364 giorni e 1 – Quello che non ho e quello che mi manca

364 giorni e 1 – Quello che non ho e quello che mi manca

«Lo sanno tutti, pure le pietre, 2020 è anno bisesto, anno funesto!».

Un’esclamazione che è ritornata spesso in questi mesi, nelle più differenti forme e composizioni.

Così abbiamo avuto modo di esternare la nostra insofferenza per questo anno, abbiamo avuto modo di farlo in ogni contesto geografico e sociale inimmaginabile.

Lo abbiamo detto mentre eravamo in fila, tutti perfettamente distanziati, fuori dal panificio, mentre con guanti e mascherina tracciavamo raggi immaginari al fine di rispettare il distanziamento fisico che ci era stato raccomandato. In quelle file in cui ci siamo ritrovati improvvisamente ad essere protagonisti di uno di quei tanti film dispotici, dove a causa di un virus letale l’umanità è minacciata. Siamo stati protagonisti, per l’appunto, con la stessa sicurezza di chi sa che anche con qualche acciacco sarebbe giunto ai titoli di coda sano e salvo.

Abbiamo attraversato con una certa noia la nostra estate italiana, con la mascherina legata al gomito e abbiamo avuto modo di esclamare quella frase mentre seduti al bar la vita riprendeva il suo corso.

Ma lo abbiamo detto anche a denti stretti, quando con il sopraggiungere dell’autunno gli alberi hanno lasciato cadere le foglie così come i governatori lasciavano cadere le minacce di ulteriori blocchi.

Sono sicuro che lo diremo, tirando un grande sospiro di sollievo, anche alle 23:59 del 31 dicembre come se sperassimo che d’incanto nei successivi 60 secondi saremmo capaci di metterci alle spalle tutto quello che questo 2020 è stato.

Tutte le sofferenze, i dolori, le promesse che abbiamo ripulito nel nostro personale lavello della memoria, come quando i baristi risciacquano i bicchieri appena usati prima di metterli nella lavastoviglie.

Dimenticheremo tutte le mancanze che abbiamo dovuto sopportare in questi mesi, forse ci metteremo un po’ di tempo, ma l’oblio è sempre dietro l’angolo. Ci sono molte mancanze, ma di alcune non voglio dimenticarmi. Alcune di queste le troverete qui di seguito.

LA MANCANZA DELL’OGGI E DEL DOMANI – ESSERE UN UNDER 35

In questi mesi in cui ci siamo ritrovati davanti a tutti gli schermi possibili immaginabili ad ascoltare le dirette dei diversi protagonisti, che su base nazionale e regionale, con fare paternalistico e salvifico ci raccomandavano la rinuncia a qualsiasi cosa, ci incoraggiavano allo sforzo, a non uscire e ci promettevano tutele e ricompense alla fine del grande sforzo collettivo.

In questi mesi ci siamo ritrovati, incolumi spettatori di non tanto improvvisati cabaret comici che ci hanno portato a conoscere Benny il coniglietto o ci hanno portato a conoscenza dell’incredibile capacità dei carabinieri a maneggiare il lanciafiamme in caso di feste di laurea.

In questi mesi abbiamo assistito a tutto ciò e abbiamo atteso, pazientemente, la fine della tempesta per scoprire che di noi, ragazze e ragazzi under 35, nessuno ha parlato. Eppure rappresentiamo un universo numeroso ed eterogeneo: siamo lavoratori precari, laureati, disoccupati, ma soprattutto siamo persone a cui il diritto al domani è stato più volte strappato con una sostanziale differenza dalle precedenti volte, questa volta siamo stati condannati all’invisibilità.

Ci ritroviamo costretti a fare gli equilibristi sopra i banchi con le rotelle di cui abbiamo parlato fin troppo in questa estate.

LA MANCANZA DI UN SISTEMA SANITARIO DI PROSSIMITÀ UMANO

Con questa emergenza si è palesata, agli occhi di tutti, un’altra mancanza. La mancanza di cui parlo riguarda l’assenza di una forma di assistenza sociale e sanitaria adeguata.

Sembrerà strano, ma quando si parla di servizi socio – sanitari, il termine socio sta per sociale. Ma questo spesso lo dimentichiamo, abituati a convincerci che una persona possa affrontare un qualsiasi percorso medico semplicemente sotto il piano sanitario essendo così considerato al pari di un prodotto difettoso che viene portato in garanzia per poter essere aggiustato (sia ben chiaro, sempre se il gioco vale la candela).

Così senza dover scomodare Foucault ci si ritrova ad essere spostati ed allontanati dalla società perché reputati dannosi, difettosi, per qualsiasi fine produttivo e sociale. Una volta messi in isolamento cessiamo di esistere in quanto individui, come se una vita potesse essere messa in stand by.

Il congelamento del cittadino quando diventa contagiato (paziente) è stata la più grande scoperta per gran parte degli italiani.

Così per giorni molti connazionali hanno vissuto quello che in molti vivono quotidianamente nelle loro lunghe ed estenuanti trafile di degenti.

Una mancanza che sicuramente non dovremmo dimenticare soprattutto quando vengono proposti tagli alla sanità e ai servizi sociali e assistenziali che vengono spesso ceduti a cooperative senza scrupoli dove il burnout è clausola immancabile di qualsiasi contratto propinato ai lavoratori.

