Una persona decide di fare qualcosa, questo qualcosa ha un obiettivo da raggiungere e per raggiungerlo, appunto, fa delle azioni mirate al soddisfacimento dell’obiettivo. Dopo aver fatto qualcosa la suddetta persona valuta se ha raggiunto l’obiettivo per cui ha intrapreso la serie di azioni messe in pratica per cui, dopo averci ragionato su, percepisce di aver raggiunto l’obiettivo o di averlo mancato, la quale ultima ipotesi ricede appunto nel fallimento.
Messa in questi termini, il fallimento è l’esito di una serie di azioni finalizzate al raggiungimento di obiettivo, la peggiore delle due ipotesi possibili: fallire o riuscire. Una volta presa consapevolezza dell’esito delle proprie azioni, la persona in questione sa se quello che ha fatto è stato utile per sé o meno. Questa consapevolezza, di per sé, non ha un significato predefinito a priori ma viene riempita di significato dalla persona stessa. Il significato derivante può prendere due traiettorie tra loro opposte ma non per questo incontrovertibili. Dopo aver capito di aver fallito, infatti, viene sempre il momento delle riflessione su cosa sia andato storto, ed è questo il momento in cui si può andare verso l’una o l’altra delle traiettorie mentali possibili, avendo sempre la possibilità di invertire la rotta verso l’altra delle traiettorie.
Dicevamo delle traiettorie: queste sono essenzialmente l’arricchimento o la rimuginazione. Se la prima traiettoria deriva dalla riflessione su quanto accaduto e dal suo superamento attraverso la costruzione di alternative tramite l’aver imparato dagli errori, con la rimuginazione accade qualcosa di differente. Rimuginare sulle proprie azioni consiste nel ritornare, mentalmente, su quanto compiuto e soffermarsi sulla sua natura negativa. Questo soffermarsi diventa qualcosa di ripetitivo e insistente, al punto da tingere di negativo anche qualcosa che prima non lo era. La negatività che si abbatte sulle proprie azioni determina una visione di se stessi brutta, svalutata, ci rende incompatibili con le relazioni tra persone. E inoltre, la rimuginazione è un circolo vizioso: non ha vie d’uscita perché essa stessa rappresenta la via d’uscita a qualcosa di più profondo.
Chi rimugina, infatti, non si ritiene degno di essere perdonato: reputa che le azioni che ha commesso siano troppo malvagie e per questo merita solo sdegno. Ciò affonda le sue radici nel passato remoto individuale ma più che parlare di questo è utile comprendere come uscire dal circolo vizioso e prendere la traiettoria alternativa alla rimuginazione, ossia l’arricchimento personale. Questo è possibile ma non semplice, e richiede sempre qualcuno che ci supporta, sia esso un buon amico, un fidanzato o una fidanzata o uno psicologo.
Per rendersi conto di meritarsi il perdono per quel che si è fatto, è necessario riprendere qualcosa a cui, per colpa della rimuginazione, si è perso di vista, vale a dire l’obiettivo che si voleva raggiungere. Chi rimugina, infatti, prova una specie di piacere masochistico a commiserarsi e dimentica il motivo per ci aveva messo in pratica quella serie di azioni tanto deplorevoli. È come se ricordare di aver fatto qualcosa per un fine facesse perdere alla rimuginazione il piacere di autocommiserarsi.
Riprendere possesso dell’obiettivo a cui si mirava significa ricordarsi di aver voluto qualcosa e di aver provato a raggiungerlo. Ciò implica rendersi conto di aver potuto fare altro e apre alla riflessione costruttiva che porta a riconoscere i propri errori e, in seguito, a trovare la giusta via per evitare di commetterli in futuro. In poche parole serve ad arricchire il proprio bagaglio esperienziale per affrontare nuove sfide in futuro.
D’altra parte si sa, sbagliando s’impara! E solo chi sbaglia si concede il lusso di imparare.
