Per chi mi conosce sa che ho un modo di rapportarmi ai social in maniera totalmente casuale. E questo tipo di approccio porta un po’ ad essere l’emarginato del gruppo, perché non mostro e non do in pasto al pubblico ogni dettaglio della mia vita; in questo modo la nostra società ed ogni individuo si mostra per ciò che spesso non è agli altri, per essere accettato. Ma i social sono davvero il riflesso di ciò che siamo? Pensando a questa domanda mi viene in mente la serie Sense8, delle sorelle Wachowski (le stesse che hanno girato la trilogia di Matrix, per intenderci), in particolare una scena in cui i protagonisti si ritrovano a rispondere ad una domanda: Who am I? Mentre i diversi personaggi rispondono alle loro interviste, penso a come oramai ci rapportiamo ai social e a ciò che mostriamo. Ci mostriamo per quello che siamo realmente o tendiamo a scrivere e pensare ciò che gli altri sono propensi ad accettare? Uno, nessuno e centomila Non esiste un solo social dove le persone interagiscono tra di loro ma vari e ognuno di essi ha regole e modi diversi di farci conoscere. Ma la domanda resta sempre la stessa: mostriamo realmente chi siamo? Oramai mi sembra che la risposta sia sempre più unica, ovvero no. Un po’ come se fossimo usciti dal romanzo di Pirandello, ci ritroviamo ad essere frammentati tra i vari social: da una parte siamo grandi interlocutori, che protendono a ripetere concetti e pensieri già espressi da altri mentre altrove siamo consumati artisti che replicano l’arte di altri come ci ha mostrato nei suoi studi Walter Benjamin. Siamo sempre più convinti di essere individui unici ma in fin dei conti non siamo nessuno, poiché lo stesso pensiero o lo stesso scatto è replicato da altri centomila eppure nonostante questa clonazione del sé, ci impegniamo ad essere diversi dagli altri Sui social competiamo per ricevere attenzioni temporanee, fino a quando non arriva qualcuno di nuovo con il suo pensiero o i suoi contenuti e di nuovo torniamo nell’anonimato fino al prossimo tentativo di farci riconoscere per quello che non siamo. Unfollow Qualche anno fa mi capitò tra le mani una mini serie di Rob Williams che parlava di una gara organizzata da un creatore di un social e che metteva in palio un’enorme quantità di soldi ma che sarebbe stata vinta solo dopo un tot di tempo. La regola fondamentale era che era permesso tutto e che il montepremi sarebbe stato diviso tra i rimanenti partecipanti, quindi l’omicidio era consentito. Il social rappresentato dalla penna di Williams da quanto ricordo era Twitter e i suoi 140 caratteri, una comunicazione ridotta e mirata al contenuto e che si contrappone a ciò che invece è permesso di fare su Facebook, dove le persone scrivono i cosiddetti walltextper spiegare concetti astratti o farsi riconoscere ma che alla fine della lettura, non hanno dato nulla al proprio interlocutore. Unfollow è una serie particolare, un thriller che mi ha preso tantissimo e che ogni volta che posso suggerisco a qualcuno questa piccola perla ma l’unfollow è anche quell’azione che facciamo o subiamo passivamente sui social, quando diventiamo inutili per il prossimo. Perché in fin dei conti sui social mostriamo ciò che non siamo per compiacere gli altri o per racimolare un po’ di attenzioni e quando abbiamo ricevuto l’uno o l’altra, siamo pronti ad andare avanti e cancellare dalla nostra vita chi magari ha visto nel profondo del nostro cuore e si è immerso nei nostri pensieri più intimi.
Non è semplice parlare d’amore, scrivere un sentimento come questo è come cercare di definire l’arte: è soggettivo. Da bambini guardavamo i cartoni della Disney e ci mostravano un tipo di amore dove il principe azzurro giungeva in soccorso della principessa di turno; crescendo ci insegnavano che di amore si può parlare solo quando un uomo e una donna decidono di mettere su famiglia, eppure ora che siamo adulti guardandoci intorno vediamo che non è così. Un po’ come la moglie del reverendo Lovejoy ci sono persone che cercano di parlare di amore pensando prima ai bambini, come se il sentimento che provano due uomini o due donne sia diverso. Quasi come se fosse considerato di serie B, eppure anche persone dello stesso sesso si amano e ne soffrono.
La concezione che abbiamo per l’amore è cambiato nel tempo e Alan Moore gli dedicò una poesia; ci ricorda con poche parole come amare fosse una cosa libera, un privilegio per tutti e a nessuno negato Potevano amare un uomo e una donna ed erano liberi di scegliere chi amare! Oggi invece se due uomini decidono di mostrare il loro amore al mondo sentiranno le urla di “Vergogna!” e destino a volte diverso per due donne, perché in quel caso gli stessi guarderanno con interesse Ma cos’è l’amore? Io non so. Diversi autori e registi hanno mostrato cos’è l’amore per loro ma definirlo come se fosse una cosa unica per tutti non è possibile, poiché non esistono delle regole come in matematica. Chi ama lo fa con il proprio cuore, la propria testa e anche se ci mostrano che solo i buoni possono amare se andiamo dietro le quinte vediamo come anche gli antagonisti ne siano capaci. L’AMORE E IL TEMPO Una costante che accompagna l’amore è il tempo e spesso ci immergiamo in storie dove questo sentimento viene definito eterno. Dracula di Bram Stoker direttoda Francis Ford Coppola rientra in questa categoria nonostante il romanzo sia considerato un classico degli horror, poiché il vampiro più famoso della letteratura ritrova il suo amore perduto dopo anni e fa di tutto pur di riaverlo indietro. Nella pellicola questo amore perduto mette in risalto come anche un mostro sia capace di provare questo sentimento e a fare di tutto pur di riconquistare la donna che ha amato in passato e che si è reincarnata in una persona diversa; l’amore quindi non è un’esclusiva degli eroi e dei principi ma anche di chi come Dracula ha rinnegato il bene. Ma la figura di Dracula non è l’unica che affronta il tempo per ritrovare l’amore ma anzi diverse sono le storie dove il protagonista fa lo stesso, come per esempio Takemichi Hanagaki in Tokyo Revengers o Naomi Tagaki in Hello World In Tokyo Revengers il protagonista quando scopre che è in grado di viaggiare nel tempo, decide di voler fare di tutto per salvare la ragazza che ha amato nella sua adolescenza ed è pronto ad affrontare ogni avversità pur di raggiungere il suo scopo; il viaggio temporale che intraprende non è solo per l’amore verso un’altra persona ma anche per se stesso, decidendo così di cambiare il suo atteggiamento di fuggiasco dalla vita. Mentre il manga di Tokyo Revengers è una storia di riscoperta del sé, il protagonista di Hello World mostra un tipo di amore diverso e ci porta in un amore virtuale ma egoistico; Naomi Tagaki entra in una simulazione del passato per incontrare il se stesso con l’obiettivo di risvegliare Ruri, la ragazza che ama, dal coma. Come si può notare di amore non esiste un’unica visione ma diverse e non sempre tutte positive. Perché oggi al mondo l’amore viene insegnato come se fosse un dogma ma non come qualcosa di spontaneo o come un sentimento da vivere, senza pregiudizi. E tutt’ora sono qui, verso la fine a domandarmi: cos’è l’amore? E cos’è per voi?
Commenti recenti