da Andrea Cerrito | Ott 27, 2021 | Lo sbriglialacci
Il futuro è una dimensione ignota e indefinita per il significato stesso della parola. Anche le persone più convinte dei propri mezzi non possono sapere con certezza quello che il futuro gli prospetta e per quanto ci si possa sforzare a programmare e anticipare le proprie azioni, c’è sempre qualcosa di imprevisto che complica o facilita il tutto, nel migliore dei casi.
Avere l’idea di cos’è il futuro, tuttavia, non è cosa da tutti: ad esempio, i bambini e i ragazzi fino a 10-11 anni non hanno ancora la possibilità di prospettarselo. Il motivo è semplice, non hanno ancora raggiunto la maturità psicologica e cerebrale di formarsi un concetto di futuro plausibile, la loro idea di futuro è sempre impregnata di elementi fantastici che si mischiano con quelli reali e rendono il futuro un luogo mentale ancora “acerbo” per essere definibile come ignoto o indefinito.
Se vogliamo approfondire la faccenda è necessario fare riferimento al funzionamento mentale generale. Nella concezione che sono solito usare, il funzionamento della mente è suddivisibile in 12 competenze che vengono acquisite con lo sviluppo psichico e fisico individuale. Si parte dalla nascita ad imparare a focalizzare l’attenzione, a regolarla e a imparare le cose che il mondo ci fornisce. Si procede imparando a comprendere cosa significa “Affetto” e come lo si comunica, poi si impara a riconoscere nelle altre persone le stesse capacità mentali nostre e si comincia a rendersi conto di essere una persona singola e unica, differenziata dagli altri. In seguito si impara a intrattenere e mantenere delle relazioni e a regolare la propria autostima. Questo elenco di funzioni mentali culmina nella capacità di costruirsi e ricorrere a standard e ideali ispirati ad una propria idea di ciò che è giusto e ciò he è sbagliato e si arriva, finalmente, al titolo di questo articolo: concepire un significato della propria esistenza e, sulla sua base, porre una direzione alla propria vita.
Dare significato e direzionalità alla propria vita vuol dire concepire l’insieme degli eventi vissuti come connessi tra di loro secondo un senso coerente, non per forza logico, di sé stessi. Ciò è la base da cui partire per dare un senso alle scelte personali e implica la consapevolezza di appartenere al genere umano in quanto individui unici e con attenzione alle generazioni che verranno. Tutto questo fa capire il motivo per cui questa capacità mentale è considerata l’ultima della gerarchia.
Concepire il futuro, in definitiva, non è roba per principianti. Per avere un’idea buona di cos’è il futuro bisogna prima di tutto aver superato gli 11 anni in termini di funzionamento mentale, occorre raggiungere la maturità psicologica per tutte le funzioni della mente e tenere in considerazione sé stessi, il mondo e chi lo abiterà dopo di noi.
Ah, quasi dimenticavo. Come ogni cosa che compete la mente umana, non esistono due persone con lo stesso significato e la stessa direzionalità impostata alla propria vita e poche persone riescono a raggiungere una maturità psicologica adeguata. Per capirlo basta vedere di cosa siamo stati capaci rispetto al cambiamento climatico, all’aspettativa di vita del genere umano sulla Terra ed alla considerazione che la maggior parte di noi ha delle generazioni future. Ecco, diciamo che il futuro è la generazione a noi ventura e per valutarne la nostra capacità di prospettarsi il futuro basta riflettere sulla propria concezione delle generazioni a noi posteriori.
da Andrea Cerrito | Giu 21, 2021 | Lo sbriglialacci
L’argomento di queste due settimane mi permette di parlare di quella funzione psicologica che sta alla base del nostro orientamento nel tempo: la memoria!
