Io sono Nessuno, io sono Polifemo

Io sono Nessuno, io sono Polifemo

“Alcune parti della nostra Storia definiscono chi siamo. Ma le sfumature e l’umanità vanno perdute nelle enciclopedie”
Etna – Cyclopedia Exotica

Guardandomi indietro mi rendo conto di aver trascorso molti fine settimana della mia adolescenza in una piazza di Napoli, insieme agli amici dell’epoca, e c’era una cosa che mi sorprendeva sempre, ovvero come un semplice luogo potesse essere un punto d’incontro per quei ragazzi e ragazze che si definivano alternativi. Si definivano così per contrapporsi ai cosiddetti cuozzi, altrettanti ragazzi e ragazze che si identificavano in un gruppo con l’obiettivo di essere sempre all’ultima moda, o per meglio dire “quelli fighi”; e così ero sorpreso come attraverso queste categorie sociali venivano a crearsi delle differenze e l’identificazione del diverso già in un periodo dove conoscersi era importante.
Oggi quando si parla di diversità, possiamo fare riferimento a tante varianti: genere, religione, cultura, orientamento politico o sessuale e chi più ne ha più ne metta.

 

Un occhio di riguardo

Un’occhio. Due occhi. Quale potrebbe mai essere la differenza? Nella società moderna immaginata da Aminder Dhaliwal, esseri umani e ciclopi convivono tra le pagine di “Cyclopedia Exotica”.
Ma come si può immaginare, ciò che è “diverso” da noi un po’ spaventa; ed è proprio ciò che l’autrice cerca di spiegare sulle pagine della sua graphic novel e con l’intreccio delle storie dei vari protagonisti, echi di personaggi mitologici.
La narrazione inizia con il primo numero di Playclops (una sorta di Playboy per ciclopi, nda), dove in copertina si trova Etna, acquistato dall’aspirante modella Latea; qui già un primo confronto tra i personaggi, da una parte si ha la prima modella ciclope che ha posato la prima pietra per l’accettazione della diversità e dall’altra un personaggio che vive in una società già più tollerante e che sembra essere “l’evoluzione sociale” di Etna.
La figura di Etna ricorda Donyale Luna, la prima modella di colore a posare per le riviste e che è stata anche la pionera per l’accettazione da parte della società per le minoranze.

Se con Etna e Latea l’autrice mostra e ci immerge in una sorta di evoluzione temporale per l’accettazione della minoranza, con il rapporto di coppia di Tim e Pari ci porta ad un livello totalmente diverso; sono una coppia mista, dove Tim è un “due-occhi” (come ci descrive l’autrice, nda) e Pari è una ciclope. Anche qui si può riscontrare una dualità particolare poiché Tim rappresenta lo stereotipo del “fortunato”, colui che ha vissuto in una società che lo accettava, mentre dall’altra abbiamo Pari che richiama quella parte di minoranza che deve costantemente mostrare il suo valore; con la figura della ciclope vediamo il tema delle minoranze con un buon lavoro ma privi di un modello da seguire, quindi Pari vive una crisi d’identità poiché essendo anche madre di due bambini (una due-occhi e un ciclope) non sa se dedicarsi alla propria carriera o solamente alla famiglia. E su questo pure ci sarebbe da parlare!

Crisi d’identità e accettazione del sé

 

Se prima abbiamo visto il rapporto tra individuo e società, in questa parte dell’articolo si andrà per il rapporto con il sé. L’autrice non si è risparmiata sulle tematiche e con Pol e Bron ci porta ad una visione più intima dell’individuo; Pol è un ciclope che ha avuto una vita difficile ma nonostante ciò si è sempre messo in gioco, cercando di raggiungere i suoi obiettivi e senza troppe problematiche nonostante la sua giovane età ma la prematura calvizia. Mentre Pol è l’identificazione dell’accettazione del sé, poiché ha passato la sua vita ad amarsi, la figura di Bron è di tutt’altro avviso. Bron è la crisi d’identità fatta persona, ha passato la sua vita vedendosi costantemente in svantaggio e al contrario di Pol si è impegnato per cambiare e somigliare ai “due-occhi” più che cercare una sua strada; il ciclope nel non accettarsi arriva ad operarsi all’occhio, un’operazione che all’inizio sembra renderlo felice ma che si rivolta contro e portandolo in una situazione dove la sua identità è in bilico tra i due mondi: essere ciclope o un due occhi.
Bron vive la sua identità da ciclope come un’ostacolo alla sua felicità tanto che arriva a denigrare “L’occhio di Suzy” , un libro per bambini che racconta dell’identificazione e appartenenza; il rapporto tra il ciclope e il romanzo è anche un tentativo da parte dell’autrice di parlare del tema delle storie, di quelle storie che raccontiamo a noi stessi e che ci vengono raccontate ma che contribuiscono alla nostra definizione. Ma un incontro fortuito porta l’insicuro Bron ad accettarsi e ad identificarsi con la sua origine, riportandolo alla sua infanzia e ad una nuova lettura del libro che ha tanto evitato.

