Un anno dopo, quel tipico pomeriggio atripaldese. Ancora una questione di amore

Un anno dopo, quel tipico pomeriggio atripaldese. Ancora una questione di amore

Sono bastate tre settimane per farmi capire che qualcosa con Scarpesciuote è cambiato. Per prima cosa abbiamo alle spalle un anno pieno di attività e di testimonianze di quello che è, a tutti gli effetti un universo, fatto di parole chiave che nascondono vite ed esperienze, di parole chiave che godono di fortune alterne.

Uno spazio fatto di parole che sicuramente non scomparirà, nemmeno quando l’ultimo riflettore dell’ultimo festival sulle aree interne sarà concluso e nemmeno quando gli ultimi bandi o le ultime call decideranno che forse è giunto il momento di concentrarsi su altro che non abbia a che fare con parole a noi care, quali: Sud, Provincia e Aree Interne.

Parole che tornano di moda con la bella stagione, in momenti in cui è senz’altro più facile vivere e riflettere su di esse. Ma ritorniamo a noi.

Dopo un anno alcune cose sono cambiate: abbiamo lentamente accantonato alcune pratiche impulsive per cercare di operare una serie di riflessioni più acute e più approfondite che avessero cura di considerare quelle nostre parole chiave come una parte di una cornice più ampia.

È in questo senso che vanno lette le ultime tematiche proposte e di conseguenza anche quest’ultima. Tematiche che il caro amico Antonio mi propone settimanalmente provocandomi delle grandissime crisi. Soprattutto perché riesce a farmi rinunciare a quella che a tutti gli effetti considero la mia confort zone. Questa volta mi ha chiesto parlare di amore.

Così, mentre mi dannavo l’anima per trovare la giusta quadra, ho ripensato a queste parole, al loro significato. Di sottofondo il telegiornale riportava una nota dell’ultimo rapporto di Confcommercio sulla disoccupazione giovanile, l’emigrazione meridionale e la costante erosione demografica che sta portando l’Italia ad essere il paese più vecchio della zona UE.

DOPO UN ANNO QUELLO CHE RESTA

Poco più di un anno fa la mia rubrica aveva esordito con un articolo su quello che conoscevo meglio, la realtà irpina, in cui mi trovo a vivere da ormai 30 anni. Avevo colto l’occasione di fare luce sull’insolito rapporto che si crea tra città e giovani. Un rapporto ambivalente che vede i giovani classificati, etichettati ed impacchettati in diverse categorie: vandali, apatici, depressi, sconfitti ecc…

Classificazioni ed etichettature capaci di dare un copione da cui è difficile discostarsi. Almeno questo dovrebbe avvenire tramite le facili letture a cui siamo ben abituati nelle nostre strade e nelle nostre piazze. Se si è giovani non si amano le strade, le piazze e le persone che, indistintamente dal ceto, dalla provenienza e dall’orientamento o dall’opinone, attraversano e vivono. Negli anni abbiamo dimostrato che non è così. Non ci siamo abbandonati all’apatia e tanto meno all’odio e all’esclusione.

Eravamo in tanti negli anni passati e sono in tanti, che ancora oggi si impegnano costantemente in prima persona nei nostri angoli di provincia e nelle nostre, famose, aree interne. Lo fanno sacrificando il lavoro, la vita personale e il proprio benessere.

Arrivano stremati da lavori inappaganti e da situazioni sfibranti. Verranno sempre e comunque giudicati, demonizzati ed infamati. Da una parte ci sarà chi li riterrà poco attivi e dall’altra chi li considererà prezzolati, in malafede e pilotati.

Sono storie di tutti i giorni che capitano nelle nostre province, storie soffocate e non approfondite per far spazio a notizie sensazionali e roboanti.

Sono queste le storie che, insieme alla mancanza di lavoro spingono in molti a partire, ad andare “fuori”, come si dice in gergo. Ed ecco di nuovo le parole chiave delle nostre terre. Quel fuori che si contrappone ad un dentro immenso e soffocante.

Allora perché in molti decidono di restare, di continuare ad andare avanti malgrado le difficoltà, malgrado le diffamazioni, gli ostracismi e le privazioni? Semplice, per amore.

