Oltre le barriere, verso la libertà

Oltre le barriere, verso la libertà

Era una calda estate della mia infanzia e insieme a mio padre giravamo per un mercato dei libri nella città di Otranto. Rimanevo affascinato dalla quantità di volumi che erano presenti, la voglia di sfogliarli e leggerli tutti ma anche la consapevolezza che non tutti erano adatti a me e mentre mi immergevo in un viaggio di fantasia, mio padre mi riportò a terra regalandomi un libro che avrebbe cambiato qualcosa in me: il Gabbiano Jonathan Livingston.
Ricordo che quel libro lo divorai in un attimo, tanto che mi appassionò. Riuscì a superare il costante senso di nausea che mi accompagnava durante i viaggi in auto, pur di finirlo e scoprire cosa aveva di speciale quel gabbiano; alla fine della lettura mi ritrovai a pensare che un libro come quello non l’avevo mai letto e il segno che mi lasciò diventò indelebile.

Barriere di normalità

Nei nostri primi anni scolastici ci insegnano i confini tra le regioni, per passare alle nazioni fino a definire i continenti; oltre alla geografia ci mostrano cosa è giusto e cosa no e in fin dei conti anche prima dell’età scolastica, la nostra famiglia ci mostra ciò che è pericoloso e cosa no. Fin dall’infanzia veniamo portati a creare, a vivere e vedere continuamente intorno a noi delle barriere, a convivere con un concetto di normalità sociale e che a volte questo pensiero non è esattamente giusto.
Quelle barriere che quasi ci vengono imposte spesso ci creano più disagi e problemi invece di aiutarci a vivere una vita dignitosa, a realizzare sogni e superare quelle avversità che ci portano a dubitare di noi stessi e questo capita anche al protagonista del libro di Richard Bach che si ritrova ad inseguire il suo sogno di imparare a volare e di non limitarsi a ciò che lo stormo ritiene normale, ovvero mangiare.
Mentre cresciamo dall’ambiente domestico a quello scolastico, passando per l’università e finendo nel mondo del lavoro riusciamo a scorgere un numero illimitato di barriere, nascoste o visibili e che vengono richiamate in nome della normalità; barriere che limitano, che spaventano, che rendono il diverso (e anche qui bisognerebbe dare una definizione di diverso da accostare alla normalità) un individuo da cui dobbiamo allontanarci e temere.

É pur vero che siamo totalmente diversi dai gabbiani ma l’autore ha cercato ed è riuscito egregiamente a  trasferire il concetto che abbiamo della nostra società, il nostro modo di rapportarci alla vita e agli altri nel suo racconto e mostrandoci come noi stessi ci portiamo e creiamo delle barriere, anche in modo involontario, per salvaguardarci da ciò che il mondo ci propone.
Dalla felicità al dolore, dalla normalità all’irregolarità, dall’uguale al diverso e passando dal merito e punizione non facciamo che vivere in una società che impone barriere, tarpando le ali che ci porterebbero a realizzarci e migliorare come lo stormo buonappetito fa nei confronti del gabbiano Jonathan Livingston

“…un giorno, Gabbiano Jonathan Livingston, capirai che l’irresponsabilità non paga. La vita è l’ignoto e l’inconoscibile, ma noi siamo al mondo per mangiare, per restare vivi il più a lungo possibile.”

Un giorno capiremo che non tutte le barriere, fisiche e non, sono utili per proteggerci e crescere. Un giorno saremo liberi di poter volare oltre le barriere del pregiudizio e della paura, realizzando grandi cose.

