Le due facce del male

Le due facce del male

L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vorrebbe far l’angelo far la bestia.

Blaise Pascal

I crimini, come le virtù, sono le ricompense a sé stessi.

George Farquhar

Bentornati tra le righe della versione estiva della mia rubrica Cinema-off e pizza.

Quindi: poche chiacchiere, zero pizza e un bel link per poter vedere il film completo su YouTube. In questa occasione vi consiglio una visione notturna, niente smartphone unto dalla crema solare mentre sarete in spiaggia sotto al sole.

Non vi nascondo il compiacimento che provo nello stuzzicare la fantasia dei più curiosi tra di voi consigliando il lungometraggio di questa settimana.

Siamo nel 1982, mentre l’Italia vince la terza Coppa del Mondo di calcio il Regno Unito, non potendosi cimentare in modo adeguato in questa competizione (come al solito), licenzia Le due facce del male (Brimstone and Treacle, diretto da Richard Loncraine). Si tratta di un dramma/thriller, adattamento per il grande schermo di uno sceneggiato della BBC del 1976 e trasmesso unicamente sui piccoli schermi della ‘perfida Albione’ nel… 1987, perché il contenuto scabroso della storia ne bloccò la messa in onda a pochi giorni dalla data della prima.

Potrei anche fermarmi qui nella descrizione, ma come potrei omettere che il protagonista del film, perfettamente nella parte, è Sting. Sì, proprio il cantante e bassista ex-Police che negli ultimi tempi si è cimentato in alcuni duetti canori davvero orribili. Ascoltate quello con Zucchero e avrete dei sogni tremendi di notte.

In campo cinematografico, invece, Le due facce del male vi regalerà ben altri tipi di brividi legati soprattutto al confondersi dell’angelico con il demoniaco.

Ed ecco a voi qualche parola chiave inerente a questa visione complicata da catalogare: onirica, surreale, grottesca, originale, imperfetta, bizzarra, cult, teatrale, allegorica e deviata.

Trama: in una Londra sinistra e decadente una coppia di mezza età accudisce la giovane figlia, che si trova in stato semi-catatonico in seguito ad un gravissimo incidente stradale. Un giorno, a messa, la coppia si imbatte in un giovane corista che si presenta come un amico della loro figlia e mostra un sincero interesse per la sua condizione fisica. Divenuti amici, i tre si incontreranno sempre più spesso a casa della coppia, che a questo caritatevole ragazzo lascerà gestire la tortuosa convalescenza della giovane. Ma l’ospite mostrerà ben presto il suo lato oscuro… (da Hoepli.it – Descrizione DVD)

Curiosità: la colonna sonora del film ha ricevuto un meritatissimo Grammy Award come Best Rock Instrumental Performance e contiene brani di Sting, The Police, Go-Go’s e Squeeze

 

Nel ricordarvi che non sono accettati reclami o “rimborsi” e che il film contiene almeno un paio di scene davvero forti, vi auguro una buona visione.

Grazie, ragazzi

Grazie, ragazzi

È difficile rendersene conto, anche a mente fredda, passata la sbornia.

L’Italia è campione d’Europa. Nella notte di Wembley, la comitiva azzurra si infiltra tra la spocchia inglese, sabota i fili del gioco dei sudditi di Sua Maestà, supera in scioltezza le provocazioni stucchevoli e rovina la festa ai tre Leoni.

I calci di rigore si confermano benevoli, esorcizzando i fantasmi di noi tanti cresciuti negli anni ’90. L’Italia è in cima al continente, suona inverosimile. Suona inverosimile perché non vi è popolo più avaro quando si tratta di riconoscere i propri meriti, il proprio contributo inestimabile fornito all’umanità tutta, non vi è popolo più parco e timido quando si tratta di sciorinare l’amor patrio.

