Il tempo di ieri…ed è già domani

Il tempo di ieri…ed è già domani

Ci sono degli aspetti curiosi su cui mi capita di riflettere quando ripenso al tempo, tutti in qualche modo collegati tra loro. Il primo, è che anche con l’avvento, o meglio il sopravvento, degli smartphone, sovente mi è capitato di incontrare persone “costrette” a chiedere l’ora. Il secondo, è invece l’espressione incuriosita che, per qualche secondo, illumina il viso di questi inconsapevoli protagonisti delle mie riflessioni quando mi vedono sollevare il polso destro per controllare l’orologio. Una particolarità derivata dal mio essere mancino.

Ma l’aspetto più interessante, ad essere onesti, quando ripenso al tempo è l’immagine che molto spesso ritorna quando questo viene contestualizzato alle piccole realtà provinciali. Nelle più influenti narrazioni, anche cinematografiche, si tende a considerare questo come un qualcosa di lento, dolce, quasi immutabile. Non ci credete? Proviamo a fare un esempio.

Immaginiamo un gruppo di ragazzi, in un piccolo paesino, seduti tutti intorno a un tavolino. Le sigarette, le birre e i bicchieri non si contano, così come le discussioni, alcune più animate, altre più tranquille. Ma in questa piccola immagine d’Italia ci sembra che il tempo non sia mai passato, anzi non possa mai passare. Adesso affidandoci sempre alla nostra fervida immaginazione spostiamoci nel bar di una grande città: accanto al nostro tavolino ci troviamo una coppia di fidanzati, gli occhi si dividono tra la tazza di caffè e lo smartphone che distrattamente controllano ripassando gli impegni della giornata. Contrariamente alla precedente scena il tempo calcolato per questa sarà di qualche minuto.

La facilità con cui abbiamo immaginato queste due scene e il contesto ad esse relativo è disarmante: queste due immagini, infatti, nascondono le false convinzioni di cui parlavamo inizialmente, che condannano un intero ambiente all’immutabilità quasi perenne e di cui i principali responsabili siamo noi.

Una staticità che si riflette, poi, nella definizione dei bisogni e delle necessità sociali e culturali da parte delle istituzioni e di alcuni attori. Anch’essi, come per incanto, fermi ai decenni precedenti. Attori secondari di quel quadro immutabile, precedentemente descritto, ritengono opportune iniziative con cui hanno affermato la loro presenza e a cui hanno provato a dare risposte (obsolete) a problemi trasformati dal veloce progredire del tempo. Hanno consegnato le loro cittadine a tavole rotonde evanescenti, a manifesti stampati vecchi e a manifestazioni folkloriche inneggianti a un passato mitizzato (consiglio di lettura: tutto ciò che riuscite a trovare di Furio Jesi in relazione al mito).

Le nostre terre sotto la scure del tempo, immaginato come immutabile, si sono sempre più trasformate in dormitori, periferie del comune limitrofo più grande, svuotate di forza vitale e conflittuale giovanile. Hanno perso qualsiasi propulsione alla vita e sono diventate luoghi di esistenze precarie, isolate e frammentate. Luoghi in cui si spera che con una piccola iniziativa estiva di sette giorni si possa risollevare un’intera comunità. Già, come se il tempo, sempre lui, in quei sette giorni si potesse immobilizzare e smettere di scorrere e consegnare a tutti quella condizione di festa permanente capace di raccogliere tutti e limitare alla sfera simbolica ogni forma di conflittualità.

Ma non è di questo che hanno bisogno le nostre comunità. Hanno bisogno di noi, del nostro tempo e soprattutto di continuità. Hanno bisogno di umiltà e di ascolto. Hanno bisogno, tanto per citare la prima pagina di un importante quotidiano nei giorni successivi al Terremoto, di qualcuno che faccia presto!