Piccole curiosità

I nomi utilizzati dall’autrice per i suoi ciclopi (e non solo) fanno tutti parte (o quasi) della mitologia greca. Una piccola nota va alla ciclope Etna, chiamata come il vulcano presente sull’isola della Sicilia e secondo la mitologia è lì che risiedevano i ciclopi; così oltre ad essere un omaggio alla nostra amata isola, Etna riesce ad essere anche una sorta di “genitrice” dell’identità ciclopica all’interno del fumetto. Per chi fosse curioso di conoscere meglio le storie scritte da Aminder Dhaliwal, il fumetto è edito in Italia da Edizioni BD.

Oh Rabbia!

Oh Rabbia!

“I never knew till now, it’s not the dates that matter… it’s the dash.”
Henry Altmann

Sapete cosa dura in media 90 minuti? Una partita di calcio, se si escludono i minuti di recupero. Oppure come scopre Henry Altmann è la cottura di un tacchino al forno, oltre a quanto gli resta da vivere nel film The Angriest Man in Brooklyn.
Il protagonista del film, l’ultima interpretazione di Robin Williams, è un uomo di mezz’età che ha un problema : non è in grado di gestire la sua rabbia.
Ma questa rabbia non è dovuta al carattere ma è provocata da ciò che lo circonda, una società stancante. Ed io come Altmann, sono stanco di una società così. Una società che ogni giorno dimostra che non esiste uguaglianza, non esistono pari opportunità, non esiste potersi definire esperto in qualcosa ed essere ascoltato. Stanco delle persone che vogliono per forza sapere come ti senti mentre indossi una maschera e rispondi “tutto ok”, per non dover spiegare che non è tutto ok.
Stanco di quelle persone che giudicano perché hanno sentito dire qualcosa ma non si sono preoccupate di capire meglio, stanco dei pregiudizi perché vieni da una città diversa. Stanco di dover fare attenzione al prossimo ma che il prossimo invece se ne frega.
Un po’ Henry Altmann lo capisco, dover reprimere le cose e poi esplodere ed essere additato come l’esagerato. Perché in fin dei conti persone come me tendono ad accumulare e diventano delle bombe ad orologeria, che una volta che il timer segna 00.00 esplodono. E fanno danni.
Quei danni che poi restano lì, si cicatrizzano e li nascondiamo nel profondo del nostro cervello e che tornano a galla di tanto in tanto a ricordare che abbiamo sbagliato. E che siamo stanchi. Stanchi di sbagliare ed essere giudicati per gli errori, mentre siamo dimenticati quando siamo bravi. Stanchi di non essere all’altezza e di deludere chi pone delle aspettative in noi,
Stanchi di non poter essere sempre noi stessi ma di doverci nascondere per essere accettati
Stanco di un ruolo che non ho chiesto, di essere vittima e carnefice.
Stanco da un po’ di tempo di una vita che è una routine pericolosamente ripetitiva.
Stanco e con un forte desiderio di cambiamento.
scusate se a questo giro vi lascio dei miei pensieri.

 

Squid Game e l’etica individualista del Capitalismo

Squid Game e l’etica individualista del Capitalismo

SPOILER ALERT – SE NON AVETE VISTO LA SERIE QUESTO ARTICOLO POTREBBE ROVINARVI LA VISIONE

Dio è morto, Marx pure e Slavoj Žižek non si sente tanto bene

(Roberto Ciarnelli e Andrea Famiglietti)

Da qualche giorno è stata annunciata la seconda stagione di Squid Game e il nostro primo pensiero che ci è venuto in mente ci ha spinto ad esclamare: Ed ora cosa accadrà? Ma non nella serie (che non vedo l’ora di guardare, Roberto, n.d.a.), ma nella nostra società.

