In genere le mappe vengono utilizzate per orientarci, per trovare la strada giusta o semplicemente per non perderci. Eppure la sola mappa non ci aiuta, abbiamo comunque bisogno di altri strumenti o elementi per orientarci meglio ed evitare così di perdersi; sarebbe bello riceverne una all’inizio del nostro percorso, chiara e che ci indichi quale sia il nostro percorso migliore ma per fortuna o sfortuna siamo gli unici che possono disegnare la propria mappa. Un po’ come Zerocalcare in Strappare lungo i bordi, la serie animata uscita su Netflix qualche tempo fa, ci ritroviamo a percorrere un immaginario percorso tratteggiato e di cui ignoriamo la destinazione ma che scopriamo giorno dopo giorno, arricchendo la nostra mappa di dettagli ed esperienza; perché potremmo immaginare la nostra vita come una mappa su un foglio bianco, immacolato e che sporchiamo piano piano con piccoli disegni che ci porteremo sempre dietro e che guarderemo ogni volta che ci sentiremo persi in modo tale da ritrovare la nostra vita. Perché sì spesso ci capiterà di perderci, di sentirci smarriti e di non sentirsi valorizzati e per questo motivo saremo lì con la nostra mappa in mano a guardare ai nostri risultati, soddisfatti di essere arrivati dove siamo e di non esserci arresi completamente. Alla ricerca della rosa dei venti Dicono che porsi degli obiettivi, aiuti ad orientarsi nella vita e che impegnandosi siamo in grado di superare qualsiasi ostacolo e raggiungere la vetta. Eppure in 33 anni di vita ho avuto modo di constatare che di ostacoli ne incontriamo e spesso veniamo fermati, un po’ come quando si finisce sulla casella vai in prigione di Monopoly. In quei momenti non facciamo altro che arrestare il nostro percorso, domandandoci magari davanti ad uno specchio “Perché ho fallito?” e spesso la risposta a quella domanda non arriva nonostante tutto. Avere in questi momenti qualcosa che ci porti a non sprofondare è importante, una mappa non deve essere per forza un pezzo di carta con un percorso che magari ci porta al tesoro nascosto ma può essere un qualsiasi oggetto o ricordo che ci dia la forza per restare su quella via che abbiamo deciso di percorrere e che ci porterà ad uno dei tanti obiettivi che ci siamo posti. Viviamo di esperienze che ci portano ogni giorno a conoscere sia il mondo che ci circonda che noi stessi, portandoci alla consapevolezza che un giorno sentirsi fuori posto smetterà di essere un pensiero e finalmente potremo dire “ho trovato il tesoro che avevo sepolto anni fa..” e inizieremo a disegnare una nuova mappa con un nuovo obiettivo. Fermarsi e riprendersi
A volte fermarci per capire dove stiamo andando non è una brutta idea. Prenderci del tempo, raggruppare le idee e guardare alla nostra mappa ci aiuterà sicuramente a non perderci poiché basta poco e la nostra rotta sarà diversa. Anche mischiare il nostro percorso con un altro, incrociarci con altre esperienze e persone non è del tutto negativo se tutto porta a riprenderci e stare meglio. Però bisogna fare attenzione a non inoltrarci troppo sui percorsi altrui rischiando così di perdere completamente la via e smarrirci nel nostro cambiamento. Alla fine Cristoforo Colombo ha scoperto l’America seguendo un percorso totalmente diverso da ciò che indicavano le mappe dell’epoca e come lui dovremmo iniziare a guardare ai nostri obiettivi non seguendo necessariamente quella linea tratteggiata quasi imposta da una società che cade a pezzi ogni giorno che passa.
Il 2020 è stato un anno particolare, come scritto e raccontato in altri articoli. Ma è stato anche l’anno in cui è nato questo spazio in cui è possibile raccontarci e mostrare a chi ci segue realtà e aspetti che normalmente si ignorano. Ognuno di noi, qui su Scarpesciuote ha intrapreso un viaggio e una narrazione che lo identifica: chi attraverso un racconto, chi scrivendo una lettera, chi parlando di filosofia e così via. Siamo un gruppo omogeneo che cerca di raccontarsi, di ritagliarsi un angolo in questa società che spesso ci ha messo all’angolo. Siamo ragazzi e ragazze come tutti, con dei sogni e delle aspirazioni, con paure e desideri. Noi siamo.
