Il campionato europeo itinerante è cominciato e non sta lesinando emozioni forti. Le polemiche politiche, il malore di Christian Eriksen, la paura. La tenace Ungheria e soprattutto l’Italia, bella come non mai, concreta, tenace quando serve, spietata dittatrice a centrocampo. Con gli austriaci si è sofferto forse più del dovuto. Ora sotto a chi tocca.
La Danimarca avanza dopo un inizio drammatico. Eriksen si accascia al suolo e si teme il peggio. La squadra, sebbene sotto shock, coadiuva i soccorsi. Tutto finisce bene, per fortuna. Ed ora, la ripresa, la motivazione, l’euforia per lo scampato pericolo. Chi ne sa di calcio non può rievocare ciò che successe nel 1992, quando in Svezia la Danimarca vinse il suo primo ed unico europeo in circostanze rocambolesche.
La Jugoslavia collassava sotto il peso della storia, la migliore generazione calcistica mai sfornata dal pallone balcanico dovette arrendersi sotto il peso degli eccidi consumati in una patria ormai divisa dall’odio, fuori controllo.
La Danimarca è lì per caso, ripescata. Un paio di buoni giocatori, poche speranze ed un uomo, Kim Vilfort, che non sa se partire o meno con la sua squadra. La figlia è in ospedale, colpita da un grave male. La Danimarca avanza fino alla finale sbaragliando squadre ben più quotate, fino ad infliggere la soluzione letale ai rivali tedeschi proprio in finale. Segna proprio Vilfort, che dopo poche settiman
e dovrà dare l’estremo addio alla povera figlioletta. Una favola agrodolce senza lieto fine, ma che entra di diritto nella leggenda. La dinamite danese è esplosa fragorosamente nella memorabile estate del 92. Chissà dove potrà arrivare quest’anno..
Il mio Europeo preferito rimane quello del 96. La gran Bretagna è il centro del mondo, i laburisti trasformano il grigiore tatcheriano in un parco giochi dai toni spensierati, easy-going e positivi. Esplode di nuovo la musica, la crescita economica avanza, nei cinema esce Trainspotting, gli Oasis sfidano i Blur, Wonderwall è un inno sacro, suona in ogni pub, in ogni sala da ballo, in ogni stazione. La nazionale inglese, padrone di casa, vuole vincere a tutti i costi e si affida alle follie di Gazza Gascoigne, che segna alla Scozia un Eurogoal incredibile.
L’Italia di Sacchi è in un periodo di transizione, dopo diversi cambi repentini di formazione, le speranze azzurre si infrangono sul palo colpito da Zola su rigore contro la Germania. Usciamo fuori da un Europeo bellissimo. Stadi pieni, maglie coloratissime e fantasiose. Una nazione intera pretende la vittoria. Football it’s coming home.
La Repubblica Ceca sorprende tutti battendo l’Italia, superando quarti e semifinale in scioltezza grazie al talento di due giovani di sicuro avvenire: Karel Poborsky e Pavel Nedved. Il sogno inglese si frantuma di fronte la tenacia dei grandi rivali di sempre: la nazionale di sua maestà non va oltre la lotteria dei rigori contro una Germania fortunata. Le lacrime di Gasgoigne segnano la fine di un’era per l’estroso calciatore inglese.
Finale, dunque: Germania – Cechia. I cechi ci credono e vanno in vantaggio. Entra un misconosciuto ragazzo dalla panchina tedesca. Al secolo Oliver Bierhoff. È uno di quei cambi che fa la storia del calcio. Suo il pareggio, suo il vantaggio tedesco. Fischio finale. La Germania è campione d’Europa sotto il cielo di Wembley. Il mondo scopre il giovane Bierhoff, già in partenza per Udine, destinazione serie A, la Mecca di ogni campione che si rispetti. Siamo a metà degli anni 90, mica nel pandemico 2021…
Nello stereo della mia auto suona “Don’t look back in anger”, fumo una sigaretta sotto la calura. Un’altra estate uguale alle altre, pochi euro in tasca, un cuore fatto a pezzi e mai come ora tanta voglia di non essere qui, adesso.
Una delle stagioni calcistiche più strane di sempre sta per volgere al termine. l’Inter si laurea campione d’Italia ponendo termine allo strapotere juventino, il City raggiunge la finale di Champions e stravince la Premier. Ligue1 e Liga spagnola sono ancora in bilico, lotta aperta tra Psg e Lille, Real ed Atletico, mentre in Germania il solito Bayern spadroneggia. La follia della Super League sembra essere tramontata, ma non si fa in tempo a tirare un sospiro di sollievo che subito si è colpiti dall’ennesima notizia a dir poco bizzarra: nelle serie dilettantistiche olandesi il calcio sarà misto, ossia saranno ammesse squadre composte da uomini e donne. Prima che il calcio finisca definitivamente, rituffiamoci nel nostro viaggio europeo.