Squid Game, come hanno avuto modo di dire in tanti, è il riflesso della società contemporanea, non solo quella coreana. Ogni concorrente è pronto a sacrificare il prossimo, per vincere. Si arriva ad imbrogliare pur di ottenere il successo, un po’ come accade in determinati ambienti lavorativi e non.

Quello che più colpisce di questa serie è il senso di deresponsabilizzazione che tutti i partecipanti dimostrano di avere, almeno in apparenza. Senza andare troppo lontano ce lo dimostrano i personaggi a noi più vicini, ovvero, il protagonista Seong Gi – Hun e Cho Sang – Woo, entrambi non si sentono responsabili dei loro errori e fallimenti ma addossano la colpa al prossimo. Questo atteggiamento ci viene fatto notare spesso nel corso delle puntate iniziali.

Lo fanno addossando le colpe dei propri fallimenti alle figure più vicine nelle loro vite. Un atteggiamento che Seong Gi – Hun e Cho Sang – Woo mettono in mostra in maniera fin troppo evidente. Potremmo considerarle due facce della stessa medaglia sin da subito. Ma è meglio proseguire con ordine. In tutta la serie possiamo osservare differenti dualismi, eccone due che abbiamo deciso di approfondire.

SEONG GI – HUN E CHO SANG – WOO: FIGLI UNICI DELLO STESSO SISTEMA

La serie, nella sua evoluzione, cerca di farci andare oltre le iniziali apparenze dei personaggi protagonisti. Per alcuni sarà una collettiva discesa agli inferi, per altri rappresenterà una sorta di assoluzione altrettanto collettiva. È proprio questo il caso di Seong Gi – Hun, il protagonista, ma anche colui che ci viene mostrato sin da subito per i suoi vizi e difetti.

Infatti, sin dal primo episodio impariamo a conoscerlo: nelle prime sequenze cantilena la madre appena ritornata da lavoro, quasi fosse un bambino viziato in attesa di un dono. Non facciamo in tempo ad additarlo come tale che lo scopriamo a frugare negli averi materni alla ricerca della carta di credito di quest’ultima. Un inizio non certo edificante, considerando che con i soldi della refurtiva, la sua prima azione è quella di correre al centro scommesse per puntare tutto sul cavallo buono di turno, che però si rivelerà tutt’altro che vincente. Seong Gi – Hun ci appare così: un uomo dedito al gioco, indebitato, una figura irresponsabile anche nei confronti della sua famiglia. Un poco di buono, insomma.

Ma più andiamo avanti nella serie e più vengono mostrati gli aspetti e dettagli della sua persona. Scopriamo in un punto, il suo reale passato: ex operaio metalmeccanico di una casa automobilistica coreana, viveva un’esistenza dignitosa con la sua famiglia, fino a quando la fabbrica chiude e tutti gli operai vengono licenziati. La prima reazione è quella di occupare la fabbrica insieme ai propri colleghi, ma proprio durante un picchetto la polizia irrompe ed uccide un lavoratore. Di lì, la sua personale discesa agli inferi è degna di un romanzo di Malcom Lowry. Fanno seguito altri tentativi, sempre più disperati, per garantire la propria sopravvivenza e quella della sua famiglia. Lo fa aprendo alcune attività nel campo della ristorazione, tutte fallimentari, che non faranno che incrementare il peso dei suoi debiti e porteranno alla disgregazione di ogni legame familiare. Ritornerà a casa, cercando la strada più semplice (anche la più illusoria) al successo e al benessere, il gioco.

In seguito a questa nuova lettura Seong Gi – Hun rappresenta la vittima per eccellenza del capitalismo asiatico, e più in generale di quello mondiale. Porta con sé il peccato originale, che è quello di aver perso il lavoro (anche se per cause non sue), ma il fallimento, si sa, si lega ai singoli uomini, soprattutto se rappresentano la classe subalterna. In balia di uno stato che, implicitamente, emargina chiunque non è ritenuto in grado di essere competitivo o utile alla dicotomia produzione/consumo, Seong Gi – Hun si ritrova ai margini e decide di perseguire al conseguimento degli obiettivi sociali diventando egli stesso un imprenditore. Ma il suo peccato originale lo perseguiterà e farà naufragare ogni tentativo di rivalsa. Così si ritrova solo ed impoverito, senza nessuna forma di ammortizzatore sociale o di assistenza e non può far altro che aggrapparsi all’unico sistema di welfare destinato a sopravvivere in quest’epoca di tagli e privatizzazioni, la famiglia. Ritornato a casa, la sua condizione è ancora ossessionata dal passato recente che pensa di poter risolvere solo attraverso un colpo di fortuna.

