo punto pensavamo fossimo una sola cosa con chi ci dava da mangiare, ci calmava per farci dormire e ci insegnava letteralmente a pensare; poi iniziamo a fare cose autonomamente e il semplice fatto di riuscire a farlo da soli ci piace e ci restituisce la sensazione di poter dominare il mondo (sì, a 2-3 anni ci si sente proprio onnipotenti solo perché siamo riusciti ad inserire il triangolo nel foro giusto del giochino); questa sensazione, perché ci piace, la ricerchiamo e proviamo ad aumentarne l’intensità, per questo abbiamo bisogno che nostra madre confermi la nostra teoria di essere onnipotenti (e lo fa ogni volta che ci dice “Bravooo” ad ogni minima cosa che impariamo a fare); quando il nostro mondo aumenta di popolazione proviamo a ricercare la stessa sensazione ma ci rendiamo conto di non avere a che fare con colei che ci nutre e ci calma e, quindi, impariamo ad ottenere gratificazione per quel che facciamo in modi che, col passare degli anni, diventano sempre più raffinati. Tutto questo polpettone serve a capire cos’è quello che qualcuno più bravo di me ha definito più di 100 anni fa narcisismo primario. Da quel momento la teoria, ovviamente, è cambiata e anche di molto, ma il concetto alla base rimane sempre lo stesso che ho appena descritto.
La gratificazione narcisistica sarà uno dei principali promotori dello sviluppo della nostra identità e sarà uno degli indicatori della forza della nostra personalità. Fin qui abbiamo parlato del narcisismo primario, quello buono per intenderci, non il narcisismo che si può dedurre dal mito greco di Narciso. Quest’ultimo prende vita a partire dal narcisismo sano e se ne discosta per piccole caratteristiche che, coltivate nella psiche, diventano promotori di malessere psicologico. Se la ricerca di gratificazione è secondaria al compimento di un’azione finalizzata a modificare l’ambiente secondo un nostro obiettivo, quando l’obiettivo diventa soltanto quello di sentirsi riconosciuti come “bravi” dagli altri, in quel momento si passa dall’alimentare un narcisismo sano a uno patologico.
Il mondo dei social network permette di mettere in mostra le proprie opinioni in modo più rapido rispetto al mondo reale. La trappola, o meglio il trappolone social, risiede proprio nella facilità con cui è possibile pubblicare contenuti al solo scopo di ottenere un “Like”, un commento o un’interazione virtuale, lasciando in secondo piano ciò che dovrebbe essere più importante: esprimersi per apportare modifiche al mondo secondo un obiettivo prefissato.
I social network, di per sé, non sono intrinsecamente programmati per permettere l’autoesaltazione a tutti i costi. Il problema è che chi li ha diffusi non si è reso conto che il meccanismo alla loro base ricalca un processo mentale che sta alla base della vita psichica e della costruzione dell’identità; un qualcosa che noi operiamo senza nemmeno rendercene conto fin dai primi giorni della nostra esistenza, nessuno escluso!
da Antonio Lepore | Ott 8, 2021 | Riflessioni non richieste
Eccoci qua, con le nostre mani sporche di sborra e ciambelline a ticchettare sulla tastiera per condividere l’ennesimo post teso a delineare un evidente confine tra bene e male. Bene, ora che sembriamo migliori dell’idiota che ha tirato un cazzotto ad un immigrato, possiamo sederci davanti al bar e bere l’ennesima birra con gli amici, magari incazzandoci con l’indiano e le rose. Non indignatevi mentre leggete queste parole, siamo tutti colpevoli. Non ci sono assoluzioni, siamo tutti sulla stessa barca, quindi almeno facciamoci compagnia.
Ora che ci penso bene, mi pare di vivere un film horror sudcoreano. Nella mia stanzetta buia accendo il pc, login e decido di diventare un’altra persona. Più attraente (?), più affascinante, più profonda: citazioni del cazzo, canzoni che in realtà mi rompono i coglioni, istantanee per urlare agli altri che la mia vita non fa schifo e così avvio il processo che mi permette di uccidere la mia reale identità.
