Il tema della rinuncia è di strettissima attualità, considerando le rinunce che abbiamo dovuto affrontare nel primo lockdown, quelle che stiamo affrontando oggi e quelle che si prospettano nel futuro prossimo (vedi Natale). Rinunciare vuol dire “fare a meno di qualcosa che si sente ci appartenga di diritto”, in tal senso va dunque distinta la rinuncia come scelta consapevole dalle conseguenze, a breve ed a lungo termine, che essa comporta. Difatti, scegliere di rinunciare alla partita di calcetto o di andare allo stadio, rinunciare alla passeggiata o all’aperitivo tra amici e, più in generale, rinunciare a qualcosa che ci fa sentire bene può dare, all’inizio, una sensazione di euforia derivante dalla percezione di essere stoici, di poter perseguire un obiettivo sublime (quello della salute della comunità) in luogo di un piacere individuale; tutti noi, chi più chi meno, si è affacciato al balcone, a cavallo tra l’inverno e la primavera di quest’anno, fieri di contribuire al bene comune all’insegna del motto “andrà tutto bene”. Tuttavia, lo stoicismo presenta il conto prima o poi! Perché sentirsi stoici è bello, ma rinunciare al soddisfacimento delle proprie esigenze, alla lunga, stanca. La progressiva chiusura delle diverse attività commerciali corre di pari passo con la progressione delle rinunce che ognuno di noi sta compiendo: dalle attività sportive e ricreative si è passati per Pasqua e Pasquetta, compleanni, anniversari, e chi più ne ha più ne metta. È possibile affermare che il processo di graduale rinuncia abbia potuto condurre qualcuno a rinunciare alla speranza che prima o poi tutto finisca, a rinunciare, insomma, a tutte le aree della vita. Questo è il meccanismo alla base del disturbo psichico che caratterizza la nostra era: la depressione. È un po’ come se il lockdown abbia costretto tutti a sperimentare il vissuto depressivo in modo diverso per ciascuno di noi.
Rene Magritte (1898-1967), The Happy Donor, 1966, oil on canvas. [Brussels, Musee D’Ixelles (Municipal Museum, Art Museum)]
Rinunciare a qualcosa vuole anche dire sentirne la mancanza; questo termine indica qualcosa che non c’è ma che potrebbe esserci. Freud affermava che l’uomo, fin dalla nascita, è alla ricerca costante di un “oggetto perduto da sempre” e che il suo ritrovamento consiste nella scoperta di qualcosa che non si è mai avuto; Lacan, in epoca contemporanea, elabora il concetto del padre della psicoanalisi postulando che questo oggetto, perduto da sempre, diventa l’“oggetto causa del desiderio”. Alla base della vita psichica, propria della specie umana, vi è, dunque, la sensazione di “mancare di qualcosa”, questa stessa sensazione conduce l’individuo alla ricerca di un oggetto che, non essendo mai stato in nostro possesso, diventa esso (o egli) stesso la causa del desiderio: il desiderio di conoscere, di apprendere, di crescere e di evolversi come persona e come comunità. E il primo passo in avanti dello sviluppo psichico avviene quando il neonato impara a rinunciare all’immediato soddisfacimento dei bisogni (inteso qui come nutrimento o interazione con la madre), e ognuno di noi ha imparato a farlo tra i 3 e i 10 mesi di vita circa.
Noi tutti, quindi, siamo alle prese con la rinuncia fin da tempi immemorabili! L’imposizione dall’alto, tuttavia, rende la mancanza, che esita dalla rinuncia, un concetto attraverso il quale ci si può facilmente adagiare nei vissuti depressivi visto che si rinuncia per il bene dello Stato. Un metodo efficace per evitare di chiudersi a casa e abbandonare ogni speranza (o noi che siamo entrati nella seconda ondata pandemica)? Desiderare: qualcosa, qualcuno…tutto! Purché si desideri.
