Guardandomi intorno non faccio altro che notare come la società stia andando verso una deriva nichilista. La realtà non fa altro che mostrare come l’uomo si stia deresponsabilizzando di ogni cosa e questo è ciò che più mi fa paura. Nel 2019 Alan Moore veniva intervistato da un giornale francese su varie tematiche, tra cui il rapporto che ha oggi il cinema con la società e del declino della cultura cinematografica e la conseguente deresponsabilizzazione della società; negli ultimi tempi, a distanza di due anni da questa serie di interviste, è possibile scorgere come questa tematica si stia diffondendo a macchia d’olio: dai governi fino ai nuclei familiari e passando per i rapporti sociali. E chi ne risente di questa situazione siamo noi giovani, visti come vittime e colpevoli di un futuro sempre più buio. E questa situazione va ad influenzare anche i media, che diventano i diretti responsabili di ogni male che affligge la società. Columbine Il 20 Aprile 1999 due studenti si introdussero nella Columbine High School armati e con l’intenzione di uccidere e ferire più persone possibili. Ci furono 39 vittime, 15 morti e 24 feriti, in quella giornata e alcune notizie dell’accaduto riportavano la causa di questa insensata violenza ai videogiochi e alla musica. Indagini post attentato portarono all’attenzione dei media i gusti musicali dei due attentatori (che si suicidarono prima dell’arrivo della SWAT e della polizia) e diversi gruppi musicali, Marilyn Manson e Rammstein per citarne qualcuno, furono presi di mira dalle critiche e accusati di aver influenzato con i loro testi i due ragazzi e cercando di sviare l’attenzione da un problema assai più grande che affligge una parte dei ragazzi e ragazze in adolescenza : il bullismo. Oltre al bullismo anche la facilità con cui si può reperire delle armi da fuoco è una piaga che affligge gli Stati Uniti ma i media in quel periodo iniziarono una grande crociata di deresponsabilizzazione sociale; in fin dei conti il bullismo è un problema che esiste da anni e ancora si legge di ragazz* che sono vittime di questo fenomeno sociale e in alcuni casi, come è avvenuto per Harris e Klebold, reagiscono o con il suicidio o l’omicidio ed in entrambi i casi il problema viene messo in secondo piano e analizzate le passioni delle vittime/carnefici, creando un disegno delle persone e delle situazioni non reale. Come ha rilasciato in un’intervista il cantante Marilyn Manson “Non gli avrei detto niente… Avrei ascoltato cosa avevano da dire, cosa che nessuno ha fatto” e spesso le vittime di crimini non vengono ascoltate ma anzi accusate spesso di essere deboli o aver cercato determinate situazioni. E questa società ogni giorno che passa continua con questo atteggiamento colpevolizzante della vittima. It’s a game Quest’anno su Netflix è uscita una serie coreana che ha avuto un enorme successo tra gli amanti della serie tv : Squid Game. Il successo della serie, credo, sia dovuto alla trama e alla critica che muove nei confronti di una società sempre più cannibale e isolante, dove tutti sono pronti a sopraffare il prossimo per puro egoismo e allo stesso tempo si diventa sempre meno propensi ad aiutare il prossimo. La serie è ambientata nella Corea del Sud e vede diversi personaggi intenti a gareggiare in giochi per bambini con l’obiettivo di vincere 45600000000 ₩ ma le varie attività ludiche richiamano solo il ricordo dell’infanzia, poiché i concorrenti sono “costretti” ad affrontare le varie prove mettendo in palio la propria vita. Tutti i partecipanti sono uomini e donne che si sono indebitati pur di vivere una vita che non rispecchia la realtà, vivere in un fittizio lusso per dare l’illusione di possedere delle ricchezze che non esistono. E noi, anche se non siamo partecipanti dello Squid Game come loro, cerchiamo sempre di mostrare un qualcosa di noi che non ci rispecchia; siamo pronti a mostrare vestiti di marca, modelli di smartphone di ultima generazione e viaggi in terre lontane per ottenere delle semplici approvazioni dagli altri. E a volte capita che per mostrare queste cose, vogliamo nascondere la realtà dei fatti. Che siamo soli, che abbiamo magari bisogno di un supporto e che tutto ciò che mostriamo non ci appartiene realmente; eppure siamo pronti a vestirci con abiti altrui, solo nel successo e non nel bisogno. Squid Game oltre ad essere una spietata critica per questa società, ha subito a sua volta delle accuse da parte di alcuni genitori per la violenza mostrata nella serie; la cosa che però mi ha fatto sorridere e preoccupare allo stesso tempo, è stata la richiesta di eliminare il prodotto da una piattaforma di streaming a pagamento e che dà la possibilità di inserire dei filtri per i bambini ed evitare che determinate serie o film siano visibili a loro. Questa richiesta è stata effettuata dopo vari episodi di violenza tra minorenni, in alcuni ambienti scolastici e tutti questi episodi per i genitori protestanti erano da imputare a “Squid Game”; ma prima della serie coreana, sotto l’accusa di diffondere violenza e traviare i minorenni, ci sono passati i videogiochi. Da sempre mi sembra che i videogiochi siano il medium principale da accusare per qualsiasi problema familiare o esterno alla famiglia, mentre ammettere che non si è in grado di essere un genitore esemplare sia troppo complesso e difficile; in fin dei conti nessuno insegna o fa capire che ricoprire il ruolo di genitore, la figura che dovrebbe essere in grado di spiegarci le cose più semplici quando siamo piccoli, sia così facile ma oggi sembra che ogni cosa viene demandata ad altro e se non è funzionante, si passa all’accusa di stimolare violenza o altro male. Squid Game è l’ultimo dei prodotti culturali della nostra società ad essere stato accusato ma sicuramente nei prossimi anni a venire, ci saranno altri media o prodotti che verranno responsabilizzati del malfunzionamento della società. Quando siamo noi e solo noi i primi che non siamo responsabili di chi ci circonda e di cosa siamo capaci e non di fare.