Qui non è permesso essere se stessi. È vietato avere dubbi, è consentito sparare a chi ha il passo incerto. Quindi mi metto in viaggio, chiedo a Fabio Volo di perdonarmi e vivo la vita di un 29enne eccellentemente acculturato. Tra queste quattro pareti ascolto esclusivamente cantautorato elegante, leggo romanzi che circolano nei circoletti di sinistra e guardo con sospetto la simpatia dei boomer. A volte mi concedo il lusso di una battuta sarcastica, appena sufficiente per dimostrare la mia superiorità rispetto al popolino. Mi tengo ben distante dagli argomenti caldi, tipo la disputa tra grassi e magri. Avere paura dei tuoi pensieri reali: altra regola di questo fight club. E devo ammettere che la maggior parte dei vigilanti ha la faccia di chi invoca la libertà di pensiero e poi ti massacrano di botte se fai notare che forse è sbagliato vedere tutto bianco o tutto nero, che ci sono le sfumature di umanità (e meno male).
Non devo sbagliare nessuna mossa: l’identità percepita è fondamentale. Quello che sono non conta più un cazzo, lo volete capire?
da Fabiana Carcatella | Ott 7, 2021 | La raccomandata
Cara Fabiana,
quando scorro i ricordi di Facebook, un po’ mi vergogno. Non prenderla a male, ma proprio non riesco a concepire come potessi scrivere e pubblicare certe cose. In queste occasioni non mi riconosco in te, eppure io ero proprio te.
Non ce l’ho con te, sia chiaro, più che altro vedo la tua ingenuità, quel non conoscere le cose a fondo che ti portava ad assumere atteggiamenti di massa. Ed ecco continui post di aggiornamento su cosa facevi, dov’eri, cosa dovevi fare, dove saresti andata.
Se a quei tempi qualcuno ti avesse voluto male, avrebbe avuto tutti gli strumenti per agire. Per fortuna, non è stato così, ma a posteriori questa osservazione fa riflettere.
Nella società odierna i concetti di identità reale e identità percepita appaiono sempre meno sovrapposti. I social rappresentano un mondo parallelo dove il più delle volte ogni individuo mette in vetrina uno sconosciuto, uguale alla maggior parte delle persone, ma non a se stesso.
Questo fenomeno appare chiaro scorrendo i video di Tit Tok che, per un processo a me sconosciuto, mi appaiono su Instagram. Tutti uguali, tutti a fare lo stesso balletto, tutti con la base musicale del momento. Sì, può essere anche divertente, ma quale tratto distingue di preciso la protagonista di un video da quello del video precedente? Cosa cambia tra la foto provocante della mia vicina di casa e quella della tizia che non vedo da una vita? Apparentemente nulla.
C’è solo un’unica cosa ― non da poco ― che fa la differenza in questo quadro a tinta unita ed è rappresentata dal proprio nome e dalle eventuali informazioni rese pubbliche.
Eventuali in realtà non è il termine giusto. Sono tante, troppe, le notizie e le immagini condivise ogni giorno sui nostri profili social per documentare la propria vita. Una distesa sconfinata di luoghi frequentati, dettagli di vita personale, foto di minori. Ma non importa, quello che più conta è il numero di likes al proprio post, le visualizzazioni alle stories.
Ho una notizia da dare. Un culo in primo piano non ci salverà. E la mia non è una battuta. Mentre siamo assuefatti dalla droga del terzo millennio, sottovalutiamo i rischi che si corrono nel pubblicare sui social. Più si pubblica più l’appropriazione delle informazioni da parte di terzi diventa un gioco da ragazzi, più si mette il proprio privato in vetrina più si facilitano azioni criminali.
Come? Basta una foto in vacanza per comunicare che in casa non c’è nessuno, un dettaglio su un impegno, per ricevere un’email ingannevole da malintenzionati. E, ok, l’abbiamo capito che i cuccioli di uomo sono tanto carini, ma – tralasciando le ripercussioni che una persona potrebbe avere quando realizzerà che la sua infanzia è stata condivisa con un numero indefinito di sconosciuti senza il suo consenso – passa mai per la testa di un genitore che quelle foto potrebbero entrare a fare parte di circuiti criminali?
I rischi si corrono anche in ambito lavorativo. Sempre più di frequente mi capita di imbattermi in foto e video di colleghi sui luoghi di lavoro. Sorrisoni, talvolta balletti che, a mio parere, intaccano l’eticità professionale e che, in generale, non tengono conto dei dettagli che un frame può contenere. La superficialità con cui si condivide, fa passare in secondo piano che una data foto potrebbe mostrare sullo sfondo le slides di un progetto aziendale riservatissimo.
