(Non) Lavorare stanca!

(Non) Lavorare stanca!

Il 2021 si è concluso da qualche giorno e, a differenza degli altri anni, l’aria euforica e carica di aspettative dell’ultimo dell’anno non ci ha messo molto a dissiparsi. Una celerità del genere non l’avevo mai vista, nemmeno durante gli ultimi giorni di nebbia, prima dell’arrivo del grande freddo.

La cosa, però, non ci ha colto di sorpresa, non più di tanto! A dimostrazione della mia tesi c’è proprio la tematica che in queste settimane abbiamo deciso di affrontare. Nelle nostre recentissime e fugaci conversazioni ci siamo ritrovati a percepire indistintamente l’atmosfera che regna incontrastata da settimane: un profondo senso di stanchezza si è fatto strada in questo brevissimo 2022.

Di sicuro ha giocato un grande ruolo il perdurare della pandemia, ma credo che per molti quest’ultima condizione rappresenti la (in)giusta chiosa a situazioni di estrema difficoltà già precedentemente esistenti.

È il caso di molti di noi, che anche in questo 2022 saremo costretti a recitare il nostro solito copione: quello di dannati della terra (e delle aree interne), di precari perenni.

Un copione di una storia già vista, una storia che non ci ha mai abbandonato e che comincia a farsi ogni giorno sempre più pesante. Cambiano le ambientazioni in cui siamo costretti a rappresentare la nostra quotidiana tragedia sociale, ma non certo l’andamento delle nostre esperienze.

Una riflessione trita e ritrita, anche questa, che continua a farsi sentire ogni volta che mi tocca subire la mia dose quotidiana di televisione. Così mentre mi ritrovo a pranzo con la mia famiglia, il solito servizio del tg di La7 in cui si snocciolano i dati dell’Istat sul relativo tasso dell’occupazione giovanile mi rammenta che il dato è in crescita – di lunedì il tasso è sempre in crescita – per poi andare in caduta di mercoledì, soprattutto se fuori piove e le temperature sono rigide, per poi risalire, ottimisticamente, venerdì. Lo schizofrenico bipolarismo dei servizi di questo genere mi costringono a passare la restante parte del pranzo con lo sguardo rivolto all’opposto dello schermo e mi costringono a consumare, rabbiosamente, quello che resta nel mio piatto. La masticazione si fa più fitta e aggressiva, mentre le immagini a corredo del servizio inquadrano qualche strada trafficata e commerciale di una grande città a caso, i numeri continuano a cadere dall’alto non tenendo conto dell’incredibile mole di contratti a tempo determinato, dell’infinita sfilza di partite iva aperte e del fatto che sempre più giovani decidono di abbandonare anzitempo il mercato del lavoro.

A quasi un anno dell’insediamento del governo Draghi, il governo dei “migliori”, mi rendo conto che la tacita complicità dei media resiste, che raccontano di un paese che rinasce e di un PNRR che si attende come manna dal cielo, ma che attualmente risulta essere poco più che un documento di 237 pagine, in cui la parola giovani compare esattamente 123 volte e ogni volta risuona sempre più vuota e più banale.

La sensazione che si ha ogni volta che si legge la parola giovani all’interno delle missioni è quella di una pezza di appoggio o, in molti casi, di soggetti passivi che per l’ennesima volta dovranno subire la politica di turno.

Dopo anni ci ritroviamo a subire ancora, ed in parte è colpa nostra, le azioni altrui.

Le accettiamo, lasciandoci andare a qualche mugugno sommesso, nei luoghi di lavoro dove il contratto è sempre troppo basso e le ore sono sempre troppe, nei luoghi pubblici e istituzionali della politica, dove l’arte dell’avere sempre ragione e demandata ai soliti imbecilli di turno che brandiscono la parola rivoluzione pur essendo i principali difensori dello status quo e degli interessi personali, nei luoghi di confronto che si trasformano sempre più in luoghi di consumo e sempre meno di confronto, nelle nostre realtà domestiche sempre più logore e depresse.