QUELLO CHE NON HO E QUELLO CHE MI MANCA

In un’ottica democratica decido di fermarmi qui e di concedere a chiunque di voi, qualora ne abbia voglia, di proseguire con questo elenco. Ma prima di chiudere vi svelo un segreto queste mancanze non sono venute fuori con la pandemia, con il lockdown e con i DPCM, queste mancanze sono sempre esistite e sono sempre state al nostro fianco, fanno parte del sistema in cui viviamo, un tempo si sarebbero definite strutturali.

La pandemia ha semplicemente allargato la platea di coloro che sono colpiti da queste mancanze. Ma promesso mi fermo qui, la penna passa a voi…e intanto aspettiamo il prossimo anno che sarà di 364 giorni più 1.

Il lavoro (agile) ai tempi del Coronavirus

Il lavoro (agile) ai tempi del Coronavirus

Ripensare a quelli che sono stati i mesi precedenti è un processo complesso e molto articolato, in breve tempo abbiamo dovuto fare i conti con numerosi stravolgimenti a cui eravamo totalmente impreparati, tra questi forse quello che più ci ha stupito è stato l’entrata in scena dello smart working. Per settimane parte del dibattito mediatico è stato spesso occupato da questo “nuovo” aspetto del mondo lavorativo, ma quello che ai molti è sembrato un vero e proprio attore irruento, in realtà è riconosciuto e “regolamentato” dal 2017 al seguito del Job’s Act.

Certo, è entrato a far parte della nostra quotidianità solo nei mesi scorsi, ma sono bastati a creare due platee distinte e separate: da un lato coloro che vedevano nel lavoro agile la responsabilizzazione del dipendente, la conquista di maggiori libertà di azioni e di tempi, dall’altra parte invece chi vedeva la perdita di ulteriori diritti a causa delle numerose zone d’ombra che si sarebbero create. Mentirei se dicessi di essere un seguace convinto dello smart working, anche alla luce dell’esperienza maturata in questi mesi. Ma credo che sia doveroso procedere con ordine e raccontare quello che è stato il mio rapporto con il lavoro agile.

Come spesso accade i cambiamenti del mondo del lavoro si sovrappongono totalmente (o quasi) ai cambiamenti sociali in cui ci ritroviamo a vivere e anche questo caso non ha fatto eccezione; infatti si è potuto assistere a una graduale trasformazione del modo di intendere e considerare il lavoro man mano che la situazione dei contagi si evolveva. Così dopo settimane di notizie allarmanti, il 10 marzo ci siamo ritrovati in ufficio per discutere di possibili e probabili mosse da intraprendere in caso di una chiusura totale delle città. Quella che potrebbe sembrare una decisione paranoica, nasceva in realtà da quello che chiunque poteva ascoltare al telegiornale, infatti nei giorni precedenti l’Italia settentrionale era stata interessata da notevoli restrizioni e rappresentava un chiaro campanello d’allarme anche per le realtà produttive meridionali.

La scelta era quasi obbligata, quelli che negli anni passati erano risultati “graziosi” uffici, ricavati dai sottoscala o sottotetti scarsamente attrezzati per qualsiasi cosa si sarebbero rilevati in quei giorni ancor più pericolosi, soprattutto a causa delle alte concentrazioni di personale e dell’insalubrità degli ambienti.

Andava così preparato e organizzato il lavoro che si sarebbe svolto da casa, evidenziando la prima grande difficoltà relativa ai dispositivi digitali con cui avremmo dovuto svolgere il lavoro. Ciò che è una convinzione generale molto diffusa e che vede nell’Italia un paese digitalmente avanzato e con un grado elevatissimo di diffusione di dispositivi, in realtà è risultata essere falsa. Così anche nell’ufficio abbiamo assistito ai primi segnali di stratificazione sociale del lavoro.

Una forte dose di irresponsabilità e una ferma convinzione nel presenzialismo più ostinato ha fatto sì che il primo a non credere a qualsiasi forma di lavoro da remoto fosse il nostro stesso (ex)datore di lavoro che ha così demandato a noi dipendenti la gestione e condivisione di quei rari dispositivi portatili in possesso dell’azienda. Come naufraghi in mare aperto abbiamo dovuto operare delle scelte drastiche che ci hanno costretto a fare a meno di molti colleghi, impossibilitati a procedere con il lavoro da casa per mancanza di dispositivi o per altre ragioni strettamente connessi.

Diretta conseguenza di questa prima problematica è stata quella dell’aumento, vertiginoso, del carico di lavoro che in un periodo di scadenze ci ha visto psicologicamente sopraffatti. L’assenza parziale o totale di ulteriori risorse ha portato a molteplici situazioni di stress durate per la quasi totalità della quarantena provocando numerosi scompensi nel viver quotidiano, uno su tutti è quello che ha trasformato i nostri spazi di vita in vere proprie strutture totali. Per quasi tre mesi abbiamo vissuto totalmente le nostre abitazioni e nei nostri spazi angusti abbiamo condiviso spazi e tempi anche con gli altri costringendo a ridefinire il tempo stesso del lavoro e che come conseguenza ci ha portato ad essere reperibili e disponibili a qualsiasi ora della giornata superando spesso le otto ore di lavoro giornaliere.

Anche se è stata un’esperienza breve con la sua intensità ha portato alla luce numerosi spunti riflessivi, uno su tutti che in contesti scarsamente regolamentati – figli soprattutto delle diverse riforme del lavoro – le forme di sfruttamento e di stratificazione risultano essere costanti preoccupanti da cui difficilmente si riesce a sfuggire.