Io non sono ciò che faccio

Io non sono ciò che faccio

Cara Fabiana,

in questi giorni riflettevo sui mali che affliggono la nostra società. Sono svariati e hanno un’importanza differente a seconda del punto di vista e di quanto ne parla la comunità. Se dovessi decide di impiegare il resto della mia vita a vestire i panni di un’eroina che combatte contro uno di questi mali, credo che sceglierei quello tra i più nascosti, ma anche più infimi: il giudizio.

Siamo tutti affetti da un’ingestibile predisposizione a dover esprimere il nostro giudizio su ciò che ci circonda, a sindacare su quello che accade e sui comportamenti che le persone assumono, sulle scelte che prendono. Ora, se da una parte l’esprimere il proprio pensiero sui fatti che accadono nella nostra società può essere cosa buona e giusta in quanto dimostra una certa partecipazione all’interno della società, un non essere passivi, ben altro è il sentirsi autorizzati a proferire la propria sentenza rispetto a ciò che fa o dice un altro individuo.

L’altro giorno parlavo con un amico che mi confidava un proprio malessere in ambito lavorativo, un non essere appagato da quello che faceva, un sentirsi costretto a portare avanti quella situazione per non deludere le aspettative che la propria famiglia ha su di lui.

Le aspettative. Quando si viene al mondo tutti si aspettano che tu segua un iter prestabilito, lo definirei “l’iter del bravo cittadino”. I punti fondamentali di questo percorso sono studiare, possibilmente laurearsi, poi “sistemarsi” parola che racchiude in sé il trovare un lavoro fisso e mettere su famiglia. Ottieni tutto ciò che gli altri si aspettano e gli altri ti ameranno e loderanno. Oppure no. I fatti dimostrano che qualsiasi cosa si decida di fare della propria vita, anche diventare la persona che tutti si aspettano, non rende affatto esenti dal giudizio altrui. Gli altri avranno sempre da ridire, si sentiranno sempre autorizzati a metter bocca.

Si tratta di un’arte antica che spesso coincide con lo spettegolare, con l’inciucio per dirla alla napoletana. E inciuciare a noi piace tanto, ci conferisce un senso di superiorità che accresce nel momento in cui troviamo sostegno da chi fa – sempre per restare nel dialetto – comunella con noi. Un senso di superiorità, per certi versi molto divertente, che tutti conosciamo. Così come tutti conosciamo la sensazione opposta, quella di sentirsi un dito puntato contro, di sentirsi sbagliati perché non appoggiati da chi ti sta intorno.

In questo momento anche io sto giudicando tutti, me compresa. Credo che questo sia un aspetto proprio della natura umana, che di umanità ha ben poco. Siamo umani in quanto uomini e per nessun altro motivo. Condizione per cui io non potrei essere altro che un’eroina che combatte contro un male che non può essere sconfitto. Anche questo fa molto ridere.