In fondo è questo quello che secoli di capitalismo sfrenato ci hanno insegnato: ognuno di noi può vivere il proprio personale sogno, non importa in che modo e a che punto della vita, ciò che conta è accumulare abbastanza da poter consumare in maniera indiscriminata. Ma per fare ciò bisogna produrre, così da poter guadagnare e quindi ottenere successo. Non è forse questo il principio del sogno americano? Non importa la tua origine, il tuo passato, le avversità, ciò che conta è che tu sia abile, fortunato o scaltro e che tu costruisca il tuo destino e la tua fortuna, accumulando ricchezze, migliorando la tua condizione attraverso il consumo più sfrenato (perché in fondo si sa, il consumo è anche una questione di status e di stile. Chiedete a Veblen e Baudrillard se non vi fidate di noi). Come? Questo devi deciderlo tu, a noi non importa.

Ed ecco qui l’incredibile differenza tra Seong Gi – Hun e Chao Sang – Woo. Il primo, in questa fase di limen quali sono i giochi, acquisisce una propria consapevolezza, forse perduta o mai avuta, di sé e del proprio essere sociale (quella che lo zio Karl Marx si sarebbe ostinato a chiamare coscienza di classe) che lo porterà a solidarizzare con alcuni concorrenti, accomunati dalle stesse condizioni, mentre il secondo rimane profondamente ancorato ai principi del capitalismo più sfrenato, quelli individualisti, in cui a primeggiare può essere solo il migliore, il più bravo o il più furbo, mentre gli altri, per quanto suoi simili, sono destinati a soccombere.

UNA LUCE

Nella serie non è l’unica ambivalenza, ci sono anche altri personaggi come Abdul Alì e Kang Sae – byeok: il primo è un pachistano che si è trasferito con la sua famiglia in Corea del Sud in cerca di fortuna, mentre Kang proveniente dalla Corea del Nord, alla ricerca di soldi per ricongiungersi con la madre e il fratello. Entrambi vivono la condizione di immigrati che li accompagna all’interno del gioco e li mette sotto la luce della diversità. Etichettati, emarginati, sono gli unici che vivono la propria condizione in maniera indistinta sia fuori che dentro il gioco.

I due personaggi, con le loro storie, partecipano allo Squid Game non per motivi egoistici e personalistici, ma per il prossimo. Da una parte abbiamo Alì che è nel paese da anni e nonostante i differenti lavori non riesce a vivere una vita dignitosa e per la sua condizione sociale viene vessato sia a lavoro che durante i giochi, additato come irregolare, visto come un nemico, qualcuno che cerca di imbrogliare il sistema e la comunità che lo accoglie, mentre dall’altra parte abbiamo una ragazza che è pronta a tutto pur di pagare per la sua famiglia e ricongiungersi ad essa. A differenza di Alì, Kang Sae – byeok ci consegna un’altra prima impressione, quella di una criminale, che senza danneggiare fisicamente gli altri li deruba, richiamando una personale versione di Robin Hood. Con il tempo riusciamo a vedere l’umanità che la contraddistingue, quando fa comprendere, per la prima volta, che la sua volontà a giocare è dettata dalla necessità di far trasferire la sua famiglia in Corea del Sud e ricongiungersi con il fratello minore.

Alì e Kang sono l’umanità di cui abbiamo bisogno e ci arriva chiaramente nella sfida delle biglie, dove il primo viene miseramente ingannato e tradito da Cho Sang – Woo, pronto ad ogni cosa pur di vincere, e la seconda che non accetta il sacrificio della sua compagna di giochi, una persona fino a quel momento sconosciuta, che vuole permettere di realizzare il suo sogno e vedere finalmente la sua famiglia ricongiunta.

Squid Game è la parafrasi di una società tossica e forse proprio per questo motivo, alcuni adulti sono pronti ad attaccare Netflix per sentirsi meno responsabili per ciò che accade intorno a noi.


