Da emarginato ad eroe

Da emarginato ad eroe

La parola emarginare deriva dal francese émarger ed in genere è utilizzata per indicare una persona, gruppo o comportamento non accettato dalla società. Tutti ,chi più e chi meno, si è ritrovato in questa situazione o ha visto qualcuno che veniva emarginato. E la parte che più spaventa è la quasi totale accettazione di questa condizione. Siamo quasi abituati a rimanere tra le nostre mura mentali ed ignorare ciò che ci circonda che accettiamo e andiamo avanti o aspettiamo che siano altri a risolvere la situazione.
Anche nei prodotti culturali, come il cinema o le graphic novel, viene vista come una tematica spinosa e spesso è possibile vedere l’evoluzione che compie il protagonista da emarginato ad eroe; di film, fumetti, videogiochi o serie siamo pieni e spesso l’emarginazione è l’inizio della storia. Di seguito vi parlerò di 47 Ronin e di I Kill Giants,e di come il concetto e la prospettiva sull’argomento possa cambiare a seconda della situazione del protagonista o della protagonista

La locandina del film 47 Ronin con Keanu Reeves

Questione di onore ed emarginazione

Nel 2013 nelle sale cinematografiche usciva il film 47 Ronin di Carl Rinsch e con Keanu Reeves. Visto qualche giorno fa su Netflix, il film è ambientato in Giappone durante lo shogunato di Tokugawa Tsunayoshi e precisamente nel dominio di Akō e ci viene mostrato come il governo dell’epoca e le tradizioni fossero dei pilastri della società giapponese. Nella pellicola l’attore Keanu Reeves interpreta un giovane emarginato di nome Kai e la motivazione dietro questa situazione la notiamo dalle sue origini: non è un giapponese puro sangue ma mezzo giapponese e mezzo inglese. Per l’epoca (ma anche oggi per alcuni individui) il non essere un “purosangue” era un motivo più che valido per non accettare la sua presenza e come si denota nel film, la situazione di Kai lo portava ad essere una figura molto servizievole nei confronti dei giapponesi. Questo aspetto del carattere di Kai era dovuto anche alla gentilezza che il daimyō Asano Naganori gli ha mostrato in tenera età. L’onore è una caratteristica che nella società giapponese viene considerata importante, figlio di una serie di tradizioni che arrivano dall’unificazione del Giappone e dallo shogunato di Tokugawa Ieyasu; una tradizione che oggi si è persa però è la figura del samurai, i membri della casta militare del Giappone feudale e i quali prestavano fedeltà ai daimyō; il film qui citato oltre a mostrarci come essere figli di una relazione “non pura” portava ad una vita di emarginazione, ci descrive anche la situazione in cui i samurai non erano riconosciuti più come tali ed erano costretti a vivere come ronin. Per un samurai diventare ronin indicava due situazioni : la morte del daimyō o aver perso la fiducia di quest’ultimo.
Nel film Kai riesce a passare dallo stato di emarginato di corte ad eroe proprio per la decadenza del titolo di samurai che colpisce Kuranosuke Oishi e i suoi uomini dopo che il daimyō Asano è costretto a fare seppuku. Durante il periodo Edo il seppuku fu riconosciuto come un rituale del suicidio che portava a lasciare intatto l’onore del samurai che lo praticava.
L’onore anche dopo la morte verso il proprio signore porta Oishi e gli altri Ronin ad accettare la presenza di Kai, la stessa figura che in passato hanno rinnegato ed emarginato. 
E l’onore è il motore che porta ad evolvere tutta la trama del film, portando un emarginato a diventare samurai ed entrare nella tradizione del paese.

