Non è semplice parlare d’amore, scrivere un sentimento come questo è come cercare di definire l’arte: è soggettivo. Da bambini guardavamo i cartoni della Disney e ci mostravano un tipo di amore dove il principe azzurro giungeva in soccorso della principessa di turno; crescendo ci insegnavano che di amore si può parlare solo quando un uomo e una donna decidono di mettere su famiglia, eppure ora che siamo adulti guardandoci intorno vediamo che non è così. Un po’ come la moglie del reverendo Lovejoy ci sono persone che cercano di parlare di amore pensando prima ai bambini, come se il sentimento che provano due uomini o due donne sia diverso. Quasi come se fosse considerato di serie B, eppure anche persone dello stesso sesso si amano e ne soffrono.
La concezione che abbiamo per l’amore è cambiato nel tempo e Alan Moore gli dedicò una poesia; ci ricorda con poche parole come amare fosse una cosa libera, un privilegio per tutti e a nessuno negato Potevano amare un uomo e una donna ed erano liberi di scegliere chi amare! Oggi invece se due uomini decidono di mostrare il loro amore al mondo sentiranno le urla di “Vergogna!” e destino a volte diverso per due donne, perché in quel caso gli stessi guarderanno con interesse Ma cos’è l’amore? Io non so. Diversi autori e registi hanno mostrato cos’è l’amore per loro ma definirlo come se fosse una cosa unica per tutti non è possibile, poiché non esistono delle regole come in matematica. Chi ama lo fa con il proprio cuore, la propria testa e anche se ci mostrano che solo i buoni possono amare se andiamo dietro le quinte vediamo come anche gli antagonisti ne siano capaci. L’AMORE E IL TEMPO Una costante che accompagna l’amore è il tempo e spesso ci immergiamo in storie dove questo sentimento viene definito eterno. Dracula di Bram Stoker direttoda Francis Ford Coppola rientra in questa categoria nonostante il romanzo sia considerato un classico degli horror, poiché il vampiro più famoso della letteratura ritrova il suo amore perduto dopo anni e fa di tutto pur di riaverlo indietro. Nella pellicola questo amore perduto mette in risalto come anche un mostro sia capace di provare questo sentimento e a fare di tutto pur di riconquistare la donna che ha amato in passato e che si è reincarnata in una persona diversa; l’amore quindi non è un’esclusiva degli eroi e dei principi ma anche di chi come Dracula ha rinnegato il bene. Ma la figura di Dracula non è l’unica che affronta il tempo per ritrovare l’amore ma anzi diverse sono le storie dove il protagonista fa lo stesso, come per esempio Takemichi Hanagaki in Tokyo Revengers o Naomi Tagaki in Hello World In Tokyo Revengers il protagonista quando scopre che è in grado di viaggiare nel tempo, decide di voler fare di tutto per salvare la ragazza che ha amato nella sua adolescenza ed è pronto ad affrontare ogni avversità pur di raggiungere il suo scopo; il viaggio temporale che intraprende non è solo per l’amore verso un’altra persona ma anche per se stesso, decidendo così di cambiare il suo atteggiamento di fuggiasco dalla vita. Mentre il manga di Tokyo Revengers è una storia di riscoperta del sé, il protagonista di Hello World mostra un tipo di amore diverso e ci porta in un amore virtuale ma egoistico; Naomi Tagaki entra in una simulazione del passato per incontrare il se stesso con l’obiettivo di risvegliare Ruri, la ragazza che ama, dal coma. Come si può notare di amore non esiste un’unica visione ma diverse e non sempre tutte positive. Perché oggi al mondo l’amore viene insegnato come se fosse un dogma ma non come qualcosa di spontaneo o come un sentimento da vivere, senza pregiudizi. E tutt’ora sono qui, verso la fine a domandarmi: cos’è l’amore? E cos’è per voi?
Il dubbio. Mi ha insegnato con le sue parole tutte incasellate alla perfezione il culto del dubbio. E cioè che anche le nostre certezze più forti possono e devono essere messe in discussione se qualcun’altro o le esperienze della vita ci confidano che forse non è così, che forse le nuvole non sono bianche ma semplicemente assumono il colore del cielo che non è affatto blu. Prima di conoscerlo, sottovalutavo l’importanza del dubbio. Anzi credevo che avere sempre dubbi provocasse l’indecisione cronica. Ed invece ero uno stupido. Il dubbio ti spinge a strabuzzare gli occhi per sentire cosa si dice al di là del nostro naso, a non ascoltare soltanto noi stessi ma anche gli altri, per scoprire, magari, che forse ci sbavagliamo, che il caffè anche freddo può essere buono.
E poi, prima che venga giù il diluvio – pessima idea quella di scrivere fuori al balcone – mi ha insegnato a stravolgere i pieni fatti il giorno precedente. Il protagonista di questo abbecedario, infatti, è un ingegnere che da un giorno all’altro ha abbandonato tutto per inseguire il sogno di raccontare la filosofia e altri fatti meravigliosi utilizzando un linguaggio popolare, distante secoli luce dai salotti buoni della cultura. Io non so se avrò mai la forza e l’ispirazione necessaria per chiudere in una valigia “le sicurezze” e mettermi alla rincorsa dei sogni. Però, anche se lui non lo sa, mi ha trasmesso la forza di incominciare a pensarci su e difatti adesso – mentre vorrei semplicemente riposare in mutande – mi ritrovo a scrivere di getto questa dedica sconclusionata.