CONCLUSIONE

La serie ha rappresentato le disavventure dei tanti che per scelte sbagliate, per errori passati o per altre ragioni si sono ritrovati ai margini della società. Non un partecipante vive la propria presenza lì come una reale ambizione al successo, tutti vi partecipano cercando di rimettere in carreggiata la propria esistenza, cercando di rientrare nel mondo. Lo fanno accettando l’eventualità di un proprio estremo sacrificio pur di raggiungere l’obiettivo dichiarato. Facendolo svelano però il marcio di un sistema di cui tutti sono vittime.

La propensione al successo lavorativo e sociale, l’accaparramento totale delle risorse e delle ricchezze da parte di pochi, in fondo altro non è che uno Squid Game, in cui al posto della morte l’estremo sacrificio è rappresentato dall’esclusione sociale e dall’emarginazione (che in alcuni casi estremi porta alla morte).

Anche se Squid Game richiama dei giochi coreani, alcuni tipici anche della nostra infanzia, non fa altro rappresentare la cruda realtà di una società che arriva al cannibalismo, in un tutti contro tutti estremo e dove chi soccombe viene crudelmente divorato simbolicamente e socialmente.

Roberto Ciarnelli

Andrea Famiglietti

Once & future (never)

Once & future (never)

A volte mi capita di guardare indietro, agli anni andati e poco dopo rivolgo lo sguardo al futuro sento salire nel mio animo un senso di incertezza e inquietudine.
Quel senso di incertezza dovuto a domande di cui, sono consapevole, non riceverò mai risposte

I predatori dell’arca perduta

La prima volta che vidi il film di Spielberg “Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta” pensai cosa da grande avrei voluto fare. Avevo la risposta alla tipica domanda che da bambini ci fanno “cosa vuoi fare da grande?” ed ero felice di poter dire l’archeologo, perché guardando il Dott. Jones alle prese con scoperte storiche e avventure fantastiche non pensavo ad altro che quello era ciò che avrei voluto fare una volta adulto. Eppure ero un bambino che aveva messo il suo primo sogno nel cassetto, senza sapere cosa significasse essere grandi e tutte le responsabilità e preoccupazioni che arrivavano. Ma sognavo di scoperte sensazionali, di viaggi in terre lontane e di pericoli che avrei affrontato senza paura ma tutto questo nasceva e moriva nella mente di un bambino.
Da qualche parte ho lasciato quel cassetto, con un sogno che sta lì ad aspettarmi ma che non vivrò mai più. E forse è meglio così.

Innuendo

Cantava il buon Freddie Mercury che possiamo essere qualunque cosa vogliamo. Ed è vero, siamo potenzialmente capaci di essere qualunque cosa o diventare chiunque noi vogliamo, ma solo crescendo in un ambiente che ci permette di credere in un futuro e poter realizzare quei piccoli sogni che abbiamo messo nel cassetto. Eppure viviamo in una società pronta a cannibalizzare le nostre aspettative, crearci disagi che ci porteremo sulle nostre spalle come dei cloni di Atlante e alla fine ci costringerà ad essere un individuo diverso da ciò che immaginavamo.

You can be anything you want to be
Just turn yourself into anything you think that you could ever be
Be free with your tempo be free be free
Surrender your ego be free be free to yourself

Nonostante questo mio pessimismo mi vien da dire che è importante circondarsi di persone che vi spronano, che cercano in ogni modo di tirare fuori le vostre qualità. In pratica dovremmo avere tutti una persona che ci invita a dare il massimo ogni giorno
Ma sono soddisfatto di come sono oggi? No, non proprio al 100%
Forse l’unica domanda a cui so dare una risposta decisa, da bravo ignavo quale sono.

Gioventù cartacea

Gioventù cartacea

Cos’è esattamente la giovinezza? La definiamo come quel periodo della nostra vita che ci porta a vivere l’adolescenza prima di entrare nell’età adulta, una fase in cui iniziamo a fare le prime vere esperienze di vita. Pensando a quegli anni sembra passata un’eternità eppure durante quella fase ho iniziato ad appassionarmi a ciò che è definibile come cultura nerd; nonostante il Topolino sia stato il mio primo fumetto ad essere mai letto e che mi ha accompagnato per moltissimi anni,sono stati i manga e gli anime ad accentuare la passione per il medium fumetto.
Leggere e vedere storie di “coetanei” mi dava l’opportunità di alienarmi dalla realtà, immaginare esperienze che in una giornata normale non avrei potuto sperimentare ma oggi, a distanza di anni, mi rendo conto che i protagonisti di tutte queste opere provenienti dal Giappone non erano realmente dei giovani come lo ero io.

