
Minoranza e normalità: questione di numeri
La minoranza in ambito psicologico è un tema che viene affrontato dalla psicologia sociale e che le scarpe sicuote che mi hanno preceduto in questi giorni hanno rappresentato in maniera eccellente. Che dire allora in casa sbiglialacci?
Oggi vorrei descrivere un altro tipo di minoranze, una particolarità in apparenza tutta numerica (almeno nel modo che ho scelto per descriverla). Le minoranze di cui voglio parlare posseggono caratteristiche, siano esse di personalità o intellettive oppure di una qualsiasi altra caratteristica psicologica, fuori dal comune; gli statistici direbbero di queste persone che “ottengono una prestazione al di sopra (o al di sotto) del 97,5% della popolazione” in uno dato test: le code della distribuzione normale.
Andiamo in ordine: ogni volta che qualcuno inventa un test per misurare qualcosa, una qualsiasi caratteristica psicologica, e una volta terminati gli anni di studi statistici, si passa alla somministrazione a un numero selezionato di persone che, secondo chi le seleziona, rappresenta in modo omogeneo la popolazione di un territorio (uno Stato, un continente o l’umanità intera) o di un preciso gruppo. Raccolti i dati di questa prima somministrazione si passa ad analizzare i risultati, e la prima cosa è vedere quante persone ottengono prestazioni simili; per una legge che dovrebbe essere chiamata dogma vista la sua applicazione a tutte le distribuzioni che verranno chiamate normali, il 70% dei rispondenti al test ottiene una prestazione simile: attraverso questo metodo si capisce qual è il punteggio medio per quel determinato test. Il restante 30% di chi ha fatto il test otterrà dei punteggi diversi dalla normalità delle persone suddividendosi in punteggi più alti e più bassi rispetto alla norma: 15% da una parte e 15% dall’altra. Questa percentuale residua già rappresenta, di per sé, le code della distribuzione normale; per parlare di minoranze, però, non credo basti prendere come campione rappresentativo semplicemente ciò che sta al di fuori di quanto si riscontra in due terzi della popolazione, anche perché in questo modo direi che, su 100 persone, se 70 fanno una cosa e 30 un’altra, quei 30 rappresentano una minoranza. Beh, volendo sì, ma sono abbastanza convinto che in quei 30 sarebbero più le differenze che le somiglianze, quindi non si potrebbe parlare di vera e propria minoranza unitaria.
Nei termini generali che ho scelto di usare, per arrivare ad una minoranza unitaria, qualsiasi caratteristica psicologica si prenda in considerazione, bisogna arrivare al già citato 97,5% perché arrivati a questi due punti e mezzo percentuali di rappresentatività generale si incontrano gli estremi delle code di distribuzione: chiunque ottenga un risultato del genere possiede un attributo che lo definisce così bene e lo accomuna così tanto a chi ha risultati simili che può essere definito come facente parte di una minoranza.
Gli attributi di una minoranza così definita sono presenti in tutto il resto della popolazione, ma nella minoranza fin qui descritta in una forma estrema al punto da essere presa come riferimento dalla popolazione normale e da quella al di sopra, o al di sotto, della norma per spiegare l’essenza dell’attributo stesso. È questo il motivo per cui “l’influenza minoritaria è un processo di influenza sociale che si verifica quando una minoranza è in grado di incidere sulla comunità di appartenenza mettendone in discussione alcune regole, credenze, opinioni” (Wikipedia): quando la maggioranza di una popolazione presta ascolto ad una minoranza significa che l’attributo più rappresentativo di quella minoranza è percepito nel resto della popolazione come un qualcosa di evanescente che ha bisogno di essere rinvigorito e rinforzato, e per questo bisogna prestare attenzione alla massima espressione di quel dato attributo.
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