Guerra e trauma

Guerra e trauma

Nell’ultimo mese stiamo assistendo a qualcosa a cui la mia generazione non credeva di poter assistere, e magari lo sperava: una guerra in Europa. Infatti, le guerre nell’area balcanica dell’ex Jugoslavia e dell’Albania, noi nati a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 del ‘900 le abbiamo conosciute ascoltando i commenti che gli adulti, in casa, facevano tra di loro. Eravamo ancora dei bambini, non potevamo formarci un giudizio tutto nostro per le ovvie limitazioni imposte dall’età di sviluppo che ho affrontato in altri articoli su Scarpesciuote a proposito di tematiche diverse. Se è vero che durante la nostra adolescenza, invece, un giudizio più “adultoforme” ce lo siamo creato a proposito delle guerre in Iraq, Afghanistan, Libia e Siria, è pur vero che queste guerre sono state combattute lontano dall’Europa, sebbene sia doveroso precisare che ai tempi dell’inizio della guerra in Siria e in Libia eravamo già al termine della nostra adolescenza. Per non parlare del Medio Oriente, della Palestina e dell’Africa, anch’esse lontane dall’Europa e devastate da guerre a bassa intensità e, purtroppo, bassa copertura mediatica.

Qualcuno potrebbe dire che, dopo quello della pandemia, la mia generazione conoscerà da vicino anche il trauma della guerra. La concezione che oggi abbiamo del trauma, tuttavia, è qualcosa di direttamente riconducibile alle conseguenze della guerra stessa.

Al termine della prima guerra mondiale, molti soldati tornati dal fronte erano affetti da una serie di sintomi mai visti prima. Alcuni di loro rivivevano scene di guerra durante il sonno mimando, da sonnambuli, gesti e azioni compiute in trincea e su fronte. C’era chi sobbalzava allo stappo di una bottiglia di spumante, chi “sognava la guerra ad occhi aperti” rivivendo scene cruente a cui aveva assistito in trincea, chi non riusciva più a sperimentare emozioni positive o a ricordare scene di guerra vissuta, chi evitava luoghi e persone che potevano ricordare momenti di guerra, chi, infine, viveva tutte queste condizioni. All’inizio gli psicologi coniarono il termine shell shock (shock da granate) per ricondurre ad un unico concetto l’insieme di questi sintomi osservati nei reduci di guerra; studi successivi e sistematici hanno messo a punto la definizione di disturbo da stress post traumatico.

A voler essere precisi, tuttavia, bisogna riconoscere che prima dell’osservazione delle conseguenze devastanti sui soldati relative al fare esperienza della guerra, Freud aveva già parlato di trauma alla fine dell’800. Il trauma freudiano si riferisce, però, a esperienze “dimenticate” dei nostri primi anni di vita e, benché metta in moto una serie di meccanismi mentali simili a quelli relativi ai traumi osservati nei soldati, aveva l’obiettivo di rendere evidenti quegli stessi meccanismi mentali appena citati. Con le sue parole, “Il trauma si dovrebbe definire come un incremento di eccitamento nel sistema nervoso che questo non è riuscito a liquidare a sufficienza mediante reazione motoria”. Anche se questa definizione ha circa 130 anni ed è stata rivisitata e aggiornata dagli studi che si sono succeduti, si può dire che nei traumi osservati in guerra quell’incremento di eccitamento nel sistema nervoso assume dimensioni straordinarie, rendendo la reazione mentale e comportamentale immensa e destabilizzante al punto da creare dei sintomi (e disturbi mentali) completamente diversi e più gravi di quelli che Freud aveva osservato nelle sue pazienti.

In altre parole, le conseguenze osservate sui reduci di guerra hanno fatto capire che i normali meccanismi di difesa da eventi che si percepiscono come stressanti, quando davanti a situazioni estreme come quelle che possono vivere dei soldati sul campo di battaglia, non riescono a proteggere adeguatamente la psiche. Di conseguenza, si sviluppa un disturbo mentale che coinvolge la psicologia dell’individuo, la sua socialità e ne altera i normali processi fisiologici.