I protagonisti di Sense8, serie diretta da Lana Wachowski
Game Start! Quando ero bambino, spesso i videogiochi venivano descritti come nocivi per la salute e alienanti. Bè questo pensiero oggi non è cambiato molto ed anzi è peggiorato; basti pensare a come negli Stati Uniti ognivolta che avviene un crimine dove la gente viene ammazzata, il primo pensiero va ai videogiochi. Perché si sa che questo medium istiga alla violenza, non la libera vendita delle armi. Ma i videogiochi davvero sono nocivi e pericolosi? No, non lo sono. Il medium videoludico rientra tra le categorie su cui scrivo per descrivere e narrare la società che ci circonda. Al giorno d’oggi i videogames non sono più dei semplici media da intrattenimento, dove uno gioca per arrivare da un punto A ad un punto B ma sono diventati prodotti culturali che prendono spunto dalla realtà per narrare quegli aspetti che la maggior parte ignora o per trasmettere delle sensazioni che in genere percepiamo guardando un film o una serie tv. Questo medium oltre alla funzione di narrazione ed immedesimazione, sta iniziando a svilupparsi anche come aggregatore sociale e sportivo (in questo caso si parla e parlerà di esports) e sempre più viene riconosciuta la sua importanza a livello culturale. Pian piano il videogioco sta uscendo dall’angolo dell’escluso e sta iniziando ad essere sempre più un prodotto culturale utilizzato da più o meno tutti. E qui su Scarpesciuote vi porterò in reami lontani, a conoscere personaggi e storie che mai penserete di poter leggere o vedere.
Ready Player One diretto da Spielberg e tratto dall’omonimo libro di Ernest Cline
Tra fumetti e film L’immagine che vedete sopra è estratta da “Ready Player One” film diretto da Steven Spielberg e fa riferimento all’omonimo libro di Ernest Cline. Nel film veniamo proiettati in una società futuristica dove quasi tutte le attività si svolgono all’interno di una realtà virtuale chiamata OASIS (Ontologically Anthropocentric Sensory Immersive Simulation) e dove ogni individuo interagisce con il prossimo attraverso un avatar; tutti sono impegnati a svolgere le proprie attività, dallo svago al lavoro passando per i viaggi e l’apprendimento, in questa realtà virtuale. Non è un po’ quello che stiamo pian piano vivendo? Parlare di film, fumetti e serie tv qui su Scarpesciuote è l’altra macro categoria a cui faccio riferimento. Durante il 2020 mi è capitato spesso di descrivere, raccontarvi e consigliarvi fumetti o serie tv che fossero idonee alle tematiche che tutti insieme vi abbiamo mostrato. Ma ci sta una precisazione da porre poiché mentre i film e le serie tv sono visti e commentati da tutti, il fumetto oggi fa ancora parte di una piccola nicchia di appassionati. Quest’ultima affermazione però è vera a metà poiché con l’avvento dei cinecomics della Disney ho potuto assistere ad un aumento vertiginoso di lettori di fumetti, cosa che qualche anno fa (forse oserei dire 10 o 12 anni fa) era impensabile di poter parlare di Capitan America o Thor con qualcuno che non era del mestiere. L’altra faccia della medaglia, vede il medium fumettistico come una cosa per bambini che non fa altro che intrattenere eppure c’è stato un periodo in cui il fumetto era utilizzato per denunciare determinate situazioni. Un esempio? V per Vendetta di Alan Moore fu una denuncia nei confronti del governo della Thatcher, la quale stava iniziando a creare un clima di terrore nei confronti degli omosessuali e sempre parlando di tematiche LGBTQ+ vi ricordo di Cinzia di Leo Ortolani e del cambiamento che l’identità transessuale ha avuto negli anni e che oggi è sempre più accettata. Il fumetto quindi al pari di un film narra la società, una società che si schiude a pochi eletti; giusto per ricordare anche che V per Vendetta è ricordato più come film che come graphic novel e che dal film delle sorelle Wachowski è nato il movimento Anonymous, una rete di hacker che si occupa di rendere il mondo un pò più equo.
V per Vendetta- Sopra una scena tratta dal fumetto; sotto la stessa scena tratta dal film delle Wachowski
E quindi? E quindi siamo giunti alla fine di questo articolo, dove ho provato a presentarvi una realtà che spesso viene ignorata. Questi sono gli strumenti che utilizzo per raccontarvi non solo ciò che ci circonda ma anche qualcosa di me. Qualcosa che mi riguarda sempre da vicino e che spesso trascuro, impegnato a perdermi tra i meandri di un labirinto videoludico o di una trama di una serie tv che assorbe ogni mia attenzione. E che poi magari vi porto qui su, sperando sempre di risultare interessante e critico allo stesso tempo. E’ giunto alla fine il momento di salutarvi per oggi e vi lascio con una canzone che mi è venuta in mente leggendo Antonio. Buona lettura e buon ascolto!