Kai firma l’accordo con gli altri ronin, elevandolo dallo stato di emarginato

A caccia di giganti

Cambiamo epoca e nazione. Il film a differenza di 47 Ronin non viene distribuito al cinema ma viene rilasciato sulla piattaforma di streaming Netflix. Ci troviamo negli Stati Uniti e la protagonista di questo film, tratto dal fumetto I Kill Giants di Joe Kellyè una bambina di nome Barbara. Non ha amici e si estranea dalla realtà giocando a D&D e immaginando di uccidere giganti nella foresta della cittadina, ergendosi a paladina della propria città. Per questo suo modo di vivere, viene emarginata a scuola e tutti gli studenti la definiscono strana; ma il suo estraniarsi dalla realtà, fuggire in reami lontani con la fantasia non sono altro che degli strumenti di difesa che utilizza per proteggersi da altre realtà: la famiglia. No, nessun problema di violenza domestica o simili ma dei problemi gravi che la portano ad accettare il suo stato di emarginata e ad alienarsi alla sua età, evitando qualsiasi tipo di relazione sociale. I giganti che lei dice di abbattere ed affrontare, sono quei problemi o quelle situazioni scomode che tutti noi magari affrontiamo quotidianamente e che cerchiamo di nascondere sotto al tappeto, aspettando che si risolvano; mentre noi, volontariamente o no, nascondiamo e fingiamo che questi giganti non esistano la piccola Barbara è pronta ad affrontarli e sacrificarsi, per i suoi affetti e i suoi ricordi. Armata del suo martello Coveleski, chiamato in onore del giocatore di baseball, non perde mai il coraggio di affrontare un gigante in battaglia e dimostra di essere all’altezza per situazioni e sfide che chiunque altro non saprebbe affrontare.
I Kill Giants è prima una storia  e poi un insegnamento che dovrebbe mostrarci come non giudicare gli altri, senza sapere le storie o le situazioni che vivono ma che purtroppo ci risulta difficile seguire. I giganti esistono e solo noi possiamo fare qualcosa per sconfiggerli, trovando il coraggio per affrontare le nostre più grandi paure o fronteggiando quelle situazioni inevitabili che ci portano ad allontanarci da chi in fin dei conti ci vuole bene.

La copertina del fumetto di Joe Kelly

Il tempo passa e il problema resta

Dal Giappone feudale ad oggi, il problema dell’emarginazione resta. In passato la motivazione poteva nascere dalla paura per il diverso e per l’ignoto, per quelle culture o popolazioni che si conoscevano attraverso i racconti dei mercanti come per esempio il pensiero che i gatti neri portino sfortuna ma questa credenza ha origine durante il periodo delle crociate e all’epoca avvistare un gatto nero indicava la presenza di saraceni in zona; oggi viviamo nella stessa situazione nonostante gli strumenti per la comunicazione e la conoscenza dell’altro siano migliorate, basti pensare come le immagini di profughi siano sommersi di commenti quasi increduli, come se scappare dalla guerra non sia una motivazione valida per sopravvivere ma sia una certezza per emarginare. L’emarginazione può colpire tutti, non importa dove sei nato, come sei cresciuto, cosa hai studiato o come ti identifichi; oggi molti combattono questo problema con la speranza di lasciare un futuro più radioso, in cui nessuno possa avere paura di esporsi. Nel nostro paese c’è chi sta operando perché determinate situazioni, atteggiamenti non si ripetano; si ha sempre più bisogno di leggi contro l’omotransfobia, contro la discriminazione, contro il diverso. Oggi siamo tutti emarginati e dobbiamo lottare insieme per migliorarci, per creare una società in cui la paura sia solo un ricordo.

Play flying inside

Play flying inside

Notte di Beddoes
J. Arabia

Come un enorme Uccello che s’interpone
tra il sole e la specie,
arriva l’antica notte
con il suo occhio rannuvolato
e le sue gelate di granchio.

La stessa notte di Caedmon,
in cui i fuggitivi trovarono riposo.
La stessa notte di Blake,
in cui i lupi e le tigri ulularono
sperando d’incontrare il loro destino.

Cade con una vista accecante.
cade sugli uomini selvaggi
che cantarono e ballarono sulla
baia verde, le coste del loro andare.

La stessa notte di Whitman,
in cui descrisse le pallide
facce degli emarginati.
La stessa notte di Beddoes
che lanciò sul mondo il suo piumaggio di nebbia.

 

Il mondo preconfezionato

Il mondo preconfezionato

Cara Fabiana,

forse in passato mi sarebbe risultato più facile parlare di emarginazione e altrettanto facilmente mi sarei inserita nella schiera delle persone che durante la propria vita hanno vissuto momenti di marginalità. Mi verrebbe da pensare a quando da adolescente venivo un po’ presa in giro all’uscita di scuola, a quando non accettavo né il mio corpo né certi aspetti del mio carattere e quindi mi rintanavo in un mondo un po’ in disparte, a quando alcune delusioni mi hanno trascinata in condizioni di sconforto e alienazione.

Secondo te, in quei momenti ero – o meglio eravamo – delle emarginate? Non so te, ma mi risulta difficile dare una risposta a questa domanda.

L’emarginazione è una cosa molto seria, specchio di una società che sembra non avere spazio per accogliere tutti nel suo ventre materno. O meglio, lo spazio c’è, ma solo per coloro che dimostrano di avere i numeri giusti per entrare a farne parte. Si accettano solo i figli prediletti ed è qui che quell’aggettivo che richiama la maternità assume le sembianze di una nota stonata.

Siamo nell’era dell’omologazione, del “se sei come me sei ok”. Un’eterna selezione basata su parametri ben definiti: o sei così o sei fuori. L’ambizione a una società perfetta, fatta di persone brillanti e di successo che non ammette sbagli e soprattutto diversità. Un’utopia, insomma.

