Teaching

Teaching

Se penso al più grande fallimento della nostra società, mi viene in menta il sistema scolastico. Dal primo anno di elementari fino al quinto superiore, percorriamo un sentiero che dovrebbe riempirci di esperienze positive e prepararci al mondo universitario o del lavoro ma purtroppo non è così. Almeno dalle elementari fino alle medie, sei un semplice pacco postale che viene fatto avanzare piano piano tra gli anni, riempiendo la tua testa di nozioni che dimenticherai appena avrai varcato la soglia delle scuole medie per il liceo. Ed è proprio alla fine delle medie che inizia il fallimento, come novelli studenti di Hogwarts ci piazzano davanti la scelta di un futuro incerto ma a differenza dei maghi e streghe nati dalla mente della Rowling non abbiamo nessun cappello che ci ascolti e indirizzi.

IL CAPPELLO PARLANTE

Quella domanda “cosa vuoi fare da grande?” che ci scarica una responsabilità che ancora non è chiara, ci guardiamo intorno cercando il supporto degli altri ma che alla fine non troviamo poiché siamo tutti sulla stessa barca con un singolare nome: incertezza.
Perché farci questa domanda, quando anche da adulti non sappiamo dove stiamo andando e se il fallimento un giorno diventerà successo? Perché invece di fare una domanda simile non ci hanno dato la possibilità di poter anche inseguire un sogno, quello che da bambini abbiamo custodito gelosamente e di indicarci la via giusta per realizzarlo? Perché alla fine eravamo circondati da adulti che non avevano tempo ad ascoltare, senza nemmeno un cappello o un grillo parlante a darci dei consigli.

GREAT TEACHER

Durante i primi due anni del liceo, su MTV veniva trasmesso l’anime G.T.O. che aveva come protagonista un ex teppista con il sogno di voler diventare insegnante. A ripensarci Onizuka nonostante la sua preparazione scolastica e passato, era in grado di valorizzare i suoi studenti che venivano considerati fallimenti o problematici dai suoi colleghi; non dico che nel nostro sistema scolastico veniamo visti in questo modo (anche se qualcun* lo pensa e lo esprime) però veniamo portati a considerare maggiormente i nostri fallimenti che successi. Perché veniamo introdotti in un sistema che invece di mostrare la collaborazione ci insegna a competere, a sentirci in colpa quando sbagliamo o non siamo all’altezza mentre magari siamo portati in altro. E magari quelle discipline in cui eccelliamo sono viste come inutili, come se sviluppare una persona dipenda tutto dalle materie di serie A e serie B e non da ciò che è portato. Onizuka ascoltava i suoi studenti, si metteva in prima linea per aiutare i ragazzi e ragazze della sua classe a scoprire se stessi ed evitava categoricamente di farli sentire un peso, evitando così di farli sentire come dei fallimenti. Forse esistono docenti così, che tengono ai propri studenti e che non sono pronti a demoralizzare al primo errore ma che invece li spingono a realizzarsi. Ma di Onizuka con il suo german supplex ci dobbiamo accontentare di vederlo su schermo.

Solo un grande sasso: storia di un precario e di un fiume

Solo un grande sasso: storia di un precario e di un fiume

Mentre fisso la schermata del mio PC, in un insolito momento di silenzio assoluto, ho cominciato a prestare attenzione a tutti i segnali che il mondo esterno continua ad offrirmi. L’autunno alla fine è giunto, inesorabile, come sempre.

I segni ci sono tutti, annunciano il cambiamento dell’ambiente e tutti se ne rendono conto: l’aria, improvvisamente più fresca spinge i pochi passanti mattutini a cercare un posto al sole, lo stesso sole che fino a qualche settimana fa evitavano con cura. Il suono delle rondini è scomparso e l’aria in cielo sembra essere più sgombra del solito. Ma c’è una cosa che non è mai scomparsa ed è destinato a non cambiare mai: il suono del fiume.

Sono ormai trent’anni che vivo con questo, non mi abbandona mai, né di estate né di inverno. Quasi sempre lo stesso anche nei giorni di pioggia. E pensare che per anni ho cercato in tutti i modi di attenuarlo, ammansirlo ed in certo qual modo ci sono riuscito.