Fin da bambino ho avuto una profonda passione per i giochi di strategia, dal manageriale al real time strategy passando per gli strategici a turno. Il primo titolo a cui ho giocato è stato Civilization di Sid Meyer, dove avevi l’opportunità di interpretare un personaggio storico di una nazionee costruire un impero eterno partendo dalla preistoria fino ai viaggi nello spazio. La particolarità di questo strategico era l’utilizzo dei colori per identificare le varie nazioni e una cosa che mi piaceva tantissimo era vedere il riepilogo a fine partita, dove veniva mostrato sulla cartina del gioco come i vari colori si espandevano e sparivano dal gioco. Un po’ come sta avvenendo in questo periodo, dove le regioni cambiano colore dal giallo, passando per l’arancione e arrivando al rosso. E cambiando colore, cambiano anche le regole da osservare all’interno della regione. Ma una cosa che mi ha colpito è la percezione delle persone rispetto a questi cambi e agli eventi precedenti avvenuti in determinate zone.
Una narrativa nazionale Un altro gioco che da piccolo mi piaceva fare su Amiga 600 era North & South che riproponeva la Guerra di Secessione Americana attraverso una grafica cartoon e la possibilità di poter giocare o sotto la bandiera degli Stati Uniti d’America o degli Stati Confederati d’America. Un gioco che presentava una componente storica ed una narrativa adatta a comprendere cosa si aveva avanti. Ed è proprio di narrativa che voglio parlare. L’Italiaha sempre avuto una narrativa particolare, distinta tra il nord e il sud del paese. Il nord come la parte produttiva e seria del paese e contrapposta al sud, dove le persone sono scansafatiche e vivono nell’ozio tutto il giorno. Negli anni questa narrativa è rimasta invariata, presentando il nord come “buono” e il sud come “cattivo”. Con i social tipo Facebook la narrativa è diventata popolare, dove tutti possono dire la propria e giudicare senza una reale motivazione. E questa cosa l’ho notata con gli ultimi eventi che si sono registrati in alcune regioni, in particolare in Campania e in Lombardia. Eventi simili tra loro ma visti con occhi diversi, forse complice anche la distanza da queste situazioni. A Napoli le rivolte che ci sono state in vista di un lockdown proposto da De Luca, ha portato una piccola parte della popolazione a scontrarsi con le forze dell’ordine e incendiando e distruggendo ciò che c’era per strada. Questi scontri sono stati accolti sui social con svariati meme, dimostrando e narrando come Napoli sia una città che non rispetti le regole, rea di vivere costantemente nel caos e qualcuno come sempre augurando il risvegliarsi del Vesuvio. Napoli e il Sud in generale hanno e avranno sempre una narrativa negativa, anche quando chi emigra al Nord in cerca di lavoro. Essere di giù è negativo, un marchio indelebile come la lettera scarlatta che ti segna come un ladro che si è trasferito per rubare ciò che è di diritto per chi è nato al nord. E il nord? Nella sua narrativa sempre positiva, esce pulita (o quasi) anche quando gli eventi di Napoli si sono ripetuti a Milano, con una visione più punitiva per chi ha compiuto gli scontri e saccheggiato negozi. Perché mentre al sud si sono limitati a scontrarsi e distruggere ciò che incontravano per strada, a Milano i manifestanti hanno ben pensato di assalire anche i negozi e prendere quello che potevano. E a queste notizie ho notato come l’eterna narrativa nord/sud è sempre più viva, sempre presente e sempre di parte. Perché per le manifestazioni di Napoli, battute e affermazioni di non rispettare le regole erano all’ordine del giorno mentre per ciò che poi è avvenuto a Milano, era facile leggere di comprensione, di sopportazione a limitazioni e qualcuno forse si è anche indignato. Ma con anni di narrativa sbagliata alle spalle, mostrerà sempre due realtà diverse. Anche ora che siamo uguali per i colori dati da una situazione d’emergenza, ci ritroviamo ad essere ancora più divisi e distanti. E distanti non per delle norme di sicurezza, come ci propone il governo, ma per via di un sistema marcio che vive nel narrare l’Italia da due punti di vista. E citando Giuseppe Conte “Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore domani“ Sperando che in quel domani questa narrativa distanziante smetta di esistere.