Come molte cose che coinvolgono i processi mentali, non esiste un confine netto tra i sintomi da stress post traumatico e quelli di altri disturbi mentali; basta ricordare che le dinamiche mentali di uno shock shell e di un trauma infantile sono simili benché molto differenti siano gli esiti: disturbo post traumatico da stress (PTSD in breve) il primo, nevrosi il secondo (benché questa parola sia diventata arcaica e oggi rappresenti una serie di disturbi mentali piuttosto che un singolo disturbo). C’è, tuttavia, un elemento che rende più agevole capire quando ci si trova davanti un PTSD rispetto ad altri disturbi mentali: la presenza di un evento traumatico nella storia di vita dell’individuo. Con il termine “evento traumatico” mi riferisco a situazioni di vita pesanti ALMENO quanto aver partecipato ad una guerra tipo Vietnam o guerre mondiali. Credo sia doveroso fare questo appunto, altrimenti si rischierebbe di concepire come trauma mentale anche la fidanzata che ci lascia (e sì, è qualcosa di stressante ma a voler essere precisi no, non è un trauma).

Il trauma si riferisce ad eventi che ci mettono davanti all’evidenza di essere impotenti davanti a determinate forze (come quella di certi individui a cui il potere da alla testa al punto da scatenare una guerra tra popoli o quella della natura). La persona che sviluppa un PTSD prova a “dimenticare” di aver capito che, per quanto possa essere un singolo individuo capace di imprese straordinarie, nulla può davanti a determinate forze. E oltre alla guerra vissuta in prima persona (da soldato al fronte o da civile che vive in una città assediata) mi riferisco ai terremoti, alle alluvioni, alle inondazioni che ti lasciano senza casa, ai grandi incendi, agli incidenti automobilistici gravi (quelli con morti per intenderci), alla morte improvvisa di una persona cara davanti ai nostri occhi, alla violenza sessuale e all’abuso fisico. Se l’evento non fa parte di questo elenco (più qualcosa che di sicuro ho dimenticato) non possiede la forza necessaria di destabilizzarci al punto da determinare un PTSD.

La guerra è un trauma, per chi la subisce da soldato e per chi la subisce da civile. Il trauma è qualcosa di ingestibile per il singolo e riguarda eventi dalla portata catastrofica come quelli della guerra. Il trauma quindi è la cosa più stressante che possa accadere ad una persona. Esistono altre eventualità che possono destabilizzare una persona ma quelle danno vita a disturbi simili ma meno gravi, ma più grave della guerra non c’è nulla: calamità naturali e violenze subite sono gli unici eventi che possono essere comparati.

Conflitto continuo

Conflitto continuo

“Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontare, il valore nostro”
Umberto Eco – Costruire il nemico



Penso di non aver mai cancellato e riscritto un articolo come questa volta, mai realmente convinto di ciò che stessi provando ad esprimere. Volevo inizialmente parlare di guerre girate in una serie o in un film, scritte in una graphic novel o addirittura giocate su schermo con un controller in mano e di trovare un collegamento a ciò che sta avvenendo in Ucraina.
Poi mi son ricordato di un testo di Umberto Eco in cui spiegava di una sua esperienza in America in cui gli chiedevano chi fossero i nemici degli italiani, lasciandolo dubbioso sulla risposta da dare e infine scritta sul saggio “Costruire il nemico e altri scritti occasionali”.

Mentre Eco nel suo saggio spiega come un popolo si identifica solo attraverso un nemico, oggi ragiono su un discorso più generico: l’essere umano è il nemico di se stesso.
Per renderci conto di questo non basta vedere lo scoppio di una guerra, basta leggere i commenti ad una notizia, guardarsi intorno per vedere come l’individuo si comporta verso il prossimo o semplicemente collegarsi ad un social per capire quanto i conflitti siano la base dell’esistenza umana. Esagero? Forse. Però è innegabile che nel prossimo ci sarà quasi sempre qualcosa che guarderemo dall’alto in basso, cercando di dimostrare quanto noi siamo migliori di loro; in questo processo tendiamo, chi volontariamente e chi involontariamente, a circondarci di persone che hanno una visione del mondo simile a noi e nel momento in cui c’è un piccolo cambiamento in questo modo di vedere la realtà non facciamo altro che allontanare il prossimo.