Intanto i giorni passano e in strada l’aria gelida mi sputa in faccia tutta la sua violenza, ricordandomi che siamo solo all’inizio dell’anno. Un amico, incontrato per caso, mi saluta e mi confessa la sua incredibile stanchezza. Da qualche anno ha aperto una piccola attività, ma le difficoltà si fanno sempre più grandi e i guadagni sempre più esigui. In quei pochi attimi mi accorgo di quanto ci è comune questo destino e di quanto è altrettanto comune questo stato d’animo.

Ma, in fondo, voglio ripartire dal clima euforico che di solito si diffonde alla fine dell’anno e proprio da questo voglio conservare una sola cosa, la speranza che prima o poi tutta questa stanchezza collettiva porti a qualcosa di nuovo, ma soprattutto ci spinga ad agire realmente, perché ad un certo punto dovremmo pur stancarci di essere stanchi.

Abbecedario di provincia: lettera B

Abbecedario di provincia: lettera B

Un giorno lessi un proverbio giapponese che diceva “Se posti dieci storie instagram con frasi poetiche ti trasformerai in un monologo di Benigni”. Che poi quel finale con la bandiera americana per vincere l’Oscar, vabbè, non aumentiamo la schiera dei complottisti. In pratica sto tergiversando perché in questa settimana non ho grandi sentimenti da raccontare né emozioni in particolare. Ho soltanto un pensiero più o meno fisso, ovvero la B di Berlinguer e, citando Pino Roveredo, “mio padre votava Berlinguer perché diceva fosse una brava persona” (ricordo a memoria soltanto Gio Evan), quindi anche la B di brava persona.

Ma non voglio parlare di Berlinguer, che al di là di ogni ideologia era davvero una brava persona, ma un po’ di quello che è accaduto alla nostra povera patria negli ultimi tempi, con Renzi che ha deciso di bucare il pallone e quindi nonostante il sole niente partita. Vorrei raccontare – sul piano “sentimentale”, le analisi politiche le lascio a tutti voi che capite sempre prima e meglio degli altri – la “brava persona” che ho visto nel premier uscente Conte. Politicamente mi sono schierato pochissime volte, ho le mie idee ma credo che la fede politica, così come quella religiosa, vada messa in pratica nella vita di tutti i giorni, non urlata sui social o sulle felpe.

Stavolta, però, voglio fare un’eccezione, perché dopo tanti anni, diciamo da Bersani, sia il politico che il cantante, mi sono sentito rappresentato da qualcuno lì a Roma, anche quando ha commesso degli errori, tipo allearsi con Salvini, ma anche mia madre tollera certi difetti di papà, per amore e perché è una “brava persona”. Ecco, ho sempre pensato che le brave persone hanno il superpotere di ingoiare i “rospi sopportabili” perché sanno che conta altro, che può essere la serenità della famiglia oppure dare un cazzo di governo a questo Paese già in ginocchio. Poi, quando si tradisce oppure da ubriaco si balla sulle tette di cubiste in spiaggia, pure le brave persone si spazientiscono e tutti a fanculo.

Però ricordo, e già rimpiango un po’, le sue lacrime quando aumentarono a dismisura le vittime di questo maledetto virus, il suo orgoglio di rappresentare il Paese che ha inventato almeno metà mondo (mentre scrivo questa frase mi viene voglia di affacciarmi al balcone con il petto in fuori e le mani sui fianchi), e l’accettazione della sconfitta, quando ha capito che non c’era più nulla da tenere, tipo mia madre quando lascia sclerare in solitudine papà andandosene in cucina. 

Abbiamo un disperato bisogno di brave persone, di chi pensa ai cazzi suoi, ma dopo aver pensato a quelli degli altri, a chi chiude gli occhi, a volte, soltanto per riaprirli più forte domani (ho anche semi-citato una delle sue frasi più riuscite, forse un po’ commerciale, ma di effetto).

In fondo ti perdono tutto, tranne Casalino.