da Andrea Cerrito | Gen 17, 2022 | Lo sbriglialacci
A tutti noi sarà capitato almeno una volta nella vita di sentirci stanchi senza apparente motivo. Capita, infatti, che una giornata inizi all’insegna della stanchezza e che questa sensazione non vada via. Ma perché, se oggi alla fine non ho fatto niente di così faticoso?
Questa sensazione è diversa dalla tipica stanchezza che si prova al termine della giornata lavorativa. Quando facciamo qualcosa che ci stanca sentiamo il bisogno di riposarci e sappiamo benissimo quello che ci ha stancato. La stanchezza di cui voglio parlare, invece, ci coglie di sorpresa visto che ci sentiamo in dovere di riposarci ma al tempo stesso non sappiamo cosa ci ha stancato e per questo pare che non abbiamo il diritto di rilassarci, e questo ci fa sprofondare ancor di più in quella bolla all’interno della quale tutto sembra stancante e niente può rilassarci di più di come stiamo.
La reazione a questo tipo di sensazione è, come sempre, variegata e unica per ogni individuo; d’altra parte, c’è qualcosa che accomuna tutti. Di solito questo tipo di stanchezza, infatti, irrita: chi lo prova tende a infastidirsi per cose che normalmente passerebbero inosservate. Inoltre, ciò che di solito ci tira su il morale o per cui siamo sempre pronti a metterci in gioco sembra perdere di interesse. L’interesse è perso sia nelle attività che nelle relazioni: la stanchezza di questo genere rende tutto e tutti distanti. Se si prova a fare qualcosa, non ci si riesce a concertare. Insomma, l’unica soluzione rimane sdraiarsi sul divano e guardare la televisione; non un programma in particolare, proprio lo schermo della tv. L’attività di elezione è lo zapping, nessun programma sembra interessarci e quasi pare di andare alla ricerca delle pubblicità che almeno quelle non necessitano di tanta attenzione.
Questa cosa che fin qui ho descritto come stanchezza cronica o insolita ha un nome specifico: anedonia. Il suo significato primario è “l’incapacità di provare piacere per tutti i tipi di attività”, una frase che ben riassume la miriade di micro eventi prima accennati. Questa sensazione può essere scatenata da tanti fattori, non c’è qualcosa di specifico che ci induce a sperimentare l’anedonia. Sta di fatto che questo stato della mente può essere riconosciuto o meno dalla persona che lo sperimenta: c’è chi si accorge di non riuscire a trarre soddisfazione da ciò che normalmente gli piace fare e chi non si rende conto di immergersi in questa “bolla”. Ai primi, il compito di venirne a capo e, anche se fatica, iniziare qualcosa di costruttivo che possa far riemergere dall’anedonia può risultare un compito agevole; per i secondi il passo più complicato è quello di riconoscere l’anedonia. Questo, infatti, vorrebbe significare che la ricerca del relax non ha senso proprio perché è la ricerca stessa a produrre la sensazione di stanchezza; per questo, bisogna fare qualcosa per sentirsi meno stanchi, paradossalmente.
da Andrea Cerrito | Dic 5, 2021 | Lo sbriglialacci
Il termine mappa nel contesto della psicologia rimanda immediatamente ad una specifica area di indagine della (neo)scienza psicologica, vale a dire quella del cognitivismo. A sua volta, la psicologia cognitiva studia soprattutto la mente razionale, quella parte di psiche di cui abbiamo completa consapevolezza, anche se non sappiamo il processo con il quale la conoscenza cognitiva si costruisce.