Nessun tentativo di cementificazione, sia ben chiaro, ma un semplice processo di abitudine che ha avuto per protagonisti il mio orecchio e il mio cervello. Ma ecco, capita che qualche giorno in cui il silenzio si fa predominante che i sensi ritornano sensibili a quel suono, lo rendono percepibile, addirittura lo amplificano.

Un susseguirsi di riflessioni accompagnano questo strano risveglio. L’ultimo mi ha fatto pensare ai piccoli ciottoli che portati dalla corrente si continuano ad avvicendare lungo il percorso e vengono trasportati dalla sorgente fino alla foce, passando per un’infinità di città, paesi, agglomerati urbani e abitazioni. Lungo tutto il percorso vengono a contatto con un numero immenso di vite ed esperienze e influenzano un numero, altrettanto immenso, di esistenze.

Un ciottolo in balia delle onde può essere uno strano pensiero, se non lo si legge sotto un’altra ottica. Infatti lo si potrebbe rapportare a quella che è la nostra condizione.

Capita più spesso di quanto si creda di chiedersi di noi, come quel piccolo sasso, dove siamo diretti, da dove siamo partiti e quale sarà la nostra destinazione.

SOLO UN GRANDE SASSO – DOVE STIAMO ANDANDO?

C’è un minimo comun denominatore che accomuna la nostra infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza: la scuola. Passiamo gran parte della nostra giovane vita in balia di istituti in cui cercare di immagazzinare un numero spropositato di nozioni, senza comprenderne il senso.

Impariamo formule, composti, capitali, date, coniugazioni, declinazioni e via dicendo. Impariamo tutto senza battere ciglio. Impariamo, appunto, non comprendiamo. Immagazzinare il tutto per poi superare le verifiche e raggiungere, per merito di una somma aritmetica, la tanto agognata sufficienza e se va bene qualcosa in più.

Ci hanno detto che in questo modo stiamo acquisendo il metodo (quale metodo chissà) per poter affrontare dignitosamente la vita di tutti i giorni. E così per alcuni comincia la lunga trafila nel mondo del lavoro, per altri la giovinezza si allunga ulteriormente con l’università. Il desiderio, nemmeno tanto esplicito, quello di acquisire maggiori competenze e altro metodo (sempre in agguato, ma mai dichiarato).

Ci ritroviamo così, finalmente pronti per il mondo del lavoro, peccato che quest’ultimo non è pronto per tutti noi. E allora via con infiniti corsi di formazione, via di formazione permanente perché bisogna aggiornarsi e differenziarsi, bisogna essere sempre più unici per un sistema che ti getterà senza troppi complimenti in un contesto dove le parole d’ordine sono sempre le stesse, flessibilità e sottopaga.

Impossibilitati ad avere una giusta dimensione arriviamo a fare i conti con quella che è la nostra esistenza precaria e ci ritroviamo come quel piccolo sasso, portato a spasso dalla corrente, a chiederci “dove stiamo andando?”.

Intanto la corrente continua a limarci, smussando tutti gli spigoli, rendendoci sempre più piatti, trasportati non del tutto consapevoli della prossima destinazione, possiamo solo sperare che il prossimo luogo dove ci porterà sarà l’ultimo e sarà il più bello, il posto ideale dove vivere in pace la nostra esistenza.

A.A.A. Istruzione cercasi. Giovane e con esperienza

A.A.A. Istruzione cercasi. Giovane e con esperienza

Fin da bambino, i miei genitori mi dicevano che era importante studiare per trovare poi un lavoro da grande. Che lo studio ti differenziava da persone che magari non avevano avuto l’opportunità o voglia di aprire i libri sui banchi scolastici, ti portava ad un livello superiore in pratica.
Ricordo pure che da bambino quando tornavo a casa dopo la scuola, tutto felice perché il compito in classe o l’interrogazione era andata bene e
davo la notizia a mia madre la quale rispondeva con un freddo “hai fatto metà del tuo lavoro”.
Immaginate questa cosa ripetuta più e più volte, arrivi ad un punto che impegnarti nello studio ti sembra inutile, chi te lo fa fare di passare il tempo sui libri? Sei un bambino, preferisci giocare!