Adesso dovrei stare qui a spiegarvi il perché ho dato questa risposta. Dovrei argomentare e portare esempi, ma finirei col vanificare il mio obiettivo. Quello che invece vi consiglio è di uscire e andare in giro, tra i paesini presepe che dopo un’estate si spopolano, vengono smontati e si riportati in soffitta, di andare nelle strade cittadine, nei luoghi consumati dall’umidità. Visitate quei rari luoghi cittadini dove ancora si intende la cultura non come consumo, dove il termine sociale rimanda ancora a qualcosa di nobile. Lì, in mezzo a tanta depressione, troverete chi è davvero innamorato.

Lì potrete discutere con persone che provano un amore infinito. Lì potrete vedere in azione i giovani innamorati di queste nostre province meccaniche e hanno bisogno di tutto il vostro appoggio e aiuto.

E tu che sagra scegli?

E tu che sagra scegli?

È una prerogativa molto interessante quella che ci costringe ad affidare le nostre speranze e i nostri desideri ad un segno, un simbolo. La primavera viene annunciata dal ritorno delle rondini (almeno se non vogliamo dare credito ai proverbi) e da una rigogliosa rifioritura che conquista lentamente spazio e città.

Anche l’estate non tradisce questa prerogativa. Ad esempio in Irpinia, l’arrivo dell’estate, viene solitamente sancito dalla comparsa dei manifesti 70×100 lungo le strade cittadine che annunciano una qualche sagra.

Molto spesso la stagione estiva viene anche definita la stagione delle sagre.

Come detto poc’anzi l’Irpinia, in questo senso, rappresenta un caso emblematico. Con i suoi 118 comuni riesce, ogni estate, a mettere in scena decine e decine di eventi.

Le conseguenze di questa situazione sono senz’altro due: la prima è che ci si trova in un girone da inferno dantesco, fatto di indigestioni dovute al troppo mangiare e dal troppo bere e la seconda è che molto spesso ci si ritrova a vivere un calendario pieno, mal al tempo stesso, molto omogeneo. Non di rado capita che paesi limitrofi si ritrovano a mettere in scena gli stessi eventi e con le stesse modalità, solo in tempi diversi.

ESTATE PERCHÉ TU ESTATE

Le ragioni per cui ci troviamo, solitamente, a vivere estati così intense e al tempo stesso così simili sono alcune e tutte strettamente connesse alle condizioni sociali ed economiche della realtà.

Sicuramente il fatto che la provincia di Avellino sia consapevole protagonista di una emigrazione di massa perpetua rappresenta una parte interessante della spiegazione da cui partire.

Il rientro dei lavoratori emigrati e dei tantissimi fuorisede comporta la necessità del territorio di dare vita ad eventi socializzanti utili a trattenere persone ed economie.

Per rispondere a queste necessità le soluzioni prevedono, da almeno trent’anni, l’organizzazione di sagre o eventi con artisti di strada. Un’estate piena di “sagra del …” e di “nome del paese – arte” dimostrano che tale processo non si è mai evoluto.

CONCLUSIONI

Chi scrive non è contrario a queste iniziative e all’incredibile attivismo che anima chi ogni anno si impegna, ma ritiene fondamentale intraprendere un nuovo percorso.

Andrebbe compreso che non si dovrebbe rispondere alla necessità di una vita di un territorio a stagioni alterne. Costruire eventi sociali e socializzanti attraverso l’elaborazione e la programmazione costante, ascoltando il territorio e non trasformandolo in un piccolo presepe fatto di naccare, tammorre e vestiti tradizionali.

Inoltre, si dovrebbe lavorare alla costruzione di una rete provinciali di comuni e attori territoriali capaci di creare un macro percorso fatto di piccoli percorsi territoriali.

Ci apprestiamo a vivere un secondo anno di stop dovuto alla pandemia e alle direttive anti – contagio, capaci di scoraggiare anche il più ottimista degli organizzatori, potrebbero essere utili per definire e costruire un diverso modo di intendere le realtà e con esso la creazione di eventi sociali e socializzanti di più ampio respiro e durata.