da Andrea Famiglietti | Feb 9, 2022 | Editoriale
Ci risiamo, abbiamo impiegato questo primo mese del 2022 per comprendere punti di forza e punti di debolezza di questa nostra giovane esperienza. Il risultato ci ha portato ad operare alcune scelte: la più importante è, senza ombra di dubbio, quella di dosare la nostra presenza e i nostri interventi.
Questo cosa significa? Non più una tematica ogni due settimane, ma una al mese e quale mese migliore per dare un nuovo inizio se non febbraio?
In questo mese breve (ogni riferimento ad Eric Hobsbawm non è per niente casuale) affronteremo una sola tematica. Vi promettiamo di farvi fronte con il solito impegno e la solita buona volontà. Speriamo di avervi come sempre, al nostro fianco.
Febbraio abbiamo deciso di dedicarlo ad una parola che spesso ritorna e spesso ritorna in diverse forme: sicurezza.
Siamo ben consapevoli della difficoltà che si legano ad ogni possibile discussione riguardante la sicurezza, ma ci sembrava doveroso affrontarla. Sicurezza è una parola che non è mai scomparsa e in quello che può essere considerato un dizionario collettivo italiano rappresenta senz’altro uno dei termini più in uso.
Non vogliamo, però, limitare il significato di sicurezza ad una sola ed univoca dimensione. In difesa delle nostre ragioni ci sono gli eventi recenti che riguardano i fatti di Milano del 31 dicembre, la morte del giovane Lorenzo Parelli, le proteste studentesche ad essa connesse, il nuovo servizio che la Bocconi ha presentato nei giorni scorsi e mille altri accadimenti che ci dimostrano come non smettiamo mai di parlare di sicurezza.
«La condizione che rende e fa sentire di essere esente da pericoli, o che dà la possibilità di prevenire, eliminare o rendere meno gravi danni, rischi, difficoltà, evenienze spiacevoli, e simili»
Partiremo dalla definizione che la Treccani dà di sicurezza per poi posizionarla nelle differenti dimensioni che ci competono. Non ci resta che augurarvi buona lettura.
Antonio Lepore
Andrea Famiglietti
da Antonio Lepore | Feb 2, 2021 | Riflessioni non richieste
Avverto un po’ di ansia ma a qualcuno dovrò pur confidare questa verità che sento esplodere di realtà dentro di me: il progetto di “Scarpesciuote” è l’ultima possibilità che concedo a me stesso per indossare l’elmetto e combattere una vita che non mi soddisfa per nulla. Insomma, grazie a questa “banda” ho deciso il terreno di battaglia per cui vale la pena rischiare tempo, idee e quasi tutte le mie emozioni: ovvero dare vita ad un movimento fatto di articoli, iniziative, scambi di opinioni (e perché no, fateci sognare, una piccola casa editrice o qualcosa del genere).
La pandemia che ci ha travolto, poi, ha soltanto rafforzato questa volontà di invertire l’ordine naturale delle cose, almeno in Italia: non abbiamo né soldi né santi in paradiso, però che bello che ognuno di noi scriva di cose che ha a cuore e di vederci, per ora soltanto virtualmente, tutti quanti assieme e sognare che, un giorno, tutti noi staremo “al posto giusto”.
Sarà una speranza piuttosto banale, però negli ultimi decenni ci hanno privato innanzitutto della dignità. In ogni posto di lavoro – se così si può definire un’attività quotidiana mal retribuita e troppo spesso distante anni luce dagli studi affrontati e dagli occhi brillanti con cui ognuno di noi dovrebbe vivere l’ennesima giornata lavorativa – ci hanno “disumanizzato” fino al punto da desiderare soltanto una piccola tranquillità economica e basta.
Ed invece io, povero fesso e coglione, con “Scarpesciuote” vorrei riuscire a riappropriarmi di progetti emozionanti che, ascoltate bene, non sono soltanto destinati al fallimento o a quegli sguardi del cazzo di quel tipo che ha il posto fisso e che la domenica porta i pasticcini a casa (quest’ultima affermazione è causata dalla mia dieta e quindi dall’invidia che provo per chi può abbuffarsi in santa pace). Quindi, questo è il mio campo di battaglia: costruire un ambiente lavorativo dove ognuno può scrivere ed organizzare eventi che sognava da bambino o davanti al bar quando ad un amico diceva “in città manca proprio questo”.
Io, come si può ben notare, non sono il tipico esempio di guerriero, però desidero con tutto me stesso che queste parole, un giorno, diventassero realtà, soprattutto in contesti urbani come quello in cui viviamo, povero di slanci umani e culturali.
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