La cartolina

La cartolina

La terra è un dono
È un insegnamento che
si tramanda ai figli
Si insegna loro ad amarla
I figli possono decidere di fuggire via, scappare altrove
O possono decidere di restare
Di amare quella terra con lo stesso amore del padre
I Nittolo sono rimasti
Hanno piantato di nuovo il melo, quello di Grottolella
I suoi frutti torneranno presto a nascere
I Nittolo rappresentano la minoranza
Quella che resta
Quella che pianta per far rinascere
Perché la terra è un legame
Tra padre e figlio
La minoranza migliore
Grottolella, 2021

Un viaggio tra generazioni mai conosciute

Un viaggio tra generazioni mai conosciute

«Iniziava sempre con quell’insolito rituale, prima di mettersi in viaggio mio padre era solito togliersi il cappotto, ripiegarlo e posizionarlo sul bagagliaio dell’auto»

C’è sempre stata una certa sacralità in quello che per molti anni ha rappresentato uno dei viaggi di famiglia più frequenti e più intensi. Negli anni ha assunto diversi significati.

Da bambino ritornare in quei luoghi, così vicini e così lontani, rappresentava un viaggio, un’avventura il cui copione era sempre lo stesso e veniva rispettato in maniera incredibile. Le nostre “costanti” erano sempre lì ad attenderci: l’incredibile buio quando arrivavamo a Villamaina e quell’enorme muro di luci e lumini pronti ad accoglierci, le statue in pietra e quei lunghi vialetti grigi che ben si sposavano con l’autunno. E dopo, di nuovo in auto, in direzione Sant’Angelo dei Lombardi, le chiacchierate vicino la stufa e la visita al laboratorio di un artigiano speciale, come sapeva essere nostro prozio e poi, se eravamo fortunati, una bella partita a palle di neve che ci “costringeva” tutti ad un tutti contro tutti impagabile.

Crescendo, con gli anni, molti di quei luoghi e di quei protagonisti sono cambiati, il viaggio ha assunto sempre più un significato diverso. Negli anni storie passate e presenti si sono mischiate e, con nuove tappe, hanno portato alla luce nuovi protagonisti. Tra tutte, sicuramente, quella più interessante è stata Torella dei Lombardi.

Conosciuta da molti come il paese di origine di Sergio Leone e dei vari De Laurentiis, Torella ha assunto un significato familiare rilevante in quanto paese originario della mia famiglia paterna, o meglio è qui che i miei bisnonni Raffaele e Lucia hanno deciso di mettere su famiglia.

Purtroppo il destino e la grande storia non sono stati benevoli con entrambi e la loro vita è stata scandita da sacrifici immensi, tanto lavoro e una serie notevole di tragedie. La loro vita matrimoniale brevissima, spezzata dalla prematura scomparsa di Raffaele che per gran parte degli anni resterà poco più che un quadretto in divisa militare appeso nelle nostre case e poco più.

Disperso in seguito ai tragici eventi che caratterizzarono il secondo conflitto mondiale i racconti che si sono susseguiti sono sempre stati rari e frammentati, in cui l’unica certezza è stata la sua partenza da un punto A, meglio identificato come Italia, e la sua scomparsa in imprecisato punto B della penisola balcanica tra l’Albania e la Grecia. Nulla più, per decenni. Un’intera vita racchiusa in una serie poco precisa di chilometri e in un continente. Il destino di Raffaele, come tanti altri dispersi ha dovuto fare i conti con la frammentarietà delle informazioni possedute.

Così per anni abbiamo saputo veramente poco della sua vita. Se non fosse per la grande storia che per una seconda volta si sarebbe intromessa nella nostra famiglia. Infatti negli anni 2000 l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi decise di onorare la memoria dei soldati italiani in Grecia ritenendo il loro sacrificio il primo atto di Resistenza italiana contro il nazifascismo.

Sotto questo impulso la comparsa di un foglio matricolare di Raffaele la sua storia comincia ad assumere una forma più definita. Una serie di tappe e città e nazioni comincia ad affiorare nella vita di Raffaele. Prima Torino, poi la Francia, dopo casa e poi di nuovo Brindisi, Valona con l’Albania e infine Corfù e Cefalonia con la Grecia dove molto probabilmente troverà la morte.

Ma a rendere completo il quadro ci penserà Lucia, con un pacco di lettere di corrispondenza conservate a trasformare Raffaele non più in una merce in spostamento dai diversi punti, ma in una persona in balia del destino. Nelle lettere si sente la mancanza per la casa, gli affetti e la terra. L’essere sempre in viaggio e la fiducia in un rapido ritorno che però non arriverà mai.