Eppure dietro a quest’utopia l’uomo, creatura dotata di intelligenza, ci corre ancora dietro, convinto che prima o poi questo teatrino possa trasformarsi in realtà. È dietro il sipario, però, che vi è il mondo reale. Un mondo dove alla nascita non tutti vengono forniti degli stessi strumenti per farsi largo nella strada della vita.

Siamo davanti a una gara impari e di conseguenza nulla, ma sembra che più o meno tutti facciano finta di non accorgersene. Non se ne accorgono coloro che quegli strumenti li hanno sempre avuti in dotazione e qui prende vigore l’idea dell’uomo come essere egoista; non se ne accorgono gli emarginati stessi che il più delle volte accettano la loro condizione di perdenti in una gara mai iniziata. E così facendo, questi ultimi non fanno altro che accettare e rafforzare l’idea di una società perfetta che non ha spazio per loro.

La mia non è un’accusa, ma amara consapevolezza. Credo che questa sia una condizione senza via di uscita e che non esisterà mai una società in cui ognuno abbia accesso al proprio successo personale senza tener conto da dove proviene e di cosa possiede.

Ecco, se c’è una cosa in cui siamo tutti assolutamente uguali è l’accettazione. Nasciamo, cresciamo e viviamo in un mondo preconfezionato: è già lì quando veniamo alla luce ed è a quello che ci dobbiamo adeguare perché non ve ne sono altri. Un dio, insomma, che dobbiamo venerare affinché non ci riversi contro disgrazie. Non è una cosa alla quale siamo obbligati. Secondo me, tutti noi veneriamo la società in cui viviamo e ne vogliamo far parte. Durante le manifestazioni, di qualunque tipo esse siano, alla fine mi sembra che si combatta sempre per non essere ritenuti diversi, per avere il riconoscimento dei propri diritti al pari degli altri, per avere un lavoro, una condizione economica come gli altri, per essere gli altri.

“La diversità è un valore aggiunto” è lo slogan del momento da anni e anche io lo credo fortemente. Poi, però, mi guardo intorno e mi accorgo che chi è diverso, chi non sta al passo, è emarginato per volontà propria e della società in cui vive.

Irpinia Mon Amour

Irpinia Mon Amour

Sono giorni difficili. Sono mesi complicati. Sono tempi complessi e molto più spesso di quanto avremmo mai potuto immaginare ci ritroviamo in alcuni momenti del giorno a ripensare al nostro passato. Più precisamente alla nostra infanzia. Con lo sguardo assente di chi si trova altrove, nel tempo e nello spazio, ritorniamo alle nostre infanzie, ovattate e piccolo borghesi. Ripensiamo con assoluta nostalgia a quello che per molti è stato un porto sicuro, lontano da tempeste e mareggiate. Per anni siamo stati al sicuro anche da qualsiasi forma di disagio economico e sociale. Per molti di noi termini come povertà ed emarginazione riportavano alla mente scenari esotici, frutto di qualche, insolita, testimonianza missionaria rilasciata durante la messa domenicale.

Per anni non siamo stati capaci di mettere a fuoco questi fenomeni: eravamo miopi e li consideravamo troppo lontani. Ma col tempo ci siamo dovuti ricredere. La povertà, il disagio economico e sociale, l’emarginazione era sempre stata lì, vicino a noi. Era nelle nostre strade, in fila nei supermercati, nel palazzo di fronte e persino allo stesso bancone del bar. Abbiamo col tempo imparato a conoscere i segni, spesso invisibili, di questi fenomeni. Proprio su di uno vorrei concentrarmi particolarmente, ovvero sulla marginalità giovanile.

L’IRPINIA E I GIOVANI AL MARGINE

In questo periodo è molto difficile intraprendere un itinerario fisico, ma proviamo ad immaginare una provincia del Sud Italia, come quella Irpina. Proviamo ad immaginarla con i suoi 118 comuni disseminati su una superfice di circa 2.800 km². Ma oltre i dati geografici dovremmo sforzarci di immaginarla anche su un piano demografico con la sua popolazione di 410.369 abitanti e con una popolazione giovanile di 146.775, ovvero il 35,7% dell’intera popolazione (fonte Demo Istat,2020). Un dato che se paragonato con l’ultimo disponibile sul sito dell’Istat, ovvero del 2012 è pressoché eclatante. La popolazione era di 428.855 abitanti e i giovani rappresentavano 170.182 unità, ovvero il 39,6% della popolazione. Quello che i numeri possono comunicare è la costante erosione demografica di una terra, che in meno di dieci anni ha perso circa 18mila abitanti. Quello che i numeri non ci raccontano sono le vite, soprattutto dei giovani che “studiano dove si può studiare e lavorano dove si può lavorare, e non tornano più”.