Due anni fa il mondo entrava in stato di emergenza per la pandemia e poco tempo dopo si profilarono due schieramenti, da una parte chi diceva che il covid non esisteva e dall’altra chi invece ci credeva; ora non ci sono state vittime per queste discussioni, se non quelle che hanno contratto il virus purtroppo, però era interessante vedere come si trovavano e utilizzavano notizie palesemente false o dati sballati pur di cercare di aver ragione. Ma la cosa che mi ha sorpreso di più è come l’argomento si sia evoluto, prima l’esistenza del covid, poi all’utilizzo o meno delle mascherine per arrivare allo stadio finale: il vaccino e i no vax. Con lo scoppio della guerra in Ucraina sembra che le discussioni siano andate a diminuire ma non l’esistenza costante di due gruppi (e sottogruppi) in continuo contrasto ideologico.

Come si può evitare un conflitto ideologico? Credo che la soluzione migliore sia l’ascolto e il confronto invece che uno scontro continuo con chi ha una visione diversa dalla nostra.

Tell you you’re the greatest
But once you turn they hate us
Oh, the misery
Everybody wants to be my enemy
Imagine Dragons – Enemy

E siamo soltanto stronzi destinati ad estinguerci

E siamo soltanto stronzi destinati ad estinguerci

La guerra era bella soltanto quando me la raccontava mio nonno. Io, bambino, sulle sue gambe, mentre lui, con occhi e parole, tratteggiava uomini cattivi e cieli colorati di morte e fuoco. Provavo paura, ansia, ma soprattutto la serenità di conoscere già l’esito più importante: ovvero lui lì con me. E mi viene da sorridere ripensando, a questo proposito, uno dei suoi detti più riusciti: “Finché le racconti, le cose, significa che tutto va bene”.

Ora, ed è da egoisti, mi sento smarrito, terrorizzato da una storia di sangue e di merda che non so se potrò raccontare a chi vorrà ascoltarmi. Sono tante le domande che frequentano la mia testa: a cosa servono migliaia di bombe nucleari quando ne sono sufficiente un paio per cancellare l’umanità? Perché gli interessi di poco devono invitare milioni di persone alla morte certa? Come mai ho una sensazione sempre più netta sul fallimento del genere umano?

Più di qualcuno mi dirà che si tratta di capire, che si tratta di vicende assai più complesse. Io, però, non sono d’accordo. Per me, quelle persone che siamo stati, siamo e saremo anche noi, devono soffrire soltanto a causa delle buste della spesa pesanti, che ti lasciano un segno sulla pelle peggio degli amori finiti, oppure perché i testi di Diritto Privato sono scritti da un alieno capitato sulla Terra per sbaglio. E visto che sono cattivo, si può provare dolore persino a causa di un lavoro sempre troppo precario.

Mai, però, bisogna avere paura per colpa di pochi coglioni che stanno lì a discutere di confini, missili, negoziati. È molto complicato comprendere che i loro interessi ed i nostri sono due rette parallele che non si incontreranno mai? Che lui, noi, tu, vogliamo “soltanto” vivere tutti i giorni per provare a capirci qualcosa di piccole cose come la felicità, l’amore e stronzate simili?

Tuttavia, so che si tratta soltanto di parole scritte dall’ennesimo coglione che, mentre scuote la testa, ha la quasi certezza che ci estingueremo per colpa nostra ed è forse meglio così.

 

 

Le cose orfane

Le cose orfane

L’altro giorno ho ripensato alla casa di mia nonna. Credo di non averlo mai fatto da quando è andata via. Ci ho trascorso un bel pezzo della mia infanzia e adolescenza in quella casa. Ne conoscevo ogni angolo e a quasi ogni oggetto che la riempiva è legato un ricordo.