Narrazioni sull’Olocausto Ognuno di noi scrive per un motivo, c’è chi scrive per raccontarsi, chi per far conoscere una passione e chi per ricordare eventi che hanno segnato la storia.Art Spiegelman, autore di fumetti che insieme ad Alan Moore e Frank Miller ha rivoluzionato il concetto di fumetto, che ci narra dell’esperienza del padre durante l’Olocausto nella sua opera : Maus. Art Spiegelman è sia autore che co-protagonista della sua stessa opera, dove ripercorre gli anni della guerra attraveso gli occhi di Vladek Spiegelman, suo padre. Ma Maus non parla solo dell’Olocausto, narra anche del difficile rapporto che intercorre tra padre e figlio e della difficoltà ad accettare di essere un sopravvissuto. La particolarità di Maus è l’utilizzo di personaggi antropomorfi ed ogni razza caratterizzata per una specie animale: topi per disegnare gli ebrei, gatti per indicare i nazisti oltre ad altri animali per altre popolazioni.
Vladek Spiegelman
La maggior parte del fumetto, o graphic novel, si incentra sui ricordi di Vladek Spiegelman durante gli anni della seconda guerra mondiale in Polonia. La rivoluzione del concetto di fumetto apportata da Spiegelman è dovuta ad una narrazione cruda, un riproporsi di ricordi dolorosi e di eventi che si sperano mai si ripeteranno; ma non viene narrato e ricordato solo l’Olocausto, Spiegelman ci mostra anche il difficile rapporto che aveva con il padre Vladek. L’autore ci mostra un uomo, o forse meglio dire un topo,sopravvissuto in parte agli orrori della guerra perpretati dai nazisti e che ha perso quasi tutto durante quegli anni. Sopravvissuto in parte poiché vive nei ricordi della moglie Anja e di come ha vissuto durante quegli anni, trasformandolo profondamente. Il padre paragona costantemente il presente con il passato, la memoria riscritta e il dolore rivissuto per creare Maus ad opera di Art Spiegelman; questa trasformazione porta Vladek ad essere definito dai suoi conoscenti e dal figlio stesso come “la caricatura razzista del vecchio ebreo spilorcio”. Vladek fisicamente è sopravvissuto alla guerra ma al suo interno è morto, pensa alla fine dei suoi giorni e alla moglie che non c’è più da anni. Ogni cosa che fa è in visione della morte, della sua fine. Ma nonostante ciò e grazie alla decisione del figlio di raccontare le sue esperienza, vive di nuovo con la moglie nei ricordi.
I gatti e i topi
Il tratto distintivo di Maus è di aver disegnato tutto in una sorta di metafora, trasformando ogni popolazione in una specie animale. Gli ebrei sono stati disegnati come topi, per ciò che hanno subito durante gli anni della seconda guerra mondiale. Cacciati e costretti a nascondersi in ogni posto possibile, nei ricordi di Vladek spesso questi bunker erano costruiti in spazi angusti e dalla dubbia igiene. Le varie testimonianze pervenute a noi, ci ricordano come i treni nazisti erano stracolmi di ebrei e ammassatti uno sopra l’altro proprio come topi, oltre ad essere utilizzati come materiale per esperimenti. Per “ovvie ragionie” i nazisti sono rappresentati come gatti, per la simile ferocia con cui i felini si avventano sui topi. I tedeschi durante l’Olocausto depredarono di qualsiasi ricchezza la popolazione ebrea ed arrivando ad annullare il pensiero stesso che essi fossero esseri umani, quest’ultima realtà confermata da Primo Levi con “Se questo è un uomo“. Oltre a nazisti ed ebrei, vengono mostrati anche i polacchi sotto le sembianza di maiali. Questa decisione forse è stata presa dall’autore per gli atteggiamenti che i polacchi hanno avuto spesso nei confronti degli ebrei, pronti a vendere un giudeo ai nazisti appena potevano, denunciando e cercando per le città qualcuno da consegnare in cambio di favori e privilegi. Poche volte nelle tavole di Maus si è visto un atteggiamento “positivo” da parte dei polacchi, secondo la ricostruzione data dai ricordi del padre dell’autore; spesso il protagonista si è ritrovato tradito da chi pensava fosse un amico, situazione dettata anche dalla ricerca della speranza.
