Note cartonate

Note cartonate

Parlare di se stessi non è facile. A volte si ha paura di scoprirsi, altre, invece, è difficile aprirsi agli altri. Con la diffusione dei social, inoltre, le nostre personalità vengono idealizzate, ingigantite.

I personaggi da incarnare sono tanti e si rischia di perdersi in se stessi; non è semplice essere il giusto prototipo dell’altro, allo stesso modo indossare una maschera in ogni occasione. Capita spesso di conoscersi sui social e di percepire dall’altra parte una persona diversa da ciò che è, a volte le violenze di genere possono nascere appunto da questi incontri a scatola chiusa. In questi casi la rete funge da gabbia dorata, da specchio per le allodole dove vengono concessi tutti requisiti per essere ritenuti rispettabili socialmente. Ciò accade in quanto la nostra vita è spesso frenetica e ci accontentiamo della superficialità; andare in fondo alle questioni, del resto, non è permesso dai tempi della nostra società.

L’altra faccia della medaglia è conoscere persone in rete che non fanno fatica nel mostrarsi per ciò che sono. In questo caso la rete è fonte di arricchimento e un monito verso quelle persone che hanno paura di mostrare la propria magia e la propria peculiarità.

A tal proposito, oggi vi propongo un pezzo dei Litfiba, ovvero “Mascherina”.

“Parlarsi in faccia è l’ideale e preferisco sia così

Le mezze parole mi fanno male e la tua maschera mi butta giù.”

Il rocker toscano esorta al contatto interpersonale, al contatto fisico. In questo pezzo viene evidenziata l’importanza dell’apparire senza maschere o disfunzioni di sorta. La realtà è importate ed è necessario conoscersi in fondo e non avere paura di vivere come si vuole e renderlo pubblico. Un pezzo di fine anni novanta, magicamente attuale e precursore di ciò che il nuovo millennio ci avrebbe donato.

La mascherina e poi? Giovani e futuro

La mascherina e poi? Giovani e futuro

Le belle giornate invernali ad Atripalda sono riconoscibili sin da subito, dalle prime luci del mattino. Il sole, vigoroso, colpisce gli spigoli e le punte dei palazzi, dei balconi e dei tetti. In quel momento inizia la giornata di tanti e tra questi anche quella del sottoscritto. Un insieme di azioni, abitudinarie, quasi ritualizzate che mi accompagnano in casa prima di raggiungere la porta e conquistare così la strada. Ci sono cinque piani che mi separano dalla strada e in quei cinque piani di scale, ogni mattina cerco di preparare il mio futuro prossimo. Pochi secondi, meno di un minuto, per definire un’intera giornata. I piani diminuiscono e mi avvicino sempre di più alla strada.

Finalmente arriva, il momento in cui apro il portone per uscire di casa. La luce ha toccato l’asfalto e sono consapevole che, salvo in rare occasioni, sarò sempre secondo in questo stupido giochino. L’aria del mattino è fredda e rigenerante, se ne accorge subito il mio corpo, o meglio se ne accorge subito quella parte di viso direttamente esposto alla luce mattutina. Un momento di inconsapevole riscoperta. Come per gli spigoli e le punte dei palazzi, anche il nostro corpo risente dell’azione dell’ambiente esterno e lo percepisce in maniera diretta e non, a seconda della quantità di abiti che indossiamo per proteggerci dall’insopportabile freddo umido. Proprio lì riesco sempre a stupirmi dell’insensibilità che la mia bocca e il mio naso hanno a tutto questo processo. Ci metto qualche secondo per ricordarmi che una motivazione c’è ed è dettata dalla mascherina che ormai indosso per almeno 8 ore al giorno.

In quell’attimo, mentre cammino per andare in ufficio, ricordo quelli che sono stati gli ultimi mesi: la sensazione di spaesamento, una costante anche quella, dei primi giorni di marzo 2020, del silenzio irreale in pieno giorno, di una collettività ricercata sui balconi, dell’estate volare e dall’apprensione scaturita dopo aver appreso di essere positivo, tramutatasi in paura per quei contatti stretti e quotidiani riassumibili nella mia famiglia. Ma in quell’interminabile attimo riscopro anche una grande assenza, riscopro l’incapacità nel definire un futuro.