Tendenzialmente se e quando ci si accorge di questi errori è troppo tardi. Rimuovere dai social la foto di turno non elimina il problema. Qualcun altro potrebbe già averla salvata sul proprio PC o, peggio, condivisa a sua volta. E, quando un elemento viene risucchiato dal vortice del web non si recupera più.
Insomma, tutto ciò per dire che vanno pure bene infiniti balletti tutti uguali, ma facciamo sì che le leggerezze che mettono a rischio la nostra privacy restino solo un ricordo di Facebook.
da Antonio Lepore | Ott 5, 2021 | Editoriale
Altra settimana, altra tematica per la nostra banda di #scarpesciuote. Nei prossimi giorni, infatti, affronteremo una materia che soprattutto in questi anni caratterizzati dai social è più attuale che mai: ovvero lo “scarto” tra l’identità reale e l’identità percepita. In poche parole, proveremo a descrivere e definire la differenza tra quello che facciamo vedere di noi – magari attraverso una storia su instagram – e quello che effettivamente siamo nella vita di tutti i giorni.
Una tematica certamente complessa ma necessaria da trattare visto che non sono rari i casi in cui alcune persone vivono ormai due vite parallele. Una, casomai, allettante e sfarzosa sui social, l’altra, invece, più modesta e difficile. Oppure filosofi e romanzieri su facebook, mentre nella quotidianità al massimo si citano i cinepanettoni.
Inoltre, considerato che nessuno di noi è immune da questo fenomeno, vi chiediamo di condividere con noi le vostre esperienze a riguardo, magari attraverso i commenti ai nostri articoli oppure inviandoci un messaggio privato attraverso facebook.
Antonio Lepore
Andrea Famiglietti
da Antonio Lepore | Giu 4, 2021 | Abbecedario di provincia
Mercoledì ho festeggiato 29 anni di convivenza con me stesso. Non abbiamo atteso la mezzanotte perché quella magia è svanita da un pezzo. Però, di mattina, mano nella mano, siamo andati a salutare il “vecchissimo Peugeot” – come canta Pezzali – con cui stiamo affrontando questo viaggio che innumerevoli post facebook definiscono “vita”.
Rischiando di inciampare in buste di patatine e mozziconi di sigaretta spenti male, ci siamo accomodati. Io al posto del guidatore, con i miei occhiali sporchi e sempre meno capelli in testa; lui accanto, acciaccato e piuttosto malinconico. Dopo neanche un secondo, siamo scoppiati a ridere felici. Senza un motivo in particolare, o forse sì: quello di essere sopravvissuti a piccole e grandi tragedie che accadono sempre quando non si è pronti. In fondo non si può essere pronti, ad esempio, a salutare la propria sorella e rivederla – se abbiamo azzeccato religione – quando non potremo rinunciare ad assistere ad un funerale.
Una risata liberatoria anche per aver realizzato che ad un certo punto nell’autostrada dei giorni qualcuno andrà sempre più veloce del nostro Peugeot ed è inutile forzare il motore e rischiare di restare a piedi. Un giorno decidemmo di comune accordo di massimizzare (e non di accontentarci) le nostre prestazioni e goderci ogni istante, incluso quello in cui un sogno si spezza. Perché è inutile girarci intorno: ho fallito già tante volte, però qualche successo l’ho conquistato “anche arrancando come quel vecchissimo Peugeot”. Il ticchettio della tastiera che mi rimette in pari con il mondo; lei che chiude gli occhi e si fida di me nonostante non sia in grado neanche di prenotare al ristorante; la fiducia dei miei, conquistata tra delusioni e sudore; gli amici ed il lavoro dei miei sogni a cui voglio sempre più bene.
Ora siamo qui – io ed io (la parola della settimana) – e di fronte a noi abbiamo l’ennesima salita da affrontare. Il timore di non farcela è forte, sta qui, però non ci frena come accadeva prima. Siamo consapevoli che qualche inconveniente si materializzerà – forse ho dimenticato lo stereo acceso – però ci rimettiamo in viaggio. Ed è questo che forse ho realizzato un pelino tardi: conta la strada che si sta percorrendo, non quella già percorsa o quella che percorreremo (sempre se troviamo un cazzo di benzinaio in questa stradina spersa).
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