Se penso al più grande fallimento della nostra società, mi viene in menta il sistema scolastico. Dal primo anno di elementari fino al quinto superiore, percorriamo un sentiero che dovrebbe riempirci di esperienze positive e prepararci al mondo universitario o del lavoro ma purtroppo non è così. Almeno dalle elementari fino alle medie, sei un semplice pacco postale che viene fatto avanzare piano piano tra gli anni, riempiendo la tua testa di nozioni che dimenticherai appena avrai varcato la soglia delle scuole medie per il liceo. Ed è proprio alla fine delle medie che inizia il fallimento, come novelli studenti di Hogwarts ci piazzano davanti la scelta di un futuro incerto ma a differenza dei maghi e streghe nati dalla mente della Rowling non abbiamo nessun cappello che ci ascolti e indirizzi. IL CAPPELLO PARLANTE Quella domanda “cosa vuoi fare da grande?” che ci scarica una responsabilità che ancora non è chiara, ci guardiamo intorno cercando il supporto degli altri ma che alla fine non troviamo poiché siamo tutti sulla stessa barca con un singolare nome: incertezza. Perché farci questa domanda, quando anche da adulti non sappiamo dove stiamo andando e se il fallimento un giorno diventerà successo? Perché invece di fare una domanda simile non ci hanno dato la possibilità di poter anche inseguire un sogno, quello che da bambini abbiamo custodito gelosamente e di indicarci la via giusta per realizzarlo? Perché alla fine eravamo circondati da adulti che non avevano tempo ad ascoltare, senza nemmeno un cappello o un grillo parlante a darci dei consigli. GREAT TEACHER
Durante i primi due anni del liceo, su MTV veniva trasmesso l’anime G.T.O. che aveva come protagonista un ex teppista con il sogno di voler diventare insegnante. A ripensarci Onizuka nonostante la sua preparazione scolastica e passato, era in grado di valorizzare i suoi studenti che venivano considerati fallimenti o problematici dai suoi colleghi; non dico che nel nostro sistema scolastico veniamo visti in questo modo (anche se qualcun* lo pensa e lo esprime) però veniamo portati a considerare maggiormente i nostri fallimenti che successi. Perché veniamo introdotti in un sistema che invece di mostrare la collaborazione ci insegna a competere, a sentirci in colpa quando sbagliamo o non siamo all’altezza mentre magari siamo portati in altro. E magari quelle discipline in cui eccelliamo sono viste come inutili, come se sviluppare una persona dipenda tutto dalle materie di serie A e serie B e non da ciò che è portato. Onizuka ascoltava i suoi studenti, si metteva in prima linea per aiutare i ragazzi e ragazze della sua classe a scoprire se stessi ed evitava categoricamente di farli sentire un peso, evitando così di farli sentire come dei fallimenti. Forse esistono docenti così, che tengono ai propri studenti e che non sono pronti a demoralizzare al primo errore ma che invece li spingono a realizzarsi. Ma di Onizuka con il suo german supplex ci dobbiamo accontentare di vederlo su schermo.
Un euro e cinquanta. Un giro sul calesse con il pony costa un euro e cinquanta. I pony sono in attesa. Della prossima famiglia Del prossimo bambino Del prossimo giro I gestori del ranch anche sono in attesa Dagli anni ’80 ad oggi Qui aspettano tutti insieme il giro E io il giro l’ho visto Ed è un giro triste È l’immagine di un fallimento Del divertimento altrui venduto ad un euro e cinquanta La nostra coscienza ferma agli anni ’80 Non si è evoluta Il suo fallimento Lo leggo negli occhi del pony Nel ranch In attesa del suo giro Ancora “Giro fallimentare” Irpinia 2021
Ecco. È il titolo di una canzone di Niccolò Fabi, anzi il titolo della canzone, quella scritta in seguito alla morte prematura della figlia. Si tratta di un testo struggente in cui il cantautore immagina azioni al contrario. Abbiamo, quindi, una freccia che piantata in un ramo percorre il suo tragitto a ritroso per poi tornare al suo arco; dei pezzi di vetro sul pavimento che prendono il volo per tornare a ricomporsi in bicchiere. Fabi tenta di riavvolgere il tempo, sperando che insieme a quella freccia torni indietro anche sua figlia. Il suo è un fallimento – quello di non essere riuscito magari a fare abbastanza – e vorrebbe una seconda possibilità.
Fallimento. È una parola che non comprendo poi così bene. A livello fonetico mi trasmette tanta negatività. È come se tra le lettere che la compongono fosse incastrato un dito pronto a puntare contro, a giudicare. Ma cosa vuol dire realmente fallire? Cercando su Google ho, con sorpresa, scoperto che la parola fallimento deriva dal latino fallere, inganno.
Fallimento e inganno. Due parole che hanno in comune l’accezione negativa, ma cos’altro? Ci ho riflettuto e sono arrivata alla conclusione che nella parola inganno sia racchiusa la vera natura del fallimento. Non intendo dire che chi fallisce sta al contempo ingannando qualcuno, ma piuttosto che inganna se stesso.
Mi spiego. Nell’immaginario condiviso una persona che fallisce è tendenzialmente vista come un individuo incapace di ottenere quello che vuole. Per quanto si possa mostrare una certa dose di compassione nei confronti del fallito, anche quest’ultimo in prima persona prova vergogna nel comunicare il mancato raggiungimento dei propri obiettivi. Nella nostra società fallire è una colpa e chi incespica in questa disgrazia si sente in dovere di giustificare la propria condizione, magari cercando cause esterne che possano ridurgli la pena.
Il fallimento racchiude in sé la convinzione di non essere all’altezza ed è con quest’arma che inganna la sua vittima. Il fallito, quindi, si sente inadeguato e viene pervaso da sensazioni negative che difficilmente conducono a una reazione.
Il fallimento inganna perché non lascia intravedere la sua energia positiva. Eppure essa esiste. È un aspetto considerato da pochi, ma il fallimento trasporta con sé una potenza risolutiva che non dovrebbe essere mai sottovalutata. Chi fallisce ha sì un dito puntato contro, ma anche tutti gli elementi per fare in modo che quello stesso dito si rigiri e punti verso una direzione, una nuova strada. Chi fallisce ha appena fatto un’esperienza e da quella esperienza ha tratto un insegnamento. Quantomeno conosce gli errori compiuti e sa, quindi, evitarli.
Spesso, nel tentativo di rincuorare una persona che ha fallito si fa riferimento all’idea che, una volta toccato il fondo, non si possa fare altro che risalire. Falso. Risalire è una scelta, altrimenti si rischia di restare su quel fondo. Non facciamoci, quindi, ingannare dalle parole: fallimento è oggettivamente una brutta parola, ma potenzialmente può condurre a risvolti molto positivi. Ecco.
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