Scarpesciuote di tutto il mondo unitevi!

Scarpesciuote di tutto il mondo unitevi!

Credo che per molti di noi possa esistere una vera e propria cronistoria legata al primo maggio. Lo abbiamo visto crescere e mutare di significato così come le nostre vite. Negli anni del liceo, la venuta del primo maggio era accompagnata sempre da una sensazione agrodolce: da una parte il sospiro per un giorno di riposo da interrogazioni e compiti in classe e dall’altra da una sorta di senso di colpa che mi portava ad esclamare sempre la stessa frase «La festa del lavoro è per chi lavora, io studio!».

Arrivando all’Università ho cominciato a pensare, soprattutto in quel giorno, a quale sarebbe stato “il mio posto nel mondo”, a quale lavoro mi avrebbe fatto campare e mi avrebbe nobilitato. Vedevo nel lavoro, come in molti prima di me, una forza emancipatrice capace di rendere giustizia e ridare slancio anche al più piccolo degli esseri umani. Oggi che non sono più uno studente, penso che il primo maggio sia per me un giorno deprimente, quasi quanto l’ultimo di dicembre o il capodanno.

Appartengo a una generazione di prova, quella che ha concluso la scuola dell’obbligo intorno al 2008, e che ha dovuto convivere con parole chiave come fallimento, crisi e recessione. Siamo la generazione del declassamento, della tripla B, dei contratti collaterali che fungono da palliativi a una vita di aspettative tradite.

Inseriti in un mondo del lavoro sempre più deregolamentato siamo stati spesso prede e vittime di ricatti morali, vittime del principio di flessibilità secondo il quale si è flessibili fino a spezzarsi. Siamo l’Esercito degli Inoccupati di Riserva – mi perdonerà Marx se stravolgo un suo concetto – costretti a vivere di formazione perpetua e che ci rende lavoratori a metà: siamo allievi e apprendisti di insegnanti mai visti. 

Ma siamo anche la generazione con la più grande sindrome di Stoccolma; ci innamoriamo di tutte le condizioni di malessere che viviamo e le portiamo avanti pur sapendo che una via d’uscita non c’è.

Per questa ragione e mille altre ragioni, questo primo maggio lo vogliamo dedicare a tutte e a tutti coloro che vivono, lottano e a volte muoiono di lavoro, ma lo vorremmo dedicare, soprattutto, alla nostra generazione sedotta e abbandonata, alla nostra generazione mai citata in questa crisi, alla nostra generazione che dopo un anno di emergenza covid19 ancora non esiste, alla nostra generazione da sempre invisibile, alle mie amiche e ai miei amici che se potessero fare alcuni si piazzerebbero in strada in perenne situazione emergenziale.

A loro, a noi tutti, buon Primo Maggio Precario!