Oggi e ieri mi manca. Non siamo mai stati amici – avrebbe potuto darmi almeno due o tre consigli buoni anche su quella ragazza che poi mi ha appeso – però con la sua umanità mi ha accarezzato l’anima anche quando sentivo un groppo in gola. E, infine, per uno come me sempre avverso all’élite della cultura ha rappresentato una speranza. Grazie di cuore per tutto.
C’è soprattutto una barriera che mi provoca lunghissimi attimi di panico ed innumerevoli difficoltà: fare cultura in un piccolo centro, tipo quello in cui vivo consumando serate bevendo birre rigorosamente di tipo industriale.
Senza effettuare troppi voli pirotecnici, mi piacerebbe piazzare delle tele bianche tra i vicoli e scoprire se c’è qualcuno che propone un nuovo punto di vista sul cielo blu oppure noleggiare tre videocamere ed affidarle ai più piccoli e premiare chi riesce a fotografare con l’anima la propria città.
Ed invece siamo ancorati allo stesso punto di decenni fa. Fare cultura in piccole città spesso equivale ad organizzare un convegno che nel migliore dei casi sarà frequentato dai soliti “dinosauri” che magari guardano una faccia di culo come la mia con sdegno e superiorità. Scusate se vi appaio sboccato e incazzato in questo pezzo, però dopo anni di immobilismo e barriere innalzate ad ogni nuova idea, mi sono rotto il cazzo.
Io, invece, vorrei che soprattutto nei paesi si promuovesse il coraggio della cultura. Quella libera da “conoscenze” e lontana dai salotti, quella che puzza di tabacco e di parole magari scritte su di un muro traboccante lontano dalla piazza, quella che potrebbe far capire ai più piccoli che sì, è possibile che qualcuno sogni una principessa non in cerca del principe azzurro e lo esprima attraverso fumetti realizzati su pavimentazioni pubbliche luride.
Sono consapevole che per abbattere questa barriera è necessario molto di più del recovery plan e di un candidato che parli di giovani giusto per accalappiare qualche applauso di uno che casomai pochi minuti prima dormiva in platea. Però sono altrettanto consapevole che per scorgere un po’ di luce sia necessario distruggere questo muro di troppe sagre sconclusionate e dibattiti social. Che poi, vedete bene, far entrare la luce è fondamentale per capire dove pulire meglio e se c’è qualche crepa di troppo. Altrimenti si corre il rischio che da un giorno all’altro crolli tutto. E fare cultura in modo coraggioso è tipo spalancare miliardi di finestre in contemporanea.
Tutti noi facciamo parte di una minoranza. Anche quelli che sbraitano slogan imbecilli in salotti televisivi più vecchi di mia nonna che almeno sa cucire maledetti maglioni che graffiano la pelle. Il problema è che non lo accettiamo, spesso addirittura lo ignoriamo.
Parlo di me, ad esempio. L’altro ieri, mentre pranzavo, mi sono accorto che sono tra i pochi a preferire le patate fritte senza il sale. E non sottovalutate l’impatto che ha avuto questa mia preferenza nella società odierna. Non sono stati pochi gli sfottò ricevuti da parte di chi, anche inconsapevolmente, affermava la sua maggiore intelligenza rispetto alla mia:«Le patatine vanno salate, non esiste alternativa». Ed invece no. Esiste sempre l’alternativa nella vita, anzi la diversità. Che non è un male e nemmeno una brutta parola, anche se in questi giorni tutte le parole sembrano sbagliate quando alziamo gli occhi dal nostro telefono e ci accorgiamo che c’è chi ama diversamente da noi, chi ascolta Gigi D’Alessio mentre io nelle cuffie Gazzelle e Calcutta, chi per andare a correre preferisce indossare un jeans e ‘sti cazzi se per noi è sbagliato.
Però, salvando la libertà di pensiero, c’è anche chi deve romperti per forza i coglioni. Come ad esempio quel mio zio che insiste che devo mangiare la pasta col sugo “perché la mangiano tutti” e non capisce che un giorno di questi gli farò fare la stessa fine del bambino in “Matilde sei mitica”, quello che scoppia di torta al cioccolato. Io credo che fin quando non limito la libertà altrui, il prossimo può fare ciò che vuole. Tutto qua. Sarò stato banale, ma è la risposta che avrei utilizzato anche per confutare la tesi della nota coppia formata da tali Pio e Amedeo. Utilizzare il termine “frocio” è sempre sbagliato, al di là del contesto: è una parola che limita la libertà del nostro prossimo. È non basta riderne sopra, anche se purtroppo scaturisce più risate dei loro film.
Io non riuscivo a ridere quando mi insultavano perché troppo grasso o troppo magro oppure perché scrivevo le poesie mentre bisogna esclusivamente scopare. Io che ho fatto parte di tante minoranze – tifo Benevento ad Avellino – penso che nessuno ha il diritto di romperti il cazzo se per te il cielo non è la casa di Dio ma il mare post sbronza.
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