I soldi non fanno la felicità
Un altro elemento che viene messo in risalto nella storia, sono i soldi. Oggetti di valore, monete, marchi e qualsiasi ricchezza sono proposti sia nei ricordi di Vladek che nel presente durante la stesura della graphic. Tutta la vita di Vladek gira intorno ai soldi, spesso utilizzati durante l’Olocausto per salvarsi. Ma i soldi, non fanno la felicità. E per gli ebrei, ricchi o poveri, di certo non hanno fatto la felicità. Chi poteva e riusciva, perché non sempre, corrompeva un ufficiale o un soldato tedesco per allungarsi la vita fino a data da definirsi. Data da definire poiché anche il giorno dopo, potevi essere mandato nei forni o nella camera a gas. Nei ricordi di Vladek, ci viene mostrato come i soldi compravano anche l’amicizia e la fiducia e fintanto che pagavi, eri al sicuro. Di come potevi essere ricco ma se non eri giovane, non ti salvavano da Auschwitz ed eri ammassato con tutti gli altri. Senza distinzione di classe. Di come i traffici illeciti ti salvavano ma se scoperto, non faceva differenza se eri un topo, un gatto o un maiale. I soldi non fanno la felicità ma in alcuni casi ti allungano la vita.
Overture Oggi i fumetti non vengono ancora considerati come una cosa “seria”, come un medium che possa insegnare gli stessi valori o pensieri trasmessi da un libro. Oggi il fumetto è visto ancora come una lettura per bambini, un qualcosa che distrae e basta. Ma il fumetto si è evoluto, grazie anche ad autori come Art Spiegelman, che ci racconta attraveso baloon, disegni e tutto ciò che compone questo medium una realtà che si spera che non si ripeta. Il fumetto è come un libro, può essere leggero, può essere duro, può essere romantico. Perché quindi Maus? A mio parere è una di quelle opere che andrebbero consigliate durante gli anni del liceo, dove la mente è maleabilie e determinati insegnamenti possono essere appresi molto più facilmente. Perché poi da adulti magari si evita di odiare chi è diverso da noi, diverso per la pelle, diverso per l’orientamento sessuale, diverso per la religione. Perché in fin dei conti ognuno scrive per un motivo ben preciso e Art Spiegelman ha scritto per ricordare.
Dall’inizio del primo lockdown mi è capitato spesso di leggere sui social o aver ascoltato in fugaci conversazioni come questa pandemia sia stata in grado di privarci della libertà, della socialità, di qualcosa. Ma di una cosa sono sicuro non verremo privati mai: il tempo. E’ un concetto astratto ma che ci accompagna in ogni momento, studiamo la storia per conoscere i tempi che sono andati e che dovrebbero essere da monito per non ripetere determinati errori ma nonostante tutto qualcosa di negativo accade. Come si dice? Errare humanum est, perseverare autem diabolicum.
Il tempo è una variabile maleabile come l’argilla, abbiamo a disposizione una quantità quasi illimitata ma che non sappiamo gestire in modo corretto a volte. Per mia esperienza durante il primo lockdown ho imparato a gestire meglio questa risorsa, riscoprendo il valore dietro al tempo e a ciò che potevo recuperare: serie tv, libri, film e passioni abbandonate da tempo. Ho imparato a dare valore a ciò che avevo, a ciò che facevo e dandomi piccoli obiettivi giornalieri; ammetto che spesso non sono riuscito a raggiungerli ma ero felice di ciò che facevo, ero una volta tanto organizzato.
E nel primo lockdown pensavo, realmente mi mancano tutte quelle cose che dicono sui social? Sinceramente non mi sembrava mi mancasse la libertà di esprimere un mio pensiero o di parlare impaurito da un eventuale censura, la socialità aveva solo cambiato i canali di comunicazione : da una modalità face to face, magari con un caffè, si era passati dietro ad uno schermo. Avevo semplicemente cambiato il modo di usufruire e consumare il mio tempo ma le persone con cui condividevo quei momenti, prima della pandemia, erano sempre le stesse.
Il tempo è una variabile maleabile. Arrivati a questo punto vi starete chiedendo perché io stia parlando del tempo, vero? Bè nella mia nuova organizzazione quotidiana ho avuto il piacere di guardare un film che tratta proprio del tempo e del suo utilizzo: In Time.