Ricordo, ad esempio, quei due tre portagioie che di tanto in tanto tirava fuori dal cassetto e capovolgeva sul letto per mostrarne il contenuto. Erano collanine, anelli, spille, ognuno con la sua storia che puntualmente amava raccontare. E alle foto, quanto ci teneva alle foto, soprattutto le più vecchie, quelle con i figli piccoli e ancora la presenza del nonno.

Non è stato un pensiero felice, purtroppo. Non più, nel momento in cui si è fatta spazio con prepotenza nella mia mente l’immagine di quella stessa casa, ma buia, abbandonata come un relitto, con le cose orfane.

Quando si tratta di morte nessuno mai pensa alle cose. Eppure quegli oggetti apparentemente senza un’anima, un’anima ce l’hanno ed è quella riposta su di essi dai loro possessori. Oggetti carichi di energia, di storie da raccontare o tenere per sé.

La morte, purtroppo, è la grande antagonista, di questo momento storico. Il rumore dei tasti della tastiera pigiati dalle mie dita nell’atto di scrivere, probabilmente non fanno altro che scandire il ritmo dei passi di persone che, a pochi chilometri da qui, scappano via nella speranza di salvarsi.

Non c’è tempo, la guerra non ne lascia, si può portar via solo il proprio corpo e forse un pezzo di anima. Quando si parla di eventi distruttivi, come una calamità naturale o in questo caso specifico un conflitto, è di uso comune da parte dei media proporre immagini di macerie da cui si intravedono oggetti. I restanti pezzi di quelle anime fuggenti sono proprio lì, in quegli oggetti, sotto quelle macerie. Si tratta di una violenza, di un obbligo, non c’è margine di scelta. Ecco perché è sbagliato parlare di cose abbandonate. Sono cose orfane, strappate via a chi le custodiva.

Stamattina il mio volto è stato attraversato da un sorriso amaro, provocato dal rintocco delle campane in numerose piazze europee, tante quanti i giorni trascorsi dall’inizio del conflitto in Ucraina. È così che noi europei manifestiamo la nostra richiesta di pace. Il suono sordo delle campane che attraversa piazze gremite di persone nel silenzio più assoluto. Mi è sembrato che quel silenzio non facesse altro che sottolineare l’enorme distanza che intercorre, nonostante i pochi chilometri, tra la nostra vita tranquilla e quella dei cittadini ucraini torturati dal suono delle armi e della disperazione.

Poi, però, mi sono venute in mente le cose orfane. Anche un conflitto ha la sua parte silenziosa. Durante le tregue, di notte, sotto il chiaro di luna, si può intravedere tra le macerie di un’abitazione quel che resta di una bambola che qualche giorno prima era tenuta stretta tra le braccia di un bambino. Il peggiore dei silenzi, quello della morte.

I conflitti, quelli che suscitano paura e quelli che ti fanno crescere

I conflitti, quelli che suscitano paura e quelli che ti fanno crescere

Il conflitto ucraino, come qualsiasi stupida guerra, arricchisce pochi e impoverisce i poveri cristi come noi, già messi a dura prova prima dall’eterna crisi economica ed in ultimo dalla pandemia. Le immagini che ci giungono dall’Ucraina, a due passi da noi, sono drammatiche, da chiudere gli occhi talmente dal dolore oppure da aprirli ancora di più per comprendere meglio lo schifo che.

I conflitti, però e per fortuna, non sono però soltanto quelli vigliaccamente bellici. Ognuno di noi, ad esempio, vive i conflitti interiori, che un po’ ti spaventano ma che ti fanno crescere. Insomma, abbiamo pensato che dietro al concetto di “conflitto” esiste un universo tutto da scoprire e lo sappiamo che farà male, però ci risolleva il cuore pensando che al di là delle nubi qualcosa di buono arriverà.

Nelle prossime settimane, quindi, proveremo a scovare le parole più giuste, i pensieri che vi e ci faranno sentire meno soli in questi mesi intrisi di odio ed anime cattive.

Andrea Famiglietti

Antonio Lepore