Le fredde mattine invernali mi portano sempre a questo punto a ricordare che di futuro abbiamo smesso di parlare, ma soprattutto abbiamo smesso di reclamarlo. Dopo un anno, sotto questo aspetto, nulla è cambiato: generazione dimenticata e precaria. Siamo diventati la generazione degli inoccupati, molti di noi non si possono nemmeno permettere il lusso di essere disoccupati, e degli eterni in formazione. Richiamati sempre alla responsabilità e al sacrificio con la promessa di essere finalmente ascoltati, rimaniamo eternamente giovani.

Una condizione questa che si ritrova in ogni sfera del mondo e che porta a conseguenze ben più ampie. Un requisito che poi porta ad esclamare ad alcuni, non senza una punta di disprezzo, “Dove sono i giovani?! Nessuno più si interessa della città, le nostre piazze sono morte, i nostri spazi escono sconfitti. I critici borbottano: le cause sono queste e quelle (esclamerebbe un famoso poeta russo)”. Ebbene i “vostri” giovani sono in qualche azienda a farsi sfruttare per una misera paga, a lavorare a cottimo, sono costretti a sorridere dentro un negozio con turni massacranti, sono dietro un pc ad ammazzarsi la vista, sono eterni concorsisti e via dicendo. Ritornano a casa, poi stremati. Vorrebbero dire e fare tanto sul futuro delle nostre città, ma restano sempre in bilico tra il mondo del lavoro che richiede sempre più sacrifici, consegnandoli comunque ad una incompletezza semi-permanente, e una città spesso sospettosa verso ogni azione.

Arrivati a questo punto dovrei giungere alla conclusione, ma come ogni bella giornata invernale che si rispetti anche io sono arrivato all’ingresso dell’ufficio e devo pensare al presente, al futuro ci penseremo poi…

Mi mancano gli occhi dei camerieri

Mi mancano gli occhi dei camerieri

Una pandemia mondiale e tu che, tra lenzuola sempre troppo pesanti per me, ridevi. Pensavi che avrei dovuto smetterla con i b-movie americani, di quelli che danno la domenica pomeriggio dove gli abitanti di una città con due case ed un fast-food si mettono ai ripari da alieni con la testa gigantesca.

Ed invece guardaci ora, rigorosamente da lontano. Probabilmente è la prima volta che non ci vediamo e non è colpa di qualche mia cazzata. In realtà, oltre a tutte le romanticherie, mi manca la tua pelle. E credo che neanche un bonus da 1.000 miliardi, Salvini che te possino, possa colmare questa mancanza (oppure giusta rinuncia per evitare di occupare un posto in ospedale da coglioni). Forse in questi mesi ho capito che ad un certo punto vale soltanto il tempo vissuto insieme a “te”.

Poi se ci penso un po’, mi manca cercare l’ispirazione ovunque. Questo maledetto virus ha rapito l’ovunque e chissà dove l’ha nascosto, probabilmente nelle rinunce che non riusciamo ad accettare perché troppo egoisti. Ed io che credevo che tutto fosse lì, bastava un passo e potevamo essere ovunque. Ma lo libereremo, prima o poi, e forse non saremo gli eroi biondi della Disney, ma son convinto che sporchi di birra e briciole di patatine riusciremo ad evolverci, a rinunciare a spostarci per spostarci più forte domani (sì, è una mezza citazione di Conte, anche perché io sono una bimba di Conte).