Eppure dopo la disfatta di qualche anno fa NESSUNO, diciamolo senza ipocrisie od irenismi di contorno, ci avrebbe mai creduto. Ricordo la profonda vergogna contro la Svezia, le lacrime dei senatori, l’onta di non partire per una campagna di Russia che, molto probabilmente, non avrebbe comunque mai dato soddisfazioni. Nessuno avrebbe mai pensato di poter svegliarci oggi da campioni d’Europa dopo aver sconfitto sul campo Belgio, Spagna, nonché la favoritissima Inghilterra. Favorita dalla politica, dalla UEFA, da un torneo ipocritamente (ergo, in linea con lo spirito del tempo) itinerante ma in realtà confezionato sulle esigenze degli amici d’Oltremanica, dagli arcobaleni accattivanti e danarosi, dalla multietnicità sbandierata come valore aggiunto (qualcuno ricorda, per caso, cos’è stato il colonialismo?) dagli inginocchiamenti facili (salvo, poi, fregiarsi di comportamenti infantili ed antisportivi). Perdonate le troppe parentesi, ma questi tempi assurdi di parentesi aperte ne meriterebbero parecchie.

Dunque La rivincita dei lavapiatti di Londra, degli umili immigrati, dei cervelli svenduti, la rivincita di chi con fervore e dedizione ci ha messo l’anima, ha dimostrato gli attributi necessari per presentarsi in un catino ruggente, di fronte a 58mila voci già convinte, scandenti un unico mantra : it’s coming home. Cosa? Non si sa. Chiellini con il sangue agli occhi che bracca il collo del povero ed inesperto Bukayo Saka costringendolo a terra è l’immagine simbolo di una partita giocata con una consapevolezza profonda: oltre qui non si passa. Contro l’Italia non sarà mai più facile. Contro questa Italia serve a poco esultare in anticipo. Questo è il nostro nuovo RINASCIMENTO, come ben ha intuito Puma, il nostro fornitore tecnico nel battezzare la bellissima ed iconica linea di maglie azzurre.

Mancini & co. ci hanno fornito una grande iniezione di entusiasmo. Difficile stabilire, a mente lucida, cosa rimane. Le mie lacrime di gioia miste ad una triste consapevolezza: ho tanto da festeggiare, ma ben poco da festeggiare, domani qui è tutto come prima, i miei soliti guai, una provincia stantia, un lavoro che non c’è, un abbraccio tenero tra le parate di Donnarumma, forse l’ultimo, ad un amore grande quanto impossibile, ad una donna che già non c’è più che mi asciuga il viso.

L’ultimo europeo vinto risale al 1968, ad Atripalda mio nonno era tra i pochi a possedere un televisore a casa. Qualche giorno dopo quell’Italia-Jugoslavia, morì portato via da una malattia. Facchetti alzò la coppa nell’unica diapositiva passata alla storia rigorosamente in bianco e nero. Fu il primo trofeo vinto dal dopoguerra. Si dice che l’Olimpico di Roma si strinse in una fiaccolata silenziosa e spettacolare. Era un altro Paese, rampante, ruggente, libero, sovrano, profondamente ed orgogliosamente ITALIANO. Tra le lacrime sciolgo la mia vita intera e lascio che la storia degli Azzurri compenetri la mia e quella della mia famiglia. I più cinici e disamorati diranno che degli strapagati milionari sono su un aereo a festeggiare i loro privilegi, mentre io non ho un futuro.

Con permesso, ma stasera me ne fotto. Sono italiano. Sono campione d’Europa.

Dinamite danese e cool Britannia

Dinamite danese e cool Britannia

Il campionato europeo itinerante è cominciato e non sta lesinando emozioni forti. Le polemiche politiche, il malore di Christian Eriksen, la paura. La tenace Ungheria e soprattutto l’Italia, bella come non mai, concreta, tenace quando serve, spietata dittatrice a centrocampo. Con gli austriaci si è sofferto forse più del dovuto. Ora sotto a chi tocca.

 

La Danimarca avanza dopo un inizio drammatico. Eriksen si accascia al suolo e si teme il peggio. La squadra, sebbene sotto shock, coadiuva i soccorsi. Tutto finisce bene, per fortuna. Ed ora, la ripresa, la motivazione, l’euforia per lo scampato pericolo. Chi ne sa di calcio non può rievocare ciò che successe nel 1992, quando in Svezia la Danimarca vinse il suo primo ed unico europeo in circostanze rocambolesche.

La Jugoslavia collassava sotto il peso della storia, la migliore generazione calcistica mai sfornata dal pallone balcanico dovette arrendersi sotto il peso degli eccidi consumati in una patria ormai divisa dall’odio, fuori controllo.