Ebbene, si può tranquillamente affermare che ogni pensiero razionale utilizza uno specifico tipo di mappa. A differenza delle classiche cartine geografiche che ci affanniamo a leggere quando in viaggio in una città sconosciuta, le mappe mentali non riproducono fedelmente ciò che la nostra vista ha catturato; una mappa mentale si forma grazie all’utilizzo di tutti e 5 i sensi e, per questo, forma una rappresentazione di ciò che abbiamo visto, udito, toccato e assaporato. A queste informazioni “ambientali”, inoltre, si aggiunge un altro tipo di informazioni che derivano non tanto da ciò che abbiamo registrato con i nostri sensi e rappresentato nella nostra mente. In automatico, infatti, la mente umana associa un’emozione ad ogni informazione assimilata dall’esterno; le emozioni associate “distorcono” sensibilmente le informazioni catturate dall’esterno in modo particolare: se durante un viaggio ci ha emozionato visitare una piazza o un museo in modo forte (bello o brutto che sia), avremo una mappa più dettagliata e “grande” di quel luogo, mentre luoghi visitati di fretta o senza interesse avranno uno spazio più “piccolo” nella nostra mappa mentale. Insomma, la scala della mappa mentale non è omogenea come quella delle cartine geografiche ma varia in base alla forza delle emozioni che associamo ai diversi luoghi che visitiamo e si compone anche di suoni, odori e sensazioni tattili.
Come detto, però, non utilizziamo delle mappe solo per rappresentarci un luogo ma usiamo gli stessi meccanismi per immagazzinare qualsiasi tipo di informazione, astratta o concreta che sia. È questo il caso delle mappe concettuali, fondamentali per raccogliere, costruire e ricordare i nostri pensieri. Una mappa concettuale è una rappresentazione dei nostri pensieri; ci sono pensieri che ci rappresentiamo nella nostra mente sotto forma di vere e proprie frasi, pensieri che non sono rappresentabili a parole e quindi vengono immagazzinati sotto forma di immagini, o per meglio dire di scene (filmati piuttosto che foto), pensieri, infine, che nemmeno le immagini riescono a cogliere e quindi vengono rappresentate sotto forma di sensazioni (ad esempio sentimenti, ricordi lontani nel tempo). Tutti questi tipi di pensieri possono essere considerati come i nodi di una rete e, presi separatamente, non avrebbero un senso compiuto, come se mancassero di un pezzettino; il passaggio da pensiero a concetto avviene grazie al tipo di collegamento che effettuiamo tra i diversi pensieri. Il tipo di collegamento tra pensieri determina da sé il senso di un certo concetto mentale e lo stesso pensiero può essere utilizzato per costruire il significato di diversi concetti.
I collegamenti tra i pensieri non vengono creati consapevolmente ma sono l’esito di complessi processi mentali che, in poche parole, coinvolgono tutte le varie funzioni mentali come memoria, attenzione e affetti e fanno sì che un pensiero colleghi due o più nodi della rete menzionata prima. Non a caso il nostro cervello funziona grazie al collegamento dei neuroni che lo compongono e che prende il nome di rete neurale.
La mappa mentale, quindi, organizza la vita mentale, non riproduce fedelmente la realtà ma ne crea delle rappresentazioni personali e uniche per ogni individuo e può essere considerata una specie di rete molto fitta, come quella dei tessuti. E proprio come accade nei maglioni, quando il collegamento tra due nodi è fatto male o ne collega parti “contraddittorie”, iniziano a venir fuori i difetti.
da Andrea Cerrito | Nov 23, 2021 | Lo sbriglialacci
Che cos’è il fallimento?
Una persona decide di fare qualcosa, questo qualcosa ha un obiettivo da raggiungere e per raggiungerlo, appunto, fa delle azioni mirate al soddisfacimento dell’obiettivo. Dopo aver fatto qualcosa la suddetta persona valuta se ha raggiunto l’obiettivo per cui ha intrapreso la serie di azioni messe in pratica per cui, dopo averci ragionato su, percepisce di aver raggiunto l’obiettivo o di averlo mancato, la quale ultima ipotesi ricede appunto nel fallimento.
Messa in questi termini, il fallimento è l’esito di una serie di azioni finalizzate al raggiungimento di obiettivo, la peggiore delle due ipotesi possibili: fallire o riuscire. Una volta presa consapevolezza dell’esito delle proprie azioni, la persona in questione sa se quello che ha fatto è stato utile per sé o meno. Questa consapevolezza, di per sé, non ha un significato predefinito a priori ma viene riempita di significato dalla persona stessa. Il significato derivante può prendere due traiettorie tra loro opposte ma non per questo incontrovertibili. Dopo aver capito di aver fallito, infatti, viene sempre il momento delle riflessione su cosa sia andato storto, ed è questo il momento in cui si può andare verso l’una o l’altra delle traiettorie mentali possibili, avendo sempre la possibilità di invertire la rotta verso l’altra delle traiettorie.
