
Gioco di squadra
«Il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti» affermava Arrigo Sacchi. È lo sport più praticato ma anche quello più discusso dentro lo stadio e fuori (il confine tra un tribunale e un bar è molto sottile). Tutti ci improvvisiamo allenatori esperti e fini commentatori e spesso le rivalità tra tifoserie finiscono per diventare delle vere e proprie lotte ideologiche.
Il calcio è la più splendida metafora della vita che possa esserci. È necessario saper controllare la palla per poter concretizzare delle azioni vincenti. Il controllo individuale però non basta per poter segnare. La palla va passata, va messa in gioco coinvolgendo i propri compagni. Va, cioè, rischiata affinché si possa vincere. La stessa cosa si può dire della nostra esistenza. Abbiamo bisogno di controllo e di giocare per poterci affermare.
Ma come detto, da soli non si vince. Il calcio è uno sport di squadra, non individuale. A volte è controproducente comprare gli undici giocatori più forti per ruolo per creare una squadra vincente. Il “gioco di squadra” è un’espressione che va al di là delle individualità. Per comprenderlo al meglio si può far riferimento a uno dei più importanti filosofi della storia, Hegel e al suo concetto di Stato.
HEGEL E IL CONCETTO DI STATO
All’interno della vasta produzione hegeliana, lo Stato rappresenta una nozione fondamentale, come dimostrano le pagine che il filosofo tedesco gli dedica nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche e nei Lineamenti della filosofia del diritto.

Per Hegel lo Stato rappresenta il primo principio rispetto alla famiglia e alla società civile. Questa concezione può risultare “assurda” se ci si basa sull’osservazione empirica: senza la componente primaria del nucleo familiare (come sosteneva Aristotele, ad esempio) non sarà possibile raggiungere una totalità che andrà a formare per primo la società civile e successivamente lo Stato. In che senso allora leggere questo venir prima dello Stato? Il primato dello Stato va letto non in un senso cronologico ma finalistico. La famiglia e la società civile realizzano se stesse (la propria “volontà” per usare un termine hegeliano) solo all’interno dello Stato. Lo Stato viene prima perché famiglia e società civile sono finalisticamente orientate alla realizzazione della loro volontà all’interno dello Stato.
Alla luce di questa lettura, è più facile adesso comprendere cosa si intende per “gioco di squadra”. Senza i giocatori, ovviamente, una squadra di calcio non può esistere ma il singolo può realizzare se stesso solo all’interno di una squadra e di una totalità.
Proprio a partire da tali riflessioni, vogliamo raccontarvi tre delle imprese calcistiche più belle degli anni 2000, anni in cui i successi sono direttamente proporzionali al denaro che spendi. Tre storie di squadre in cui non era presente nessuna stella affermata, ma capaci di sfidare le potenti logiche del calcio moderno attraverso l’unione del gruppo.
“Dillyding dillydong”. L’IMPRESA DEL LEICESTER

Favola è il termine più giusto per sintetizzare la cavalcata di una squadra che nel giro di un anno si ritrova prima a lottare per non retrocedere e poi a salire sul tetto d’Inghilterra. La vittoria della Premier Leugue del Leicester nella stagione 2015/2016 è, ad oggi, l’ultima impresa calcistica che si ricordi. Nell’estate del 2015 le “Foxies” ingaggiano l’allenatore italiano Claudio Ranieri, reduce da un’avventura a dir poco fallimentare con la nazionale greca, con l’intenzione di agganciare una salvezza tranquilla, raggiunta solo alla terzultima giornata la passata stagione. Pur avendo alle spalle una società molto ricca (il purtroppo scomparso presidente del Leicester, Vichai Srivaddhanaprabha, era il proprietario della King Power, la più grande compagnia mondiale ad operare nel settore dei duty-free), non può certo competere con le altre corazzate inglesi come il Manchester City, Il Manchester United, Chelsea, Arsenal, Tottenham, Liverpool. Ma in campo non scendono i milioni e il Leicester riesce a mettere in fila le più grandi e a vincere il campionato grazie alle parate di Kasper Schmeichel (vissuto sempre all’ombra del padre), alla classe di Mahrez (quattro anni prima giocava nella squadra delle riserve del Le Havre), alla grinta di Kanté (acquistato dal Caen come seconda scelta perché la società non era riuscita a prendere Veretout), ai gol di Vardy (fino a cinque anni lavorava come operaio e giocava in una squadra di dilettanti) e alla guida di Ranieri, considerato ormai un allenatore di poco conto. Quest’anno il Leicester si aggira tra le parti alte della classifica. Chissà …
EURO 2004 COME MARATONA. LA GRECIA DEI MIRACOLI

