
O pallone è nata cosa: Il tempo e lo spazio al servizio del calcio di strada.
Mi capita sempre più spesso, con una certa struggente nostalgia, di ripensare ai pomeriggi spesi in mezzo alla strada a giocare a calcio. O meglio, “a pallone”.
Perché forse di calcio, il nostro “pallone” ne sapeva e ne capiva bene poco. Ciò nonostante, ha saputo coglierne senza dubbio l’essenza più intima e profonda. E così passeggiando velocemente nei luoghi della mia infanzia ed adolescenza, non posso non rimanere sbalordito dallo squallido scenario offerto dal mio paese in semi-quarantena, già nato svantaggiato come una sonnacchiosa periferia di un capoluogo in tempi di pace, oggi ancor più mortificato dagli insensati ritmi di vita che ci sono stati imposti in questa pseudo-guerra.
In questa pandemia la voce dei giovani è rimasta inascoltata, come al solito in un Paese che da sempre ci ha guardato come fastidiosa ultima ruota del carro, da zittire sistematicamente, ma da accusare sempre e comunque se necessario, la mia generazione, capro espiatorio gratuito.
Mi sono chiesto dove fosse andata a finire la socialità, l’importanza dell’attività sportiva in gruppo, del crescere in mezzo alla strada anche per fortificare il sistema immunitari; mi sono chiesto dove siano finiti i bambini, gli adolescenti che una volta regnavano in strada. Ormai da mesi i campetti sono vuoti e già prima dell’infausto 2020 trovare un pallone arancione svolazzante nei nostri quartieri era diventato complicato…
Mi siedo su una panchina al gelo, sono solo come spesso accade di questi tempi. Ad un tratto ricordo. I profumi della primavera, il vociare degli amici, la corsa alle biciclette, i pantaloncini corti, il rumore del fiume alle due del pomeriggio. Con il gesso, sul muretto si tracciava la linea di porta, l’ampiezza del campo era definita da ciò che ci si trovava intorno: siepi, automobili, staccionate, ringhiere…

Su campi irregolari ed improvvisati del genere è cresciuta la migliore leva calcistica del nostro movimento nazionale. Le astrusità e le difficoltà di movimento affinavano la visione di gioco, la capacità di giocare nello stretto e di smarcarsi, veniva allenata la capacità sempre più rara di adattarsi a varie situazioni di gioco, climatiche ed ambientali. Non v’era traccia di arbitri, quando si cadeva a terra era fallo, invocato a gran voce dai compagni di squadra, tra i gemiti di dolore del malcapitato. Il mio ginocchio destro porta ancora sulla pelle i segni dei morsi dell’asfalto. Se giocavi allo scopo di fare male si scatenava una rissa potenzialmente infinita. Ma tutto si risolveva lì.

Il calcio nasce spontaneo, così come quei fiorellini primaverili escono fuori dal cemento. In un centro città, in un regolare campetto in affitto, all’oratorio, nel salotto di casa, tra i meandri di una pericolosa favela brasileira o in un Barrio di Buenos Aires. È lo sport che più mi ha formato, alcune imprese para-calcistiche della nostra infanzia sono ancora impresse dentro di noi, nella memoria collettiva dei miei amici di una vita. La rivalità tra quartieri, le partite interminabili, la corsa a casa a fare la doccia per poi tornare giù col vestito buono del sabato sera.
A volte senza pausa doccia si restava in strada in pantaloncini e scarpe rotte, con le biciclette al nostro fianco, come fossero fedeli Harley. Non ci vergognavamo di niente. Per noi la vera cosa importante era esserci ed essere. L’apparire era roba per chi non aveva capito. O forse, ahimè, in questo mondo aveva già capito tutto. Scorazzavano in tutta la città. Si sperava nello scambio di sguardi di una ragazzina o nella partita del giorno dopo. “Domani segno, me lo sento”. Si attendeva il giorno di festa, le giostre o semplicemente…che qualcosa accadesse. Nelle nostre vite o in quelle dei nostri amici. Ricordo dei tramonti visti insieme. Sapevano di immortalità e di incoscienza.
Sulla panchina comincia a fare freddo, è già buio. La mia mascherina mi occlude il libero respiro. Anche i pensieri sembrano censurarsi da soli.

Il calcio di strada ci ha insegnato a muoverci, a pensare lateralmente, ad adattarci, a vivere la vita.

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