Dicevamo delle traiettorie: queste sono essenzialmente l’arricchimento o la rimuginazione. Se la prima traiettoria deriva dalla riflessione su quanto accaduto e dal suo superamento attraverso la costruzione di alternative tramite l’aver imparato dagli errori, con la rimuginazione accade qualcosa di differente. Rimuginare sulle proprie azioni consiste nel ritornare, mentalmente, su quanto compiuto e soffermarsi sulla sua natura negativa. Questo soffermarsi diventa qualcosa di ripetitivo e insistente, al punto da tingere di negativo anche qualcosa che prima non lo era. La negatività che si abbatte sulle proprie azioni determina una visione di se stessi brutta, svalutata, ci rende incompatibili con le relazioni tra persone. E inoltre, la rimuginazione è un circolo vizioso: non ha vie d’uscita perché essa stessa rappresenta la via d’uscita a qualcosa di più profondo.
Chi rimugina, infatti, non si ritiene degno di essere perdonato: reputa che le azioni che ha commesso siano troppo malvagie e per questo merita solo sdegno. Ciò affonda le sue radici nel passato remoto individuale ma più che parlare di questo è utile comprendere come uscire dal circolo vizioso e prendere la traiettoria alternativa alla rimuginazione, ossia l’arricchimento personale. Questo è possibile ma non semplice, e richiede sempre qualcuno che ci supporta, sia esso un buon amico, un fidanzato o una fidanzata o uno psicologo.
Per rendersi conto di meritarsi il perdono per quel che si è fatto, è necessario riprendere qualcosa a cui, per colpa della rimuginazione, si è perso di vista, vale a dire l’obiettivo che si voleva raggiungere. Chi rimugina, infatti, prova una specie di piacere masochistico a commiserarsi e dimentica il motivo per ci aveva messo in pratica quella serie di azioni tanto deplorevoli. È come se ricordare di aver fatto qualcosa per un fine facesse perdere alla rimuginazione il piacere di autocommiserarsi.
Riprendere possesso dell’obiettivo a cui si mirava significa ricordarsi di aver voluto qualcosa e di aver provato a raggiungerlo. Ciò implica rendersi conto di aver potuto fare altro e apre alla riflessione costruttiva che porta a riconoscere i propri errori e, in seguito, a trovare la giusta via per evitare di commetterli in futuro. In poche parole serve ad arricchire il proprio bagaglio esperienziale per affrontare nuove sfide in futuro.
D’altra parte si sa, sbagliando s’impara! E solo chi sbaglia si concede il lusso di imparare.
da Andrea Cerrito | Nov 8, 2021 | Lo sbriglialacci
L’argomento che con la redazione di Scarpesciuote stiamo affrontando in questi giorni si rifà ad un costrutto fondamentale della mente umana: la funzione riflessiva. Questa funzione mentale è forse l’elemento che più distingue la specie umana dalle altre specie animali.
La funzione riflessiva permette alle persone di capire meglio se stessi tramite la comprensione degli stati mentali di chi ci si trova di fronte. Se l’empatia si riferisce a quella condivisione di emozioni che ci permette di cogliere l’affetto dei nostri interlocutori e di sperimentarlo su noi stessi, la funzione riflessiva si estende anche a caratteristiche più razionali dell’esperienza mentale altrui come, per esempio, le motivazioni e i pensieri associati agli affetti. Il processo mentale che si riferisce alla funzione riflessiva è definito mentalizzazione e rimanda all’idea di comprendere la mente dell’altro che si riflette nella nostra in tutti i suoi aspetti cognitivi e affettivi.