Sono in tanti quelli che si sono ritrovati ai margini della società capitalista, sempre più in crisi, e della sua struttura economica e sociale, che non ha posto per tutti e ha finito con l’escludere una larga fetta di popolazione che così facendo non riesce più a trovare posto nel mondo. Ci si ritrova ai margini in un momento generazionalmente importante, schiacciati da una struttura che valuta l’affermazione dei suoi componenti attraverso il superamento di alcuni riti e l’incapacità dei tanti di assurgere agli stessi. Le reazioni sono fondamentalmente tre, tutte parziali e temporanee: c’è chi continua il proprio percorso accademico/formativo, una punizione da girone dantesco, sperando prima o poi di uscire dal più grande parcheggio italiano, l’università. C’è chi decide di andare via, alla ricerca di un posto nel mondo che in Irpinia non sarebbe mai arrivato.

Infine c’è chi resta e tenta un disperato ingresso nel mondo. Sono in molti a tentare questa strada e le ragioni sono molteplici e vanno dalle questioni personali, sentimentali, familiari, fino a quelle sociali e politiche.

IL PROBLEMA DI CHI RESTA – EMARGINAZIONE CONSAPEVOLE

Quasi tutti quelli che intraprendono questo percorso si condannano ad una consapevole condizione di marginalità che li accompagnerà per anni nella speranza che un giorno possano finalmente uscire da questo limen.

Sanciscono il proprio ingresso nel mondo del lavoro, da giovani, almeno sul contratto. Una miriade sono i sotterfugi per non consegnarli dignità e una paga adeguata. Si inizia quasi sempre come volontari di servizio civile, poi si passa a volontari di garanzia giovani, successivamente si arriva agli stage e nel migliore dei casi al tirocinio aziendale o all’apprendistato. Eccoli i giovaninongiovani caricati di ogni responsabilità al lavoro, ma privati della possibilità di reclamare un proprio posto dignitoso nella società. Sono incapaci di conquistare una propria indipendenza, vivono ad oltranza con le proprie famiglie, accompagnati da un costante senso di alienazione che prende forma ogni mattina dal proprio letto e che li accompagna per tutto il giorno.

Condannati ad essere eternamente ragazzi subiscono le arroganze, lavorative, di diversi esponenti delle generazioni passate. Alcuni di questi non lesinano ostentazioni del proprio estro imprenditoriale e delle proprie capacità di self made men, salvo poi dimenticarsi come hanno costruito le proprie fortune su una delle più grandi tragedie che questa terra ha vissuto. Una tragedia che ha portato con sé morte e distruzione, ma che al tempo stesso ha permesso ad alcuni (un discreto numero di imprenditori delle precedenti generazioni) di ottenere più degli altri a scapito degli altri.

CONCLUSIONE

Vorrei essere più ottimista e regalare una speranza di sicuro stravolgimento delle attuali condizioni, ma purtroppo non è così che funziona. I giovani di questa terra, e più in generale i giovani, dovranno lottare per ottenere ogni minimo cambiamento positivo, saranno spesso ricacciati ai margini, saranno derisi, chiamati sfigati, choosy e bamboccioni. Dovranno liberarsi della più grande sindrome di Stoccolma che una generazione abbia mai vissuto. Solo così potranno cominciare a gettare le basi per sconfiggere questa forma di emarginazione in cui si trovano a vivere.

L’emarginazione che non si vede

L’emarginazione che non si vede

Quella appena trascorsa è la seconda Pasqua vissuta in una condizione anomala. Stavolta, però, non vogliamo scrivere di privazioni o mancanze, bensì vorremmo porre l’attenzione su quello che dopo un anno è diventato un fenomeno eccessivamente diffuso: l’emarginazione e la vita vissuta ai margini. Un fenomeno che, con le sue dovute eccezioni, possiamo definire intergenerazionale ed interclassista.

Quello che maggiormente colpisce è l’ambivalenza dello stesso: infatti la visibilità di alcuni fenomeni di marginalità vengono alla luce solo in seguito ad episodi violenti ed irreversibili.

Ma mentre in alcuni casi le conseguenze riescono a far emergere, seppur tardivamente, determinate condizioni di drammaticità, ci troviamo a fare i conti anche con altre forme di disagio che possono essere quello sociale, psicologico ed economico e che interessano, anche e soprattutto i più giovani delle nostre comunità.

In queste due settimane vorremmo, insieme a voi, approfondire questa tematica. Vorremmo parlare di disagio ed emarginazione, cercando di comprendere le biografie dei tanti che vivono in queste condizioni e cercare di trovare delle strade di dibattito e di discussione utili ad accendere un riflettore su un palcoscenico che solitamente resta all’oscuro, senza spettatori.

Andrea Famiglietti

Antonio Lepore