Anagraficamente giovane, mentalmente adulto

Quando eravamo giovani penso che la maggior parte di noi pensava alle prime relazioni con l’altro sesso, la scoperta di emozioni che prima non comprendevamo, pensieri nuovi si profilavano nelle nostre acerbe menti, ma nonostante questo eravamo anni luce diversi dai protagonisti di Dragon Ball o Pokemon, per citare qualche titolo.
Le storie della maggior parte di loro ricorda l’archetipo del viaggio dell’eroe, di cui vi ho parlato qualche tempo fa sempre qui su Scarpescioute, dove i protagonisti nelle loro storie intraprendevano un viaggio dove si mettevano in gioco e alla fine di esso realizzavano che la loro vita era cambiata; almeno la maggior parte dei protagonisti si ritrovano a vivere avventure soprannaturali con poteri speciali, persone dalle spiccate personalità e tutto ciò che la mente umana può produrre e mostrare ad un pubblico mediamente giovane. Però ci sta un personaggio che mi viene in mente che nonostante viva in una realtà distopica e abbia la possibilità di guidare enormi robot, resta un giovane ragazzo che affronta la vita con tutte le sue paure, gioie ed esperienze che lo porteranno a maturare: Shinji Ikari.

Neo Genesis Evangelion

Shinji è il protagonista di Neo Genesis Evangelion e la sua storia è ambientata a Neo-Tokyo 3 nel futuro. Il 13 Settembre 2000 un violento cataclisma si abbatte nell’Antartide, sciogliendo i ghiacciai e rimodellando l’asse terrestre e portando alla morte milioni di esseri umani; veniamo catapultati nel 2015 dove il giovane Shinji è alle prese con il suo trasferimento nella sua nuova casa a Neo – Tokyo 3 e l’inizio della sua nuova vita come futuro pilota di Eva.
Gli Eva, o Evangelion, sono degli enormi umanoidi artificiali utilizzati dagli esseri umani per affrontare e difendersi da una minaccia dall’origine sconosciuta chiamata Angeli; Shinji è un ragazzo che si ritrova catapultato in un mondo dove essere giovane non lo aiuta ad affrontare al meglio la situazione in cui vive.
Oltre a dover combattere per la salvezza dell’umanità, Shinji si ritrova soprattutto ad affrontare i problemi che un adolescente si ritrova a vivere all’inizio della fase; i primi rapporti interpersonali con l’altro sesso che lo portano a non comprendere come vivere serenamente la convivenza con Asuka Langley, una ragazza che come lui guida gli Eva, o il rapporto con Rei Ayanami.
Ma anche il rapporto che instaura con i suoi compagni di scuola non è semplice, trova difficoltà a socializzare sia per il suo carattere introverso sia per la posizione che ricopre come pilota; ed è proprio negli anni dell’adolescenza che spesso le persone si formano nelle relazioni sociali, con i propri tempi e le proprie modalità ma nonostante questo chi è un po’ più riservato viene considerato come un individuo strano e da evitare assolutamente
Ecco Shinji è più simile a noi di qualsiasi altro protagonista di manga o anime, poiché non vive tutta la sua storia ad affrontare solo minacce provenienti dallo spazio ma si ritrova a confrontarsi con la quotidianità, con i problemi e le paure che un giovane che inizia un nuovo percorso nella sua vita; come Shinji molti giovani si sono ritrovati senza una guida, senza qualcuno che potesse indicargli quale strada fosse giusta per affrontare la vita
Shinji Ikari alla fine è un normale ragazzo giapponese, che vive in una società dove i giovani e il loro futuro non sono presi in considerazione da chi dovrebbe guidarli. Quasi tutti i suoi rapporti sono definiti dal suo ruolo di pilota : dai compagni di classe al personale con cui si interfaccia fino alla difficile relazione con suo padre.
In fin dei conti siamo stati un po’ tutto come Shinji, con i nostri problemi, con le nostre paure, con l’incertezza che ci accompagnava verso il futuro e una quasi assoluta sfiducia in chi all’epoca ci doveva aiutare, per diventare dei decenti adulti.

“I still don’t know where to find happiness. But I’ll continue to think about whether it’s good to be here…whether it was good to have been born. But in the end, it’s just realizing the obvious over and over again. Because I am myself.”

-Shinji Ikari