Gli anni del liceo

Spesso si dice che gli anni del liceo sono quelli che iniziano a formare la persona, a delineare dei pensieri concreti che verranno proiettati nel futuro, a costruire le prime vere relazioni sociali. Be diciamo che non è andata proprio così per me! Quando incontri docenti che il loro lavoro non sono capaci di farlo, che ti portano ad odiare ancor di più lo studio… Cosa si delinea? Aggiungi dei compagni di classe che ti trattano come uno diverso, uno da escludere.
Ho passato gli ultimi 3 anni del liceo a sentire il docente di matematica che mi invitava a zappare la terra, che mi ricordava ogni volta che gli andava di come si era impegnato a richiedere la mia bocciatura (cosa mai riuscita, per fortuna!) e di come non mi volesse nella sua classe. Inoltre non ha mai imparato il mio cognome, il brav’uomo.
Però bisogna studiare per distinguersi, no? Distinguersi in un ambiente che ti sembra ostile per un sacco di cose ma nonostante tutto hai trovato un piccolo spiraglio di luce e speranza. Le mie speranze furono, durante gli anni del biennio per il docente di italiano che mi fece ritrovare la voglia e il piacere nello studio e durante il triennio il professore di storia e filosofia, che mi insegnò a ragionare al di fuori dei libri e ad aprire la mente.

Che Università vuoi frequentare?

I dubbi alla fine del liceo, passioni che hai abbandonato e prospettive di cosa fare dopo arrivano e ti ritrovi a pensare : “cosa mi farà distinguere dagli altri, con quale titolo di studio avrò la possibilità di realizzarmi?
L’idea iniziale era di iscrivermi a psicologia, mi piaceva l’idea di poter analizzare le persone e cercare di comprendere cosa avvenisse dietro i loro comportamenti, oppure Ingegneria, una sfida per me stesso e per il prof che per tre anni mi porto’ ad odiare la matematica . Poi optai per Sociologia, precisamente Culture digitali e della comunicazione.
Perché limitarsi ad una sola persona per volta, quando puoi analizzare una società intera?
Mi iscrivo, passano gli anni e mi laureo con un “lieve” ritardo alla triennale e decido di continuare con gli studi, iscrivendomi alla magistrale della stessa facoltà che ho appena frequentato: comunicazione pubblica, sociale e politica. Più studio e più capisco che l’Università non serve a distinguersi, noto come l’ambiente in cui mi trovo non serve ad aprire la mente, ad essere elastico nei ragionamenti. In fin dei conti siamo solo dei numeri e l’università diventa sempre più simile ad un’azienda, dove è importante far uscire le persone con il massimo dei voti ma spesso vuota di contenuti. Vedi persone che si laureano senza reali capacità e tu ingoi il rospo. E ripensi che l’istruzione ti farà distinguere dagli altri. Ringrazi però quei pochi docenti che qualcosa ti hanno insegnato in fin dei conti , che ti hanno mostrato che soffermarsi solo sulla copertina di un libro non necessariamente ti porta a comprendere ed apprezzare il contenuto nascosto tra le parole e i disegni.

Non c’è ne coviddi!

Perché tutto questo racconto? Per arrivare a questo, ovvero l’Italia oramai è una nazione che demolisce l’istruzione e la cultura. È un paese che si basa sull’ignoranza, sul negazionismo culturale.
Tutti hanno visto o sentito la signora affermare “non c’è ne coviddi” e di come quest’ultima abbia deciso di aprirsi un profilo instagram. Poche ore e aveva quasi raggiunto il numero di followers di Alberto Angela. Cosa significa? Invidia? No delusione!
Signori, viviamo in un paese dove se spari cazzate a destra e sinistra senza nessuna vergogna vieni osannato, vieni condiviso e a nessuno importa che intanto la cultura e l’istruzione muoiono giorno dopo giorno . Perché se invece provi a diffondere cultura, anni di studio e duro lavoro incontrerai sempre l’individuo X che negherá tutto il lavoro, i tuoi sacrifici e i tuoi sforzi. Perché in fin dei conti la colpa è pure nostra, che ci sveniamo e ci danniamo per individui che della cultura non vogliono saperne nulla. Per individui che alla fine basta il meme e sono contenti così.
Perché in fin dei conti, l’istruzione ci fa distinguere. Ma non ci fa riconoscere in ua società che l’istruzione non la vuole.