Quando si parla di miracolo sportivo non si può non far riferimento alla vittoria della nazionale greca nel campionato europeo del 2004. La squadra guidata dal ct tedesco Otto Rehhegel ha saputo incarnare lo spirito epico degno degli opliti che a Maratona nel 490 a.C. riuscirono a scacciare l’esercito persiano. La vittoria di Euro 2004 ha saputo unire un popolo storicamente poco avvezzo all’unità. Priva di nomi di assoluto rilievo, Rehhagel ha saputo creare una squadra tatticamente perfetta. Dopo aver vinto per 2 a 1 la partita inaugurale contro il Portogallo padrone di casa, la nazionale ellenica riesce a passare alla fase eliminatoria solo per la maggiore differenza reti con la Spagna (entrambe a quattro punti). Dopo aver eliminato la Francia campione in carica e la Repubblica Ceca in semifinale, La Grecia batte in finale ancora il Portogallo. Tutte e tre le partite della fase eliminatorie finiscono con il risultato di 1 a 0 per i greci, a sottolineare la capacità e bravura di saper sfruttare le poche occasioni che venivano create. È così allora che nell’estate del 2004, calciatori come Charisteas e Zagorakis possono venire tranquillamente paragonati a Milziade e a Temistocle, i più grandi condottieri dell’antica Grecia. Come ha scritto il giornalista Kostantinos Lianos: «Per gli americani, il 4 luglio è l’Independence Day. Noi greci, invece, festeggiamo ogni anno la vittoria più inattesa nella storia del calcio. E un sentimento di unità che non abbiamo mai più ritrovato».
A UN PASSO DALLA GLORIA. IL SOGNO DEL CALAIS

A volte non è necessario il lieto fine affinché una storia possa definirsi favola. A volte un finale amaro rende una storia dannata e quindi più romantica. Ma tutto sommato questa storia un lieto fine ce l’ha perché potrebbe essere la storia di tutti noi, persone normali, che il pallone lo vediamo come una passione, che giochiamo non per i soldi ma perché amiamo l’odore dell’erba e la fatica dopo una partita. Nel 2000, una piccola squadra militante in quarta divisione del nord della Francia composta da operai, insegnanti e magazzinieri decide di scrivere la storia e di sfidare le grandi del calcio transalpino fino ad arrivare in finale di Coppa di Francia. Quasi per gioco, il Calais si iscrive alla competizione poiché le regole del calcio francese consentono anche a una squadra dilettantistica di partecipare alla coppa. I “Canarini”, guidati dal tecnico ispano-francese Ladislas Lozano, dopo una serie interminabili di turni preliminari buttano fuori dal torneo una dopo l’altra Lille, Cannes, Strasburgo e Bordeaux (i campioni di Francia!). Il sogno del Calais però si interrompe proprio sul bello. Allo Stade de France di Parigi, in finale contro il Nantes, nonostante abbia chiuso il primo tempo sull’1 a 0, il Calais perde 2 a 1 all’ultimo minuto con un rigore alquanto dubbio. Ma non importa, essere arrivati fino a questo punto per quei ragazzi come noi è già una vittoria. Quando il capitano del Nantes, Landreau che alza la coppa insieme a quello del Calais, Beque, noi abbiamo solamente occhi per il Canarino, in quella che resta la sconfitta più dolce della storia del calcio.

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