La funzione riflessiva è un costrutto mentale che non si acquisisce dall’oggi al domani ma si costruisce a partire dalle prime interazioni che si hanno a partire dall’età di sei mesi di vita. A questa età, i neonati credono che il mondo interno e quello esterno siano equivalenti, questo vuol dire, ad esempio, che non concepiscono la fame come qualcosa che viene da dentro di sé e che quindi è necessario mettere qualcosa nello stomaco (il latte materno), credono che un agente esterno li stia attaccando e gli stia inducendo malessere. Allo stesso tempo credono che la sazietà non derivi dall’introdurre cibo nel proprio corpo ma che il contenimento generato dall’essere accudito dalla madre estingua quella sensazione spiacevole che creava angoscia (e prima credevano che quella stessa angoscia era colpa della madre che non c’era). Per far fronte a queste angosce impensabili per noi “grandi”, i neonati “fanno finta” che i propri stati mentali stiano al loro esterno e possono essere manipolati con le mani e con i piedi: è per questo che li vediamo intenti a pestare e tamburellare la qualsiasi, utilizzando i giocattoli nei modi più impropri e disparati possibile. Il mondo mentale dei lattanti come evidente, è molto diverso da quello degli adulti ma non per questo meno complicato: i neonati vivono in uno stato mentale simile alla schizofrenia, la differenza con quest’ultimo è che si evolve verso forme più integrate di pensiero mentre la malattia mentale può essere considerata, in un certo senso, come il ritorno a forme di pensiero arcaiche, proprie delle prime fasi di vita.
Difatti, il mondo interno del neonato evolve col passare del tempo grazie alle continue interazioni con le persone che lo accudiscono. Queste interazioni si accompagnano ad uno sviluppo delle diverse abilità fisiche e mentali in parallelo; allo sviluppo degli organi deputati all’emissione dei suoni e alla crescita delle connessioni neurali nel cervello, ad esempio, si sviluppa la capacità di dire parole che, man mano, assumono un significato sempre più specifico. L’insieme dello sviluppo psichico e fisico, dunque, permette al neonato di considerare nello stesso momento quelle sensazioni che prima divideva attraverso l’equivalenza del mondo interno a quello esterno e tramite il gioco del “far finta”. A 4 anni, infine, il bambino è capace di concepirsi come possessore di stati mentali.
Il passo successivo è quello di riconoscere la stessa capacità nelle persone che gli gravitano intorno attraverso la continua interazione con le persone. Interagendo con adulti e bambini, il nostro frugoletto si rende conto che anche gli altri hanno degli stati mentali e che questi ultimi, inoltre, possono avere caratteristiche simili ai suoi stati mentali e altre diverse che, man mano, impara a gestire e utilizzare come regolatori dei propri stati mentali. La funzione riflessiva è questo: regolare i propri stati mentali attraverso il confronto con quelli altrui. Riconoscersi in questo modo ci da la possibilità di capire meglio come noi stessi funzioniamo.
Relazionarsi con gli altri ci permette di conoscere meglio noi stessi, nel bene e nel male. La socialità, positiva o negativa che sia, è alla base della crescita e dello sviluppo della nostra persona.
da Andrea Cerrito | Ott 11, 2021 | Lo sbriglialacci
Instagram, Facebook, Twitter e tutta l’allegra comitiva del mondo social di internet ha creato un luogo etereo in cui ciascuno di noi si immerge con la sua identità, frutto dell’interazione tra esperienze di vita e caratteristiche innate come temperamento e sensibilità agli stimoli. Questo mondo permette a chi ne fa parte di mettere in mostra gli aspetti di sé che ciascuno dei partecipanti ritiene più importanti per permettere al resto della comunità di conoscerlo. Ma perché l’immagine proposta, spesso, si allontana così tanto da quella propinata nel mondo reale e tangibile? Tutto merito del narcisismo…o colpa!
Fin dalla nascita ognuno di noi è impegnato a costruire il mondo in cui vive attraverso la percezione dell’ambiente circostante: quando questo mondo assume una struttura abbastanza stabile (parliamo di un’età che si aggira intorno ai 3 anni) inizia quel processo di costruzione che camminerà in parallelo con noi fino alla fine: la costruzione dell’identità. Questo perché, in poche parole, durante i primi anni di vita impariamo, per prima cosa, che siamo un’entità distinta e fisicamente separata da nostra madre, dalla persona, cioè, che ci nutre sia concretamente che psichicamente. Difatti, oltre al latte, nostra madre ci insegna a pensare nel vero senso della parola e in questa sede sarebbe troppo lungo approfondire il concetto. Sta di fatto che la costruzione dell’identità prende inizio dal momento in cui ci si rende conto di poter fare cose anche lontani dalla mamma e, non a caso, questo processo inizia con la scuola materna, ossia, dal momento in cui entriamo in relazione con altri bambini. Se capiamo che siamo enti separati da nostra madre quando ci rendiamo conto che sappiamo fare delle cose in autonomia (per rendere l’idea, mi riferisco banalmente al momento in cui un bambino impara a mangiare da solo senza dover essere imboccato per forza), ci rendiamo subito conto che ci sono azioni accettate e altre no a partire dalle risposte che nostra madre ci fornisce.