La Danimarca è lì per caso, ripescata. Un paio di buoni giocatori, poche speranze ed un uomo, Kim Vilfort, che non sa se partire o meno con la sua squadra. La figlia è in ospedale, colpita da un grave male. La Danimarca avanza fino alla finale sbaragliando squadre ben più quotate, fino ad infliggere la soluzione letale ai rivali tedeschi proprio in finale. Segna proprio Vilfort, che dopo poche settiman

e dovrà dare l’estremo addio alla povera figlioletta. Una favola agrodolce senza lieto fine, ma che entra di diritto nella leggenda. La dinamite danese è esplosa fragorosamente nella memorabile estate del 92. Chissà dove potrà arrivare quest’anno..

 

Il mio Europeo preferito rimane quello del 96. La gran Bretagna è il centro del mondo, i laburisti trasformano il grigiore tatcheriano in un parco giochi dai toni spensierati, easy-going e positivi. Esplode di nuovo la musica, la crescita economica avanza, nei cinema esce Trainspotting, gli Oasis sfidano i Blur, Wonderwall è un inno sacro, suona in ogni pub, in ogni sala da ballo, in ogni stazione. La nazionale inglese, padrone di casa, vuole vincere a tutti i costi e si affida alle follie di Gazza Gascoigne, che segna alla Scozia un Eurogoal incredibile.

L’Italia di Sacchi è in un periodo di transizione, dopo diversi cambi repentini di formazione, le speranze azzurre si infrangono sul palo colpito da Zola su rigore contro la Germania. Usciamo fuori da un Europeo bellissimo. Stadi pieni, maglie coloratissime e fantasiose. Una nazione intera pretende la vittoria. Football it’s coming home.

La Repubblica Ceca sorprende tutti battendo l’Italia, superando quarti e semifinale in scioltezza grazie al talento di due giovani di sicuro avvenire: Karel Poborsky e Pavel Nedved. Il sogno inglese si frantuma di fronte la tenacia dei grandi rivali di sempre: la nazionale di sua maestà non va oltre la lotteria dei rigori contro una Germania fortunata. Le lacrime di Gasgoigne segnano la fine di un’era per l’estroso calciatore inglese.

 

Finale, dunque: Germania – Cechia. I cechi ci credono e vanno in vantaggio. Entra un misconosciuto ragazzo dalla panchina tedesca. Al secolo Oliver Bierhoff. È uno di quei cambi che fa la storia del calcio. Suo il pareggio, suo il vantaggio tedesco. Fischio finale. La Germania è campione d’Europa sotto il cielo di Wembley. Il mondo scopre il giovane Bierhoff, già in partenza per Udine, destinazione serie A, la Mecca di ogni campione che si rispetti. Siamo a metà degli anni 90, mica nel pandemico 2021…

Nello stereo della mia auto suona “Don’t look back in anger”, fumo una sigaretta sotto la calura. Un’altra estate uguale alle altre, pochi euro in tasca, un cuore fatto a pezzi e mai come ora tanta voglia di non essere qui, adesso.

Magari potessi tornare al 1996..

La cultura ai tempi della distopia

La cultura ai tempi della distopia

Siamo abituati in qualche modo a vedere la cultura come un fattore identificativo di una persona, nazione o società. La cultura è parte integrante della nostra vita, in qualche modo ci identifica e a volte ci porta ad avere idee sbagliate. A volte identifichiamo le altre nazioni attraverso preconcetti culturali che creano un’idea sbagliata, facendo nascere conflitti altrimenti evitabili; altre volte determinati aspetti culturali, spesso religiosi, ci influenzano così tanto da deviare completamente il concetto di libertà culturale. Ma cosa accade quando la cultura è il mezzo con cui si instaura una dittatura? Attraverso lo studio della storia possiamo “ricordare” e cercare in qualche modo che eventi nefasti del genere si ripetano ed oltre lo studio possiamo dedicarci alla lettura distopica, una letteratura che ci presenta realtà alternative dove le dittature sono ancora esistenti nelle società occidentali e la libertà è un ricordo lontano. Di seguito andrò a parlare di due realtà distopiche che mi hanno lasciato il segno : 1984 e V per Vendetta