Il viaggio a Torella dei Lombardi verso una lapide dedicata a tutti i dispersi ha rappresentato questo e continua a rappresentare questo, la connessione con due vite che malgrado il destino le ha strappate alla terra continuano a legarci ai loro luoghi e alle loro storie.

Avanti Palestra! Una storia italiana

Avanti Palestra! Una storia italiana

Dopo 22 anni la Sociedade Esportiva Palmeiras è campione di Sud America. La finale di Rio de Janeiro decreta il vincitore in maniera beffarda, il Verdaõ si aggiudica la competizione contro i rivali storici del Santos con un colpo di testa di Breno al 98esimo minuto (avete capito bene)!

Il calcio sudamericano regala emozioni senza risparmiarsi mai, nonostante il Maracanà svuotato dalle disposizioni anti Covid, la torcida verde non ha rinunciato a riversarsi per le strade di San Paolo per festeggiare un titolo che mancava dal lontano 1999.

A questo punto per qualsiasi lettore sarebbe lecito chiedersi: ma a noi cosa ci importa? Difficile rispondere che cosa significhi il Palmeiras per me, né è così semplice far capire il posto occupato da questa società nella mia storia familiare. La storia di questo glorioso club brasiliano è legata a doppio filo con la storia del nostro Paese, con la sue storie di emigrazione, avventura e coraggio, il coraggio dei tanti Italiani imbarcatisi nel dopo guerra per cercare migliori condizioni di vita, tra questi, i miei nonni.

Negli anni ’50 San Paolo del Brasile era un ricettacolo di etnie, culture, speranze e lavoro improvvisato. Le sue torride strade promettevano mondi nuovi e nuove prospettive, arenatesi poi con il tempo e grazie a dei prevedibili processi socio-economici che avrebbero portato a trasformare il sogno brasileiro in un incubo sconfinato come una favela. I miei nonni la domenica avevano un solo svago: il Palmeiras, lo stadio Palestra Italia, il ritrovo della comunità italiana, l’orgoglio di rappresentare il tricolore in un Paese sconfinato e malato di calcio.

Il Palmeiras nasce, infatti, come Palestra Italia nell’agosto del 1914 per volontà dei primi immigrati italiani a San Paolo, stupiti dalle performances del Torino e della Pro Vercelli giunte pochi mesi prima nell’emisfero australe in tournée. Lo stemma di casa Savoia e i rimandi al tricolore italiano vengono scelti ad eterna memoria delle radici italiane del club. La Puma, sponsor tecnico del club, ha omaggiato il passato del club presentando una maglia elegantissima, sulla quale è possibile intravedere impresso sulla divisa la stessa trama dei libretti migratori dell’epoca.

Il club è nato Italiano, ma ha impresso pagine importanti nella storia del Futebol Brasileiro: 10 volte campione del Brasile, 3 coppe nazionali, due Libertadores. Sontuosi campioni come Djalma Santos, Vavà, Roberto Carlos, Marcos, Rivaldo e Serginho hanno militato e vinto per il Verdaõ, che oggi deve accontentarsi delle vecchie conoscenze del calcio italiano come Luiz Adriano e Felipe Melo, più che sufficienti per portare il club a diventare campione del continente, acquisendo il diritto di sfidare il campione d’Europa Bayern Monaco nella coppa del mondo per club che si giocherà in Qatar.

Mio nonno è stato portato via da un tumore nel 1994, una vita di guerre, viaggi e sacrifici ha visto la fine già tanti anni fa. Il mio ricordo di lui si ferma all’infanzia, mentre a mia nonna, nonostante la salute mentale ormai precaria, ancora brillano gli occhi quando nomino il Palmeiras. Ricorda anche lei la gioventù, quelle domeniche assolate, la folla esultante, lo stadio gremito. È stata una storia popolare. È stata una storia italiana. Mio nonno è da qualche parte contento, a godersi le due Libertadores conquistate dopo la sua dipartita. Oggi più che mai…Avanti Palestra! 💚