Il Tempo è tutto
Nel 2012 la pellicola di Andrew Niccol fu distribuita nelle sale cinematrografiche italiane;nel film ci sono vari volti noti del mondo dell’intrattenimento come Justin Timberlake, Cillian Murphy, Olivia Wilde e Matt Bomer. In Time è ambientato nel 2169 e le persone sono programmate geneticamente ad invecchiare fino ai 25 anni, da quel momento in poi sul loro braccio compare un timer che gli segnerà il tempo restante prima di morire. Con questa prospettiva il tempo è diventato una valuta con cui la gente paga e viene pagata per il proprio lavoro ed è il mezzo di pagamento per le necessità ed i lussi; il tutto avviene tramite una particolare tecnologia, dove è possibile immagazzinarlo in appositi apparecchi e trasferirlo di persona in persona. Pertanto ne risulta una società squilibrata, dove i ricchi possono vivere per sempre, mentre gli altri cercano di negoziare giorno per giorno la loro sopravvivenza. Il tempo è diventato tiranno, la vita gira intorno all’ultimo attimo e ogni istante diventa importante e in funzione della sopravvivenza dell’individuo singolo. La differenza di classe è mortale, chi è povero vive alla giornata mentre chi è ricco guarda all’immortalità; azzarderei a parlare di un’applicazione del capitalismo allo stato puro, dove anche il tempo è negato a chi lavora per sopravvivere. Il protagonista del film, Will Salas, vive insieme alla madre nella zona 12 conosciuta anche come “il ghetto“ e cerca di far sopravvivere lui e la sua famiglia lavorando in una fabbrica che si occupa della costruzione di apparecchi presta-tempo; la società è divisa in zone ed ognuna presenta regole e “prezzi” adeguati al tipo di tenore di vita presenet. La zona 12 è un luogo dove l’inflazione cresce, gli stipendi calano e il costo della vita aumenta e sempre più persone perdono la vita una volta scaduto il proprio tempo mentre la zona 4, conosciuta come New Greenwich, è il luogo dove vivono i più ricchi e si sentono come divinità al comando in un Eden strappato al tempo e allo spazio. Ma le regole del tempo vengono osservate e controllate da persone che si autodefinisconoTimekeeper (ocustodi del tempo), individui che si preoccupano che la distribuzione di questa valuta non si sperda nelle zone più abiette e che rimanga uno status quo.
I segreti di questa società vengono rivelati a Will una sera dal centenario Henry Hamilton, dopo che l’uomo è stato salvato da Will stesso dai Minutemen un gruppo criminale che spadroneggia nella zona 12 sottraendo il tempo ai più sfortunati. Henry rivela a Will che lui ha vissuto 105 anni e che non ha più piacere a vivere come un privilegiato, soprattuto quando ha scoperto che esistono persone che controllano tutto per fare in modo che la società rimanga divisa tra ricchi e poveri. Se tutti non morissero, infatti, si avrebbe prima la sovrappopolazione del pianeta e poi ci sarebbe una crisi, che andrebbe ad esaurire le risorse che non sono illimitate. Quindi la gestione di tasse, paghe e tariffe viene fatta in modo che pochi vivano secoli, millenni o per sempre, mentre i poveri continuino a morire, mantenendo un equilibrio. Il tempo è denaro e ogni attimo di vita diventa prezioso, più di prima. Will si rende conto di questa cosa dopo che ha ereditato da Henry il secolo che l’uomo aveva deciso di spendere quella sera. Deciso a cambiare la sua vita e approfittare della nuova situazione economica, si trasferisce a New Greenwich dove si ritrova ad essere un estraneo. La prima ad accorgersi di questa caratteristica è la giovane Sylvia Weis, figlia del miliardario Philippe Weis, che nota come il ragazzo faccia le cose di fretta e non con calma. Questa è la caratteristica che ha accompagnato fino a quel momento Will nel ghetto, dove perdere un singolo attimo poteva decretare la tua fine.
Oltre il tempo
Il tempo è tutto in questa società descritta da Andrew Nicoll e mi ha portato a ragionare come il tempo stesso sia la chiave fondamentale della nostra stessa esistenza. Siamo dipendenti e indipendenti allo stesso tempo, scandiamo ogni secondo della nostra vita senza preoccuparci realmente di come spenderemo questa preziosa risorsa. C’è chi magari preferisce spenderlo urlando che viviamo in una dittatura anche se siamo ben lontani da una forma di governo tale; c’è chi magari si reinventa e chi riscopre sè stesso. Fintanto che il tempo sarà libero oso affermare che saremo liberi, poichè saremo noi stessi i custodiche decideremo come spendere e guadagnare questa valuta.
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