Gli occhi dei camerieri. Sì, mi mancano. Io che inizio a sudare freddo perché non ho deciso ancora con cosa strafogarmi e mi sento colpevole di procurare loro un ulteriore motivo per spararci in fronte. Si trattava di una “cosa semplice”, ma sì, “ci mangiamo una cosa veloce” ed invece all’improvviso abbiamo svaligiato i supermercati di lievito di birra e sentirci fighi per aver impastato una pizza che poi neanche la forma (quindi pensate che supereroi i camerieri e gli chef che insultiamo per un’attesa in più oppure per un pizzico di sale in meno).

E, infine, mi mancano le mie mani sporche d’inchiostro e polvere. Mettermele in bocca e pensare perché il cattivo in un film impiega sempre troppo tempo per uccidere il buono. E poi per fantasticare su come sarebbe bello il mondo se tutto finisse ora, scendere in piazza a bruciare l’Amuchina e riacquisire la fiducia nel prossimo e non vederlo più come un potenziale attentato alla nostra incolumità. Però ci tocca resistere, e non so se queste mancanze ci hanno reso migliori. Sento che siamo ancora troppo egoisti, me compreso, anche se ieri, mentre mi recavo a lavoro, ho visto un bambino indossare la mascherina e aiutare, a voce, il nonno ad indossarla meglio: forse laddove noi abbiamo fallito, ci penseranno i piccoli.

Breve riflessione simbolica sulla pandemia: quello che la mascherina non dice

Breve riflessione simbolica sulla pandemia: quello che la mascherina non dice

È una scena che si è ripetuta spesso nelle domeniche di fine estate in piazza ad Atripalda, quando il sole lentamente conquista mattonelle preziose e l’ombra si ritrae consegnando ai pochi impervi gli ultimi momenti preziosi di riparo. In tanti hanno già abbandonato la stessa, che ormai vuota si concede al silenzio, oltre che al sole, e con essa anche la strada principale alla quale è legata.

Via Roma, questo è il nome della principale via cittadina, unisce la piazza al resto della città. Un lungo segmento che per forma e funzione richiama il termometro capace di misurare la febbre cittadina. Proprio come il mercurio nel tubo di vetro le auto e i viandanti rappresentano lo stato febbrile della città segnando le temperature estreme nei momenti di massima frenesia consumistica.

Questo accade tutti i giorni, tutti tranne la domenica, quando ad ora di pranzo la temperatura sociale ed economica scende vertiginosamente e in strada non si trova più nessuno. Via Roma, si libera del suo solito via vai e si concede a qualche passante che fa ritorno a casa.

Di questi tempi trovarsi da soli, in pieno giorno per strada permette libertà fino a qualche anno fa inimmaginate: tra tutte quella di godersi l’aria fresca senza l’utilizzo della mascherina come filtro.

Un’azione questa ormai impensabile, anche in una strada deserta, ma che ai pochi fortunati di quell’ora permette di sentire un’aria diversa che durante la settimana via Roma non ha a causa delle tante macchine che l’attraversano.

Ma questa non è un’ode al mancato utilizzo della mascherina, anzi proprio in questo lungo deserto silenzioso in cui i pochi avventurosi ritardatari del pranzo domenicale si ritrovano può capitare un qualcosa di inaspettato. Infatti lungo quello strano termometro ci si possono incontrare altri sporadici ritardatari che in senso opposto si preparano all’incontro.

In quel momento, in quell’attimo un gesto tanto istintivo quanto automatico porta chiunque ad alzare, con la mano, la mascherina; un gesto dettato da diverse ragioni che vanno dalla paura generale dello sconosciuto, dal timore di subire qualche tipo di sanzione.

Un gesto che non può essere limitato a queste semplici e poche chiavi di lettura, ma anzi un gesto che nasconde in sé anche un segnale di condivisione, implicita, della percezione di un pericolo a cui si fa fronte nella medesima modalità.

Quella mascherina in quel momento sembra dire:

“Anche se non ci conosciamo, riconosciamo lo stesso pericolo a cui stiamo facendo fronte con lo stesso linguaggio!”

Chissà se in futuro saremo coscienti anche del significato simbolico di questi piccoli gesti che ci hanno accompagnato e che ci accompagneranno ancora per molto.