Gli anni ’70 furono fervidi di cambiamento e di entusiasmi. Musica, cultura, società: il calcio totale olandese, così bello ed innovativo quanto poco remunerativo, incarnò senza dubbio lo spirito del tempo. Oltre ai granitici tedeschi, campioni del mondo in carica, le squadre di oltre-cortina erano ancora temibili. Le fasi finali di Euro 76 vennero giocate proprio in Yugoslavia, nelle sedi di Belgrado e Zagabria. Il Paese, una zona franca socialista alla propria maniera, neutrale nello scacchiere della guerra fredda, conobbe il periodo di massima prosperità proprio in quegli anni. Con gli azzurri eliminati nel girone di qualificazione da Olanda, Polonia e Finlandia. A spuntarla fu, non senza sorpresa, la Cecoslovacchia, squadra solida, che di presentò in terra jugoslava con spirito corsaro, pronta a scippare il titolo alle tre temibili regine: i padroni di casa Yugoslavia, i fortissimi tedeschi e gli olandesi vice-campioni del mondo due anni prima. Nelle semifinali la Cecoslovacchia dei vari Ondruš, Nehoda, Pivarnik e Panenka batté a sorpresa gli olandesi per 3-1 allo stadio Maksimir di Zagabria. I tedeschi, invece, davanti ad un Marakana strapieno, eliminarono la Yugoslavia che andò in vantaggio ancora con l’intramontabile Džajić. L’implacabile Gerd Müller, con una tripletta, portò in finale i teutonici, pronti al bis mondiale 74 – europeo 76. Antonin Panenka, però, penso diversamente: il suo rigore a “cucchiaio” (primo nella storia) diede la vittoria alla Cecoslovacchia dopo un 2-2 che vide i tedeschi dell’ovest rimontare di nuovo due gol di svantaggio.
L’edizione del 1980 vide ancora l’Italia in qualità di paese ospitante. Le sedi di Roma, Napoli, Milano e Torino videro un cambio di format nella fase finale: le prime di ciascun girone di sarebbero scontrate nella finale allo Stadio Olimpico. Gli azzurri parteciparono di diritto in qualità di host country, purtroppo il risultato non fu quello di 12 anni prima. Il primato del girone andò, per differenza reti, al Belgio, una squadra giovane e propositiva, impreziosita dai talenti di giocatori come Ceulemans, Gerets ed il portierone Jean Marie Pfaff. In finale i diavoli rossi dovettero scontrarsi contro l’immarcescibile Germania Ovest, che intanto stava facendo largo a quella che sarebbe diventata una generazione vincente: Schuster, Briegel, Hrubesch, Hansi Muller e Karl-Heinz Rummenigge. Il 2-1 (doppietta di Hrubesch) finale premiò i teutonici che portarono a casa il loro secondo campionato europeo di calcio. Il cielo di Roma sorrise ai colori bianco-neri, mentre i nostri azzurri dovettero accontentarsi di perdere la finale 3°-4° posto contro la Cecoslovacchia dopo una interminabile fila di rigori. La festa, però, era solo rimandata: all’orizzonte vi era il folle mondiale di Spagna ’82.
Lo scoramento per la realtà surreale vissuta nell’ultimo anno ha, almeno per quanto concerne il sottoscritto, spento l’interesse per la stagione calcistica in corso. Stadi vuoti, scenari surreali, un gioco sempre più opinabile sotto diversi aspetti. L’orizzonte, però, scalda il cuore, nonostante tutto: cum magno gaudeo attendiamo i campionati europei, primo vero banco di prova per la entusiasmante nazionale di Mancini.
Con la mente e con il cuore ho provato a rispolverare i ricordi, passando in rassegna vecchi almanacchi commentando le edizioni più belle di una manifestazione affascinante, un altro luogo di incontro tra storia, sport e politica, evento nato nel miraggio di un continente desideroso di unirsi sotto la bandiera della concordia, a dispetto del terribile ricordo della Guerra. Rinfreschiamoci un po’ la memoria, rammentando le prime due edizioni:
Nel 1960 la UEFA decide di organizzare il torneo da tenersi proprio in Francia, sede dell’organizzazione. Il Presidente Henri Delaunay si fa promotore dell’evento alla cui fase finale, dopo un blando turno eliminatorio, accedono soltanto quattro squadre dislocate nelle sedi di Parigi e Marsiglia. È un torneo dai caratteri sperimentali, ancora embrionale, in cui le squadre dei Paesi dell’oltre-cortina di ferro fanno da padrone.