I due minuti d’odio


Nel 1948 Orwell iniziò a scrivere il romanzo distopico 1984, dove il mondo sembrava essere spartito tra tre superpotenze : Oceania, dove il racconto è ambientato, Eurasia ed Estasia. Il protagonista del romanzo lavora per il partito unico, si occupa di revisionare qualsiasi evento storico per dimostrare la potenza e l’affidabilità del governo. Dalla memoria storica alla cultura tutto è controllato e modificato secondo i dettami del Grande Fratello e del Socing, il linguaggio viene ridotto a brandelli e ridefinito come Neolingua per volere del partito. La società di 1984 non ha una libertà culturale, non ha un libero pensiero e tutto è convogliato verso la distruzione del nemico, a volte identificato nell’Eurasia e altre nell’Estasia ma sempre in chi non segue l’ordine stabilito dal partito.
Una cosa che contraddistingue questa società distopica è il momento in cui la popolazione si raccoglie davanti agli schermi per vivere due momenti particolari: festeggiare il Grande Fratello e odiare il nemico, Emmanuel Goldstein. Il passaggio emotivo dall’amore per il partito all’odio per il nemico identifica l’intera società, che accetta in modo passivo ciò che il partito decide per tutti. La società si basa sull’idea di mente alveare dove uno (il partito) pensa e tutti accettano le decisioni e il pensiero che consegue, chi esce da questo schema è considerato il nemico e ricercato dalla psicopolizia.

L’Inghilterra domina!

E’ il 1988 e Alan Moore denuncia attraverso la sua opera il governo di Margaret Thatcher, un medium che può evitare la censura che sta avvenendo in quegli anni in Inghilterra.
La storia inizia il 5 Novembre 1997 e il mondo ha appena assistito ad una guerra nucleare, i governi sono in rovina e in Inghilterra si instaura una dittatura.
Dalla mente di Alan Moore e dalla matita di David Lloyd nasce V per Vendetta, graphic novel che ha avuto una trasposizione cinematografica e che ha reso la maschera di Guy Fawkes un simbolo di protesta e identificativo del gruppo Anonymous.
Adam Susan è il leader del partito fascista che prende il consenso e si instaura al potere in Inghilterra, con la promessa di difendere la nazione dai pericoli esterni. Come in ogni nazione sotto dittatura, tutto viene limitato e vediamo una ragazza di nome Evey, la protagonista, che viola il coprifuoco imposto dal governo e ha un incontro sfortunato con degli agenti in borghese prima e poi con V, che salva la ragazza da una fine orrenda.
V è il ricordo di Guy Fawkes, un cospiratore del XVI secolo che cercò di far saltare il Parlamento Inglese nella notte del 5 Novembre 1605. Attraverso il ricordo vive la ribellione nei confronti del partito fascista che si identifica nei cinque sensi, organizzazioni governative che controllano ogni aspetto della vita della nazione. Continui parallelismi con l’Inghilterra sotto il terzo mandato della Tatcher, che proponeva campi di concentramento per i malati di AIDS, la polizia anti-sommossa indossava visiere nere e i blindati circolavano per le strade con telecamere installate su per osservare i cittadini e il governo espresse la volontà di sradicare l’omosessualità, persino come concetto astratto.
Concetti che al di fuori della graphic novel spaventavano e spaventano tutt’ora ma che all’interno dell’opera vivono e mostrano una distopia spaventosa, dove il partito fascista ha abolito ogni libertà in nome della sopravvivenza dall’olocausto nucleare che ha coinvolto l’intero pianeta.
Oggi V per Vendetta come opera è conosciuta in tutto il mondo, il volto mascherato del personaggio di Moore e Lloyd è diventato il simbolo della rivolta e tutto questo riconoscimento lo deve al film di James McTeigue uscito nelle sale cinematrografiche nel 2005.

Che sia il Big Brother di Orwell o il Norsefire di Moore non importa. Le distopie sono riflessi di società che oggi non esistono quasi più, ma che l’ombra di questi sentimenti di odio ancora vivono tra alcuni individui, fomentando le masse a cercare il nemico e distruggerlo. Sperando che le ombre un giorno vengano illuminate dalla ragione e che i sentimenti di odio e paura per il diverso vengano finalmente allontanati.