Io sono il punto di incontro tra nord e sud

Io sono il punto di incontro tra nord e sud

Cara Fabiana,

quando ero lì con te a Napoli, abitavo in periferia, tu ci abiti tuttora insieme a mamma e papà. Abbiamo sempre vissuto in periferia, prima Frullone, poi Chiaiano. Devo dire, che non mi è mai pesato, forse merito della metropolitana, forse merito dei nonni materni e paterni con casa rispettivamente nella Sanità e a via Marina. Insomma il centro di Napoli l’ho sempre vissuto molto. A parte le scuole primarie e secondarie, liceo e università le ho frequentate al centro, tutti i giorni della mia adolescenza/prima giovinezza li ho trascorsi tra vicoli affollati, opere d’arte a cielo aperto e profumo di pizza e sfogliatelle calde. Se proprio vogliamo dirla tutta per me il centro ha sempre rappresentato casa, la periferia un letto caldo dove dormire.

Poi è arrivato il trasferimento a Parma e i termini di paragone si sono ingigantiti. Non più centro e periferia, ma nord e sud. Su questi due termini la letteratura è molto ampia, i significati molteplici. C’è chi non vede alcuna differenza tra i binomi centro-periferia e nord-sud, chi li ritiene due facce della stessa medaglia, chi due opposti destinati a non avere un punto d’incontro.

Io! Mentre scrivo queste ultime tre parole, mi rendo conto che ora sono io il punto d’incontro tra nord e sud. Una napoletana che ha preso la sua valigia colma di vita partenopea e l’ha portata con sé al nord, ci ha riempito una nuova casa, una seconda vita.

Sì, perché diciamoci la verità, quando ti trasferisci in una nuova città, vicina o lontana che sia, non cambi la vita che avevi, ma ne dai inizio a un’altra. Quella precedente, soprattutto se ci sono ancora dei legami affettivi, è lì che ti guarda, che interagisce con te. Ogni tanto le si volta le spalle per essere più forti, altre volte la si abbraccia per cercare conforto.

La mia seconda vita è interessante. Sento la differenza tra nord e sud? Sì, la sento, è impossibile negarlo. Non sono, però, completamente convinta che tutta questa diversità sia dettata dal passaggio dal meridione al settentrione, o almeno credo che in parte non lo sia.

Certo, ci sono due cose che mi fanno percepire molto la differenza tra il vivere su e il vivere giù, entrambe non dipendenti dalla volontà umana. Sono il clima e il mare. Non ho mai avuto così freddo come qui a Parma e, mi dispiace dirlo, chi è nato tra le braccia del mare non si abituerà mai a questa immensa assenza.

Per il resto Parma è una bella cittadina, imparagonabile a Napoli per dimensioni e densità abitativa. Che i servizi funzionino meglio, che ci sia meno frastuono, insomma che la qualità della vita sia migliore è cosa ovvia quando c’è meno da gestire.

Il mio modo di vivere è decisamente cambiato, le mie abitudini lo sono. Il trasferimento in un’altra città ha coinciso con il passaggio alla vita adulta, all’abbandono del nido materno, e, di conseguenza, sono passata da una città frenetica a una vita frenetica. Ho dovuto imparare a gestire meglio il tempo, diviso tra casa, lavoro, relazioni e passioni.

Tanti cambiamenti, insomma, molti dei quali, però, non legati al fatto che io sia al nord. Tutto ciò lo avrei dovuto affrontare anche in una città siciliana, a Roma o, a dire il vero, anche a dieci minuti dalla casa natale.

Piuttosto, forse più che essere al nord pesa l’essere molto lontano da Napoli. È vero, con quattro ore di treno sono di nuovo da mamma e papà, ma il lavoro e, in questi tempi, il Covid spesso non lo permettono. Sì, qui ho più o meno creato nuove relazioni, ci sono i miei colleghi di lavoro la cui metà proviene tutta dal sud, ma stare lontani per molti mesi dalle persone a cui tieni, dagli affetti con cui sei cresciuta e che ti hanno vista crescere pesa. La differenza tra nord e sud e tutta lì.