Arriva un momento in cui le risposte materne non bastano semplicemente perché, intanto, il mondo è diventato più grande e si è popolato di altre persone. Per questo ognuno di noi sente di dover cercare conferma della bontà del proprio operato attraverso quello che la gente pensa di ciò che fa. Ma perché è così importante sapere cosa ne pensa la gente di noi?
La risposta sta nel fatto che, per completare quel processo di distinzione dalla propria madre, lo scatto in avanti è costituito in prima istanza dall’innamorarsi di sé. Mi spiego meglio: fino a un certo punto pensavamo fossimo una sola cosa con chi ci dava da mangiare, ci calmava per farci dormire e ci insegnava letteralmente a pensare; poi iniziamo a fare cose autonomamente e il semplice fatto di riuscire a farlo da soli ci piace e ci restituisce la sensazione di poter dominare il mondo (sì, a 2-3 anni ci si sente proprio onnipotenti solo perché siamo riusciti ad inserire il triangolo nel foro giusto del giochino); questa sensazione, perché ci piace, la ricerchiamo e proviamo ad aumentarne l’intensità, per questo abbiamo bisogno che nostra madre confermi la nostra teoria di essere onnipotenti (e lo fa ogni volta che ci dice “Bravooo” ad ogni minima cosa che impariamo a fare); quando il nostro mondo aumenta di popolazione proviamo a ricercare la stessa sensazione ma ci rendiamo conto di non avere a che fare con colei che ci nutre e ci calma e, quindi, impariamo ad ottenere gratificazione per quel che facciamo in modi che, col passare degli anni, diventano sempre più raffinati. Tutto questo polpettone serve a capire cos’è quello che qualcuno più bravo di me ha definito più di 100 anni fa narcisismo primario. Da quel momento la teoria, ovviamente, è cambiata e anche di molto, ma il concetto alla base rimane sempre lo stesso che ho appena descritto.
La gratificazione narcisistica sarà uno dei principali promotori dello sviluppo della nostra identità e sarà uno degli indicatori della forza della nostra personalità. Fin qui abbiamo parlato del narcisismo primario, quello buono per intenderci, non il narcisismo che si può dedurre dal mito greco di Narciso. Quest’ultimo prende vita a partire dal narcisismo sano e se ne discosta per piccole caratteristiche che, coltivate nella psiche, diventano promotori di malessere psicologico. Se la ricerca di gratificazione è secondaria al compimento di un’azione finalizzata a modificare l’ambiente secondo un nostro obiettivo, quando l’obiettivo diventa soltanto quello di sentirsi riconosciuti come “bravi” dagli altri, in quel momento si passa dall’alimentare un narcisismo sano a uno patologico.
Il mondo dei social network permette di mettere in mostra le proprie opinioni in modo più rapido rispetto al mondo reale. La trappola, o meglio il trappolone social, risiede proprio nella facilità con cui è possibile pubblicare contenuti al solo scopo di ottenere un “Like”, un commento o un’interazione virtuale, lasciando in secondo piano ciò che dovrebbe essere più importante: esprimersi per apportare modifiche al mondo secondo un obiettivo prefissato.
I social network, di per sé, non sono intrinsecamente programmati per permettere l’autoesaltazione a tutti i costi. Il problema è che chi li ha diffusi non si è reso conto che il meccanismo alla loro base ricalca un processo mentale che sta alla base della vita psichica e della costruzione dell’identità; un qualcosa che noi operiamo senza nemmeno rendercene conto fin dai primi giorni della nostra esistenza, nessuno escluso!
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