Trionferà l’Unione Sovietica, una squadra simbolo con una maglia storica, rossa rivoluzionaria, marchiata dall’iconico acronimo CCCP. Dopo aver vinto a tavolino contro la Spagna franchista (rifiutatasi di partire per Mosca per motivi strettamente ideologici) e contro la “satellite” Cecoslovacchia, in finale viene sconfitta la “sorella” Jugoslavia per 2-1 in un incontro/scontro che avrebbe pienamente soddisfatto le manie di rivalsa del compagno Stalin nei confronti del rivale Tito. Lev Jaščin ed Igor Netto sollevano la bellissima coppa dal colore argento al cielo di Parigi mostrando al mondo il valore competitivo di un Paese in crescita, nel pieno di un’epoca foriera di grandi cambiamenti sociali al suo interno: i voli plastici del “ragno nero”, unico portiere a detenere il pallone d’oro, saranno seguiti dal volo più famoso della storia, quello del cosmonauta Jurij Gagarin che circumnaviga il pianeta aprendo scenari tecnologici inimmaginabili. L’Urss è in piena ascesa, lancia la sua sfida al mondo intero, politico e non
Grandi attese, a volte, tradite: il bis venne fallito nell’edizione successiva del 1964, vinta dai padroni di casa della Spagna. Il torneo, la cui fase finale si disputò nelle sedi di Barcellona e Madrid, seguì la stessa identica formula della prima edizione. L’Urss campione in carica dei vari Jaščin, Ponedel’nik ed Ivanov, dopo aver eliminato l’Italia nelle fasi eliminatorie (esordio per gli azzurri nella competizione, 2-0 a Mosca, 1-1 a Roma), cede in finale alla Spagna di Marcelino, Pereda, Luisito Suarez e Ferran Olivella che trionfa nella finale di Madrid battendo i nemici politici di fronte a Franco e al Re, sulle tribune del Bernabeu. Per vincere ancora le Furie Rosse dovranno attendere i vari Xavi, Iniesta, Casillas e Puyol per ben 44 anni…
Il campionato europeo di calcio è ancora lontano dalla messa a punto di una formula complessa come quella odierna, ma nelle sue due prime edizioni ha già regalato partite spettacolari, suscitando largo interesse e una speranza per il futuro. La prossima edizione la si giocherà a Roma, la nazionale italiana non si farà trovare impreparata.
Mi ritrovo molto spesso in questa fase della mia vita a riflettere sul significato della parola sconfitta, a quanto questa condizione abbia influenzato e continui ad influenzare la mia esistenza.
In un’epoca dominata da un’“effimera positività” veicolata dalle mostruosità social noto sempre più l’enorme difficoltà dell’individuo nell’ammettere la sconfitta in ogni sfera dell’esistenza, nel tollerare anche solo la possibilità di rientrare per una volta nella tanto temuta zona oscura del fallimento. Lo sport e la sua immagine riflessa nei circuiti mass-mediatici degli ultimi decenni ne è la prova lampante: non è difficile rilevare come fama e prestigio, biografie e celebrazioni vengano ormai misurate nell’ unico ed imperante metro di misura ad oggi valido, ossia quello delle bacheche dei trofei, individuali o collettive.
Quanti soldi hai, quante donne hai, quanti followers hai, quanti trofei hai vinto: è il “cretinismo economico” di gramsciana memoria sollevato a parametro risolutore di ogni tipo di valutazione. Un giudizio di valore calante a mo’ di spada di Damocle sulla testa di ognuno di noi, che non potrà mai sfuggire alla fredda condanna della matematica. Sarà per questo che, nel campo del mio sport preferito, sono sempre stato legato a figure che, oltre alle vittorie, hanno saputo scandagliare a fondo anche l’altra metà del cielo, più oscura e scomoda, quella della sconfitta, in campo così come nella vita. Ed ecco che alla cantilena recitata dei ricchi palmares di Cr7, Messi o Ibrahimović (lo dico da milanista sfegatato, quanto mi tedia ormai la stantia narrazione di supereroe invincibile!), ho sempre preferito i colpi pazzi e sregolati di Savicević, Gasgoigne, Cantona o Tino Asprilla.
Cantona dopo il celebre episodio che lo tenne lontano dai campi per mesi (Credit: PA Wire) .