Quando ero più piccola, passavo moltissimo tempo, troppo, chiusa nella mia stanza e rinchiusa nei miei pensieri. Erano momenti di estrema sofferenza, trascorsi a declinare la lista delle cose che non andavano bene nella mia vita. Mi sentivo inadeguata, incompresa, a tratti sfortunata e soprattutto diversa da tutto il resto del mondo. La mia condizione da sfigata era solo la mia e di nessun altro. Quasi la proteggevo, perché — questo lo affermo a posteriori — essere la poverina di turno rendeva le cose più facili.
Convincersi che tutto il male del mondo sia stato dirottato contro la tua persona, non è altro che il modo più semplice per sottrarsi agli impegni/doveri della vita. Una giustificazione, insomma, identica a quella che i nostri genitori ci scrivevano sul diario quando non riuscivamo a fare i compiti.
Con la maturità, poi, si comprende che esistono situazioni peggiori delle nostre e soprattutto che non siamo unici. Pertanto, le mie riflessioni di anno in anno sono diventate sempre più brevi e meno catastrofiche. Ciò non vuol dire che abbiano perso spessore. Sono diventate semplicemente leggere.
Leggerezza, che bella parola vero? In parte la leggerezza, quella totale, resta qualcosa di irraggiungibile anche per me. C’è, però, un modo per rendere il bagaglio di problemi, impegni, doveri che ci portiamo dietro più leggero. Sto parlando del dialogo e della condivisione. Comunicare, per dirla in un’unica parola.
Quando ero più piccola, mi chiudevo in una stanza e, ogni volta, intraprendevo un viaggio in solitaria, in cui sentivo tutto il peso del mio bagaglio. Un peso soffocante, che mi ammutoliva. A casa piangevo e fuori dalla mia stanza ero una ragazzina silente, timida, che non conosceva il peso della valigia dei suoi amici, anzi probabilmente credeva che gli altri non ne avessero una.
Ora, invece, tutto è diverso. Le esperienze mi hanno cambiata, fortificata e in una stanza, da sola, ci resto pochissime volte. Un po’ per forza maggiore, trascinata via dai mille impegni che non lasciano il tempo di respirare, un po’ per scelta. A fine giornata, ho già riflettuto. L’ho fatto in compagnia, condividendo i miei pensieri, problemi, pareri con le persone che mi affiancano durante tutta la giornata. E loro hanno fatto lo stesso con me.
Quella del condividere, del confrontarsi, è una pratica molto efficace che consente di dilatare la tua visuale e renderti conto che “solo” è diventata una parola quasi arcaica. I tuoi problemi sono gli stessi del tuo vicino e anche di quello accanto e quello accanto ancora. Questo avviene perché la maggior parte delle problematiche che ci affliggono sono figlie della società in cui viviamo e, in quanto tali, sono enormi, insormontabili. Non dipendono da noi, dalle nostre scelte, ma da fattori esterni difficilmente gestibili. Di fronte ad essi possiamo chiuderci in una stanza a piangere soli oppure sentirsi meno soli parlandone con qualcuno.
Comunicare è la parola chiave per intraprendere, questa volta, un viaggio in compagnia dove non esiste la mia pesantissima valigia e la tua, sicuramente più leggera. In questo viaggio la mia valigia è anche la tua e portarla insieme rende tutto più leggero.
«Alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena
Potete stare a galla
E non è colpa mia se esistono carnefici
Se esiste l’imbecillità
Se le panchine sono piene di gente che sta male»
Sono in pullman e sono appena partito dalla stazione di Piazza Garibaldi, di ritorno da Napoli, quando il mio vecchio mp3, prima ancora degli spotify e dei deezer di turno, decide di farmi una sorpresa con la sua riproduzione casuale. Lascia risuonare, tra le cuffie consumate dai troppi viaggi, le prime note di Up patriots to arms di Franco Battiato.
Ho la testa poggiata sul vetro del pullman, come non mi capitava da anni, da quando ritornavo dall’università, dopo aver passato un’intera giornata a Napoli. Il vetro del mezzo e i miei occhiali sono in estasi, accolgono e riflettono le luci delle macchine e dei motorini che sfrecciano a destra e a sinistra.
La città, come sempre a quell’ora, sembra fatta di auto, di ingorghi stradali, di motorini che azzardano manovre, di venditori ambulanti che raccolgono nelle solite buste color azzurro la mercanzia invenduta, di impiegati ostinati a non staccare il proprio orecchio dal telefono.
Sono bastati due metri di altezza per farci percepire quel mondo, improvviso e brulicante, come un qualcosa di distante, di non nostro. Protetti dalla nostra distanza dal suolo ci sentiamo al sicuro, ma soprattutto non coinvolti. Non era necessario abitare un monte o il regno dei cieli per provare quella sensazione, sarebbero bastati due metri, per vivere il distacco da tutto quello che accade intorno.
Il mio momento di distratta solitudine si conclude altrettanto improvvisamente. Mentre Battiato inizia a cantare il ritornello, comincio a notare che quelle figure così sfuggenti e così distanti sono delle persone. Persone con una loro vita, con i loro momenti felici e con le loro preoccupazioni.
Quest’ultima frase nasconde in sé una grande bugia: non mi capita quasi mai di immaginare gli altri nei momenti felici. Sia ben chiaro, non è certo per un istito sadico o per altro, ma è per merito di una consapevolezza che ognuno di noi, nei nostri momenti pubblici e sociali, tende a mostrare quasi sempre una sola parte di sé, ovvero quella che ci spinge a dire che va tutto bene e che non ci sono problemi. Tendiamo a nascondere le nostre vulnerabilità come se fossero dei gravi e irreparabili peccati originali.
Così, come dall’alto di quel pullman diventa difficile distinguere ogni singola persona per la propria esistenza, così diventa difficile mostrarsi vulnerabili. Mostrarsi per quello che si è in quel momento diventa un grave problema che ci potrebbe rendere deboli davanti agli occhi di un possibile nemico e quindi continuiamo a sorridere, facendo finta di niente.
Eppure guardandoci intorno, con maggiore attenzione, potremmo finalmente comprendere che molti vivono momenti di difficoltà. Non è necessario andare lontano, potrebbe essere sufficiente andare oltre il nostro naso per riscoprire che la vulnerabilità fa parte del nostro quotidiano. Vulnerabili sono i nostri cari, nelle loro giornate passate lontano da noi, ma lo sono anche i nostri amici nel loro silenzio resistente ed infine lo siamo noi che ci troviamo di fronte a tutto ciò e ci sentiamo soli ed impotenti.
Così mentre Battiato ripete un’ultima volta il ritornello, capisco che basterebbe non soffermarsi ad una prima risposta, ad una prima vista per comprendere il reale stato delle cose e che forse è da queste pratiche che potrebbe partire una risposta reale, capace di coinvolgere e aiutare tanti di noi a reagire.
Molto spesso ci capita di passare del tempo assorti nei nostri pensieri e nelle nostre preoccupazioni. Riflettiamo in silenzio e, in contemporanea, passiamo in rassegna tutte le nostre difficoltà e gli incredibili ostacoli che dobbiamo affrontare. Ci capita molto spesso, di ritrovarci impotenti davanti a quest’ultime.
Allora ci riscopriamo soli e, a volte, destinatari diretti di tutte le sciagure di questo mondo.
Ma non ci vuole molto per destarci dai nostri pensieri e ritornare nel presente. Un risveglio che in alcuni casi può sembrare traumatico. La pace delle nostre riflessioni è sin da subito scossa dalla velocità con cui la realtà che ci circonda si muove.
Il nostro essere completamente figure sociali ci rende attenti e sensibili alle dinamiche altrui; così ci rendiamo conto che quegli incredibili pensieri che ci hanno spinto ad isolarci e a perderci nelle nostre solitudini fanno parte di un ventaglio più ampio che interessa e coinvolge anche gli altri.
Riscopriamo così di essere tutti nella stessa forma vulnerabili. Comprendiamo infine le diverse forme di difficoltà che ci accompagnano lungo tutte le nostre vite.
Così per queste due settimane ci vorremmo concentrare su queste e sulle capacità che ognuno di noi e di voi hanno per farvi fronte.
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