Il turbamento della cultura

Il turbamento della cultura

Manca poco alla ripartenza e son giorni cruciali per il sistema scolastico nazionale. La confusione organizzativa è direttamente proporzionale al desiderio di riprendere la socialità inclusiva e trasversale interrotta bruscamente nei mesi precedenti. Rispetto al passato abbondano maggiormente i punti critici quanto i bisogni per garantire uno stato di sicurezza per scongiurare il dramma attuale dell’inarrestabile diffusione del virus. Non bastava il trascinarsi anziano ed affannoso dei problemi della scuola italiana, no, oggi se ne aggiungono di nuovi, andando a formare così una miscela incendiaria di crescenti carenze per turbarle le menti, con meno cultura e più paura.

“Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta”.

Per questi tempi interessanti vai di “play” sui miei ascolti disturbanti.

Grazie professore

Grazie professore

Arrivava svelto in aula. I suoi appunti svolazzavano un po’ a terra e qualche foglio, più fortunato, atterrava sulla cattedra. Era un uomo sulla sessantina e la pensione ormai ad un palmo di mano. Insegnava filosofia e non nascondo che mi ha salvato da un’adolescenza che annebbiava qualsiasi mia speranza.

E forse già qui stiamo ad un punto di svolta: la scuola, almeno per come la intendo io, deve aprirti gli occhi su quello che ancora non vedi dentro di te. Ed è proprio quello che fece quell’insegnante pieno di piccole manie ma svelto di pensiero.

Un giorno piovoso io me ne stavo tra le scale a fumare una sigaretta quando lui mi vide e si fiondò su di me. Istintivamente gettai la sigaretta a terra e sono convinto che Greta mi perdonerà. Ma ad una pagella schifosa non potevo affiancare l’ennesimo richiamo.

«Cosa stai facendo Lepore?»

«Stavo fumando prof, scusatemi. Per favore, però, non ditelo a nessuno che qua la situazione, per me, è già troppo rischiosa»

«Cosa stai facendo Lepore?»

Panico. Non sapevo se avesse voluto ulteriori scuse oppure insinuasse altro.

«Schifo, faccio schifo» e mi scappò una risata, probabilmente amara.

Lui mi accarezzò: «Sai quante volte ho fatto io schifo? Non ci ho mai capito granché della vita, della mia professione e poi guarda questa scuola. Cade a pezzi e tutti pensano ai voti, ad accumulare nozioni che poi domani non vi serviranno ad un cazzo. Io invece avrei voluto fare l’insegnante per farvi capire che c’è un’alternativa a tutto questo, come lo chiami tu, schifo»

«Ma se accumulare nozioni non serve a nulla non capisco come possiamo vedere un’alternativa»

«Perché a scuola dovete capire chi siete. Vi abbiamo inculcato l’obbligo di imparare tutto e lì abbiamo perso la nostra sfida. Ognuno di voi nasce con una capacità, con un talento e noi dobbiamo avere la pazienza di accompagnarvi fino alla fine però proteggendo la vostra unicità. Ed invece guardatevi: siete tutti uguali».

Se ne andò. Io rimasi immobile e lì compresi una “cosa” che mi sfuggiva da sempre: e cioè che ognuno di noi ha il suo superpotere. E che non possiamo brillare in tutto. E forse tra tutti i guai della scuola italiana, questo è il peggiore: l’obbligo di stare sempre sul pezzo, ogni minuto, ogni ora, ogni anno.  Su tutto.

Grazie professore. Mi avete salvato la vita.