“Non so perché ma il covid mi ha fatto sempre pensare ai genitori che dall’oggi al domani si sono ritrovati a non sapere come mettere al riparo i propri figli da questa minaccia invisibile”
Per raccontare il Covid da una prospettiva psicologica, ho scelto di narrare un intervento di sostegno che ho svolto nell’immediato post lockdown all’interno di un progetto rivolto alle famiglie con figli a carico, denominato per l’appunto, “Servizio Famiglie”, messo a punto dal dipartimento di Psicologia dell’università Sapienza di Roma, rivolto alle famiglie di tutta Italia che hanno avuto problemi nella gestione dei propri figli durante i mesi di marzo e aprile (per chi volesse cercarlo, basta scrivere su Google “servizio famiglie sapienza”). Visto il buon riscontro, il servizio è ancora attivo, la modalità online permette, inoltre, di raggiungere qualsiasi famiglia in Italia. L’idea è nata dalla considerazione che l’obbligo di rimanere a casa per tanto tempo ha destabilizzato le abitudini delle famiglie che, tutto d’un colpo, si sono ritrovate a convivere a contatto diretto e prolungato. L’equilibrio familiare si fonda, infatti, su una serie di metodi di gestione dei conflitti e delle diverse visioni del mondo dei componenti della famiglia che, quando vengono meno, lasciano salire a galla i problemi che da una parte, generano disagi psicologici in chi li esperisce, dall’altra, mettono i conviventi nella difficile posizione di dover trovare una soluzione a questi problemi senza gli strumenti (routine familiari, abitudini eccetera) che di solito venivano usati.
L’intervento è consistito in tre colloqui via Google Meet, con padre e madre della famiglia, più uno per la verifica della bontà dell’intervento stesso. La finalità è quella di fornire dei consigli e dei suggerimenti sul da farsi e di verificarne, dopo un mese, la validità.
Per questioni legate alla privacy cambierò nomi e luoghi di provenienza.
Vengo contattato da una famiglia di Olbia, i genitori si dicono molto preoccupati per il comportamento che il figlio più piccolo dei loro tre sta avendo dall’inizio del lockdown. In particolare, questo bambino, che chiameremo Matteo, ha perso ogni interesse nelle attività scolastiche e nella vita familiare in generale, si lamenta tanto per piccole cose ogni giorno, ha degli scatti d’ira che lo portano a gridare contro chiunque voglia suggerirgli qualcosa da fare (sia esso svago o studio) ed è arrivato a minacciare di morte i familiari che lo importunano, alternando tali minacce a frasi del tipo “voglio morire” oppure “ voi (genitori) mi state soffocando”.
Prima del fatidico 10 marzo 2020, la routine di Matteo, che ha 8 anni, prevedeva sveglia alle 7.30, colazione, scuola, pranzo, compiti, svago, uscite pomeridiane (quando il tempo lo permette), altri compiti, videogiochi, cena, tv, nanna; i fratelli frequentano la prima e la terza superiore, con loro ha sempre avuto un buon rapporto, sebbene con il fratello maggiore siano frequenti gli scontri, anche fisici, che si risolvono sempre in gioco…fino alla fase 1. Ciò che più gli dava fastidio di questa fase 1, raccontano i genitori, è il fatto di non avere più contatti con gli amici di scuola e con le maestre, di non poter studiare come fanno i fratelli più grandi visto che a lui i compiti arrivano dal registro elettronico e non fa lezione online. Questa differenza è bastata ad impedire a Matteo di riconoscere il suo spazio nella famiglia e a sentirsi maltrattato da qualcosa che, non avendo forma ben definita, è diventata l’autorità dei genitori.
La mia impressione è stata che questa visione del mondo di Matteo fosse stata enfatizzata dal modo con cui i genitori e i fratelli hanno provato a far fronte alle difficoltà del bambino: la prima reazione, infatti, è stata quella di usare toni severi e imposizioni rigide tipo “fai i compiti o le prendi di santa ragione” dai genitori e “di che ti lamenti? Sei fortunato, noi invece siamo costretti ad andare a scuola anche a distanza” da parte dei fratelli. Questi modi hanno inasprito lo scontro anziché sedarlo.
