Abbiamo bisogno di credere in qualcosa. Grazie Paolo, grazie Diego

Abbiamo bisogno di credere in qualcosa. Grazie Paolo, grazie Diego

Notizie così, la mia generazione non se la sentirebbe proprio di riceverle. Si conclude nel peggiore dei modi questo anno, al quale sembriamo esserci tristemente abituati, questo anno che con l’impeto di uno spietato tiranno ci ha costretto a rivedere molte delle nostre priorità, che ci ha privato delle tradizioni e dei gesti più usuali e comuni.

Natale si avvicina, un certo languore mi coglie impreparato. Il calcio, si sa, è sempre stata distrazione pura, citando Arrigo Sacchi, è “la cosa in assoluto più importante tra quelle meno importanti”. Ma ora come ora neanche questo svago sembra darmi sollievo. Gli stadi desolantemente vuoti, il rumore della palla calciata, le urla dalla panchina…San Siro che ad ogni gol ripropone un jingle ridondante e piuttosto noto a chi, come me, ha seguito con piacere l’hockey su ghiaccio o altri sport americani sperando che certe pagliacciate non arrivassero mai nei campi nostrani. Ve lo confesso, non ne posso più.

during the Serie A match between AC Milan and Genoa CFC at Stadio Giuseppe Meazza on March 8, 2020 in Milan, Italy.

Non ne posso più proprio perché allo sport più bello del mondo è stato momentaneamente (si spera) tolto il suo motore e la sua naturale alimentazione: la gente. Mi è sembrato uno scherzo del destino assurdo, proprio qualche anno fa lamentandomi con un amico ho detto a mezza bocca: il calcio del futuro lo vorranno senza pubblico. Strutture giganti e vuote. Telecamere ovunque, pronte a soddisfare ogni nostra voyeuristica perversione, tecnologia pronta ad eliminare ogni margine d’errore umano. Non avrei mai voluto fare il Nostradamus della situazione, anche se pare che ci ho preso in pieno.

Il mio sangue da “slavo” mancato non può esimermi dal mio essere un inguaribile fatalista. Pertanto non ho faticato nel vedere la dipartita di Diego e Paolo come un segno del destino, proprio in un annus horribilis che sta drasticamente segnando un punto di non ritorno nella storia della fruizione calcistica. Già, Diego e Paolo, entrambi in modi e tempi diversi costretti a giocare il ruolo di capipopolo, a non dover soltanto giocare ma anche a rappresentare. Entrambi ricordati per delle gesta incise nella storia del calcio, entrambi discutibili in molte scelte di vita. Paolo Rossi, l’uomo che fece piangere il Brasile, e Diego Armando Maradona, El pibe de oro, venerato Masaniello, tracotante vendicatore delle isole Malvinas, non ci sono più. Il 2020 li ha portati via lasciandoci dietro tante domande. Risposte? Poche e confuse, in verità.

Ma una certezza ce l’abbiamo: grazie Diego, grazie Paolo. Le vostre gesta riecheggiavano negli anni ’90 nei racconti dei nostri padri. Ed entrambi siete legati ad un fil rouge comune, ad una storia che ogni volta che si ripete riaccende la fiammella del miracolo che ci ricorda il perché rimaniamo ancora ore ed ore incollati a guardare ventidue uomini che si sfidano calciando un pallone: perché abbiamo un tremendo, inguaribile, affamato, malato bisogno di credere in qualcosa, sia pure una volta ogni tanto. Abbiamo bisogno di credere che la storia dei più deboli non è già stata scritta. Ma che quando un debole si incazza può succedere ancora di tutto e può far ammutolire i potenti.

Grazie Paolo, perché quel pomeriggio a Barcellona non ci credeva nessuno. Ma veramente nessuno. Il Brasile era, a detta di molti, tra i più forti di sempre. Ma Paolo Rossi decise che no, l’Italia operaia, tenace, avrebbe vinto col cuore. Tre gol, Waldir Peres ammutolito, un intero Paese incredulo davanti alla TV piange lacrime amare. Socrates, Falcao e Zico tornano a casa, l’Italia timida e gracile che balbettava ridicola nel girone eliminatorio si trasforma in una corazzata paurosa pronta ad arrivare in fondo alla notte di Madrid. “Paolo Rossi era un ragazzo come noi…” cantava Venditti. Aveva ragione.

Grazie Diego, perché a 24 anni potevi andare dove volevi. E invece hai scelto di salpare in una terra umiliata, ferita, dimenticata e derisa. Grazie perché ci hai messo la faccia, hai sbagliato ed hai pagato. Grazie perché gli inglesi quel pomeriggio a Città del Messico volevano morire, schiaffeggiati in pieno volto due volte: la prima volta beffati da un geniale imbroglio (pensate solo che oggi il var ci avrebbe prontamente negato una gioia simile), la seconda tramortiti da uno slalom leggendario, sbeffeggiante, difficilmente credibile. Grazie perché spesso ci hai mostrato come i più forti sulla carta possano perdere, che il destino può essere sovvertito, che la storia del calcio riparte ogni volta che un bambino in qualche Barrio di Buenos Aires prende a calci una lattina. Abbiamo un tremendo bisogno di crederlo ancora.

Intanto qui il vuoto che ci avete lasciato è immenso. Mentre scrivo queste righe Antoine Griezmann sfodera su Instagram il suo nuovo look modello Pippi Calzalunghe, Lionel Messi lo guarda un po’ preoccupato, della serie “ma guarda un po’ tu dove sono capitato..” Mi guardo intorno e cerco i miei nuovi idoli, ma non ne trovo. Se avessi un figlio piccolo, non saprei proprio dove indirizzarlo. Io da bambino avevo Van Basten, che arrossiva alle domande dei giornalisti sull’amore della sua vita. E poi in campo dava vita ad acrobazie e traiettorie non credibili all’occhio umano.

Oggi qui non arrossisce più nessuno, non sbaglia più nessuno, la mannaia di questi nuovi tempi non risparmia nulla. Tanti soldatini pronti a sfoggiare l’ennesimo look per la nuova campagna anti-razzismo foraggiata da marchi che magari sfruttano bambini del terzo e quarto mondo. Tutti pronti ad indignarsi se un vero figlio della working class come Jimmy Vardy nell’esultare abbatte sbadatamente la bandierina arcobaleno della prezzolata Premier League o se un quarto uomo rumeno fa sfoggio del suo idioma neolatino per comunicare anche nei confronti di calciatori africani in un Paris Saint Germain – Istanbul Basaksehir, due squadre per le quali definirne “losche” le proprietà e i gruppi di investimento in esse coinvolte varrebbe solo come simpatico eufemismo.

Davanti a tanta ipocrisia, non c’è che ripetere infinitamente: grazie Paolo, grazie Diego. Le vostre gesta ci riconciliano con la storia del calcio, che si rinnova ogni volta che in strada prendiamo a calci qualcosa. Ma qualsiasi cosa.