Le ultime sonnacchiose partite a porte vuote giocate dalle nazionali mi hanno fatto profondamente riflettere, non solo su quanto la geografia del football stia drasticamente cambiando, ma su come certe attitudini, in fondo, non cambino mai. E se vi è un popolo che più mi ricorda l’attitudine alle pazze vittorie e alle tragiche sconfitte è sicuramente quello jugoslavo, un popolo che oggi, ironia della sorte, non esiste più se non nei cataloghi della Jugonostalgija o negli aneliti sopiti delle ormai tristemente vuote cattedre di lingua serbo-croata. Frammentati in sei repubbliche, i balcanici sanno ancora offrire spettacoli ai miei occhi bellissimi e rocamboleschi.
Jugoslavia anni 90.
La Serbia di Milinković-Savić è fuori dagli Europei, capitola a Belgrado dopo la lotteria dei rigori contro una modesta Scozia, tornata sulla ribalta internazionale a 24 anni dalla rassegna iridata di Francia ’98. “Possono vincere contro chiunque e perdere contro…chiunque!”: eccolo il motto che da sempre accompagna il calcio balcanico. Sarà per l’orgoglio ferito o per il sangue bollente che scorre a fiotti da quelle parti, ma dopo pochi giorni le Orlovi (le aquile, questo il nomignolo affibbiato alla selezione serba) asfalta i fratelli russi con un pesante 5-0 in un innocuo incontro di Nations League. A Belgrado l’importante è esagerare, in negativo o in positivo… poco importa.
Serbia – Russia
La Macedonia “del Nord” (la geografia politica dell’ultim’ora impone nomi tanto nuovi quanto vecchi…) mette la testa fuori dal sacco qualificandosi per la prima volta ad una rassegna internazionale. Il “nostro” affezionatissimo Goran Pandev si prende scettro ed opale alla conquista del continente, è il nuovo Alessandro Magno: in una fredda notte caucasica piega la Georgia e scrive una nuova e bella pagina di cultura sportiva in un Paese ancora alla ricerca della propria identità nazionale, impegnato a litigare con greci e bulgari, a turno.
Pandev festeggia la storica qualificazione della Macedonia del Nord agli Europei.
La festa impazza per le calde strade di Škopje, dove è ancora vivido il ricordo dell’ultimo macedone ad aver scritto il proprio nome nella storia. Parliamo del mitologico Darko Pančev, macchina da gol alla Stella Rossa, clamoroso bidone all’Inter, un Giano bifronte del pallone dai tratti inspiegabili, che ha incarnato tutto lo spirito sornione, tragicomico, fatalista e stralunato di questo popolo capace di tutto.
Giocatori come Savicević, capaci di leziose e tanto “montenegrine” dormite colossali, ma anche di guizzi risolutori da capogiro (per info contattate Andoni Zubizarreta, vedete che vi dice…), ci riconciliano con l’umana esistenza, con la complessità delle nostre vite, in un mondo dove valiamo sempre e solo se vinciamo e possediamo qualcosa o nei casi peggiori, qualcuno. Spesso mi vengono in mente le lacrime di Baresi a Pasadena e credo proprio che certe esternazioni siano state cancellate dalla circolazione: mai piangere, sempre sorridere, mai perdere. Eccola, la vera tristezza. In questa ottica non mi meraviglio dello scalpore che hanno suscitato nel mondo del web le dichiarazioni rilasciate da un gigante come Maldini (è il quarto rossonero che cito, lo so, perdonatemi…): “sono uno dei calciatori più perdenti della storia”. Una frase tagliente, spiazzante, quasi da sembrare ironica, proferita con una fermezza ed una lucidità disarmante, capace di scioccare anche i suoi colleghi più prossimi, costernati: “Paolo, ma…ma che stai dicendo?”. Immaginate un Cr7 o un Ibra dire una cosa del genere. Non ci riuscirete.
Sarà che oggi il “Sole dei vinti” ci risulta più pallido e freddo che mai (passatemi la citazione che qualcuno potrebbe trovare…scomoda…), ma credo che cancellare la sconfitta dalle nostre vite e dalle nostre bacheche sia come perdere due, tre, quattro volte. E allora amici in alto i calici… brindiamo a quel sangue balcanico che di volta in volta ci ricorda che essere uomini vuol dire trattare successo e disgrazia come lo stesso impostore (ops, altra citazione). Ogni mattina faccio come Maldini e mi guardo allo specchio: “sono Giannicola, sono uno dei più perdenti della storia”. Accenno un sorriso che assomiglia a un ghigno. Fine. Sipario.
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