Per cercare di porre un rimedio a questa situazione, ho rimandato la mia impressione clinica e gli ho suggerito di provare a costruire una nuova routine giornaliera per il figlioletto, fatta di attività previste e prevedibili; inoltre, per fargli capire cosa stesse succedendo intorno a lui, ho detto loro di spiegare il Covid attraverso storie di fantasia o esempi storici come la febbre spagnola (sfruttando la passione del bambino per le materie di studio e, in particolare, per la storia) e di provare a contattare le maestre di Matteo e farle parlare con lui; infine, per allentare un po’ la presa, gli ho detto di concedergli qualche momento in più di gioco ai videogames, una concessione straordinaria per un evento straordinario.
L’incontro di revisione, dopo un mese, ha restituito l’immagine di un bambino dalla felicità e dalla spensieratezza ritrovata, l’allentamento delle misure, unito al meteo, che ha permesso a questa famiglia di poter andare al mare, hanno favorito una ripresa graduale in Matteo. I comportamenti di protesta e di richiamo dell’attenzione su di sé sono scomparsi dopo poco, fare attività calendarizzate (i pomeriggi a giorni alterni al mare, i giochi di società tutti in famiglia il venerdì sera e altro) ha restituito l’idea di una vita organizzata e gli ha permesso di riconoscere nuovamente lo spazio che ha nella famiglia e, più in generale, nel mondo.
Questa breve storia dimostra come gli individui più fragili alle conseguenze psicologiche del lockdown siano stati i giovani, giovanissimi in particolar modo; di rimando, poi, i genitori, essendo anch’essi presi di sorpresa dall’evento pandemia, non hanno avuto gli strumenti necessari a fronteggiare le nuove esigenze dei figli, avendo anche loro problemi imprevisti da risolvere a cui si sono sommati questo tipo di problemi familiari.
Mai come adesso risuonano appropriati i primi versi della “Canzona di Bacco” di Lorenzo De Medici:
Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia! Chi vuole esser lieto, sia, di doman non c’è certezza.
A me il virus non fa paura. Cioè sì, è ovvio che mi faccia paura, e già mi sale l’ansia solo al pensiero, però, oltre all’ultimo film di Vanzina, mi causa più terrore un possibile ritorno del famigerato “lockdown”. L’ipotesi che io possa stare altri due mesi in esclusiva compagnia di me stesso mi fa accapponare la pelle. Ricordo, con un certo saporaccio in bocca, che talmente dall’esaurimento, verso metà aprile, all’improvviso pensai che il personaggio di “Baywatch” Mitch (vado un attimo su Google) Buchannon (spero lo abbia copiato bene) avrebbe avuto il sacrosanto diritto di essere incluso nella squadra degli “Avengers”. In fondo anche lui è un supereroe, soprattutto per uno come me che non sa nuotare.
È innegabile che dopo le prime settimane in cui pizze, urla a casaccio dai balconi, la solita storiella della solidarietà (se solo fosse vera e disinteressata), ci siamo rotti i coglioni. Vabbè, lo ammetto: è che a me questa quarantena mi ha convinto di aver voglia di stare con gli altri. E questa nuova consapevolezza mi ha fatto crollare un muro di certezze che giorno dopo giorno avevo costruito con pazienza e tempo infinito dedicato a film, libri, musica e sì, almeno nel week end, qualche comparsata sociale. Poi ho avvertito la mancanza dei discorsi stupidi che affrontiamo quando un po’ tutti siamo scoglionati e non vediamo l’ora che qualcuno si alzi e dica: “Che ne dite di sciogliere la seduta?”. Figuratevi, ad una certa ho provato una forte malinconia nel notare l’assenza della fatidica domanda: “Che facciamo stasera?”. Sbattevo come un pazzo la testa contro il muro –che clichè di merda- e più Conte emanava DPCM e più io avrei abbracciato chiunque. Nel momento in cui non ero costretto ad utilizzare scuse per non uscire dal mio mondo, avrei dato qualsiasi cosa in cambio (tranne il mio pupazzo di Homer) per chiedere scusa a tutti i miei affetti più cari per tutte le volte che ho respinto le loro offerte di birra e altre cose.
Quindi sì, la quarantena, credo, mi abbia reso un uomo migliore: un uomo capace di accettare che abbiamo voglia e necessità di condividere anche uno stupido momento insieme ad un’altra persona. Maledetto Covid: hai ribaltato uno dei miei dogma.
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