Di solito quando sentiamo parlare di memoria si pensa ai ricordi e, complici metafore fatte dai professori a scuola, la si immagina come un fosso archivio dentro cui conserviamo i nostri ricordi. E su per giù è così, solo che questo è uno dei tanti compiti che la memoria umana assolve e che, detto come fanno quelli bravi, si chiama MEMORIA A LUNGO TERMINE. Certo, negli archivi di casa o dell’ufficio le cose si immagazzinano seguendo un certo criterio (ordine alfabetico, numerico eccetera), la memoria a lungo termine invece usa delle “etichette emotive”: ogni evento della nostra vita viene associato ad una emozione da un’altra funzione della memoria che dirò dopo la quale, inoltre, associa altre caratteristiche specifiche di quell’evento (sia un luogo, una data o addirittura un odore); quando abbiamo bisogno di ricordare qualcosa, la stessa funzione della memoria che aveva fatto questa “etichettatura” mette insieme lo stato emotivo attuale con quello associato al ricordo e più corrisponde, più viene frequentemente sentita quella specifica emozione intensamente, più verranno ricordati i dettagli del ricordo stesso. Questo processo si chiama RIEVOCAZIONE di un ricordo.
Capita spesso di sentire di aver dimenticato qualcosa, da un evento del passato remoto a cosa abbiamo mangiato ieri; questo succede per due motivi principali: o perché non abbiamo prestato molta attenzione a quello che abbiamo visto o fatto (o mangiato), oppure perché c’è qualcosa che non possiamo ricordare perché ne soffriremmo per cui l’emozione viene staccata dall’evento e noi ce ne dimentichiamo o, come dicono quelli bravi, subentra un processo di OBLIO (che per capirai non è consapevole ma avviene al di là della nostra volontà).
La memoria a lungo termine, come detto, non è l’unica memoria esistente; ne esisterebbe un’altra secondo alcuni studiosi, un altro paio secondo altri. Ciò su cui tutti vanno d’accordo è dire quello a cui servono e io, per comodità, mi rifaccio al modello di due tipi di memoria: quella a lungo termine e quella DI LAVORO. Quest’ultima è proprio quella che ho accennato poco fa: si occupa di mettere insieme tutte le informazioni che noi, attraverso i 5 sensi, catturiamo dal mondo esterno e, come già detto, associa all’emozione che si sta provando in quel preciso momento. Il modo con cui avviene questo processo meriterebbe un articolo a parte, mi limito a dire che lo fa dividendo le informazioni in base a che siano pensieri o azioni, che siano eventi reali o immaginati e su che tipo di senso (vista udito eccetera) viene usato. Inoltre, la memoria di lavoro ha un secondo compito, quello di mantenere in memoria, appunto, delle informazioni che ci servono per un tempo limitato, tipo ricordare un numero di telefono mentre lo si sta scrivendo; in questi casi non serve associare il ricordo ad una emozione e quel ricordo svanisce in breve tempo, da cui il nome MEMORIA A BREVE TERMINE.
La memoria di lavoro elabora tutto quello che percepiamo, e quando dico tutto intendo PROPRIO TUTTO! In teoria saremmo in grado di ricordare ogni secondo del nostro passato, e forse gli esseri umani del 10000 dopo cristo saranno in grado di farlo; oggi invece noi ricordiamo solo quello a cui diamo un significato personale e lo rievochiamo soltanto quando ci serve veramente, ed è per questo che a volte ricordiamo delle cose mentre altre volte c’è le dimentichiamo: dipende dall’emozione di fondo del momento, cose di cui non abbiamo il controllo cosciente. La questione emotiva, poi, ci fa capire anche perché capita di ricordare cose senza volerlo: dipende dall’emozione provata al momento della rievocazione che “attiva” un ricordo associato a quell’emozione. E questo vale anche per quelle volte in cui un odore, una musica o la vista di un paesaggio rievocano ricordi senza che noi lo abbiamo desiderato.
Il passato individuale, quindi, non è un archivio fatto di informazioni estraibili a proprio piacimento; i nostri ricordi, dunque il nostro passato, prossimo e remoto, sono contenuti tutti all’interno di una rete in cui i ricordi sono custoditi nei nodi e ciascun nodo e collegato ad un altro da un filo dentro il quale ci sono emozioni associate e particolari comuni. Da come abbiamo costruito il nostro passato, dipende la costruzione del presente e del futuro.
da Andrea Cerrito | Apr 26, 2021 | Lo sbriglialacci
Il tema del coraggio è strettamente legato a quello affrontato la scorsa volta a proposito dell’emarginazione, o meglio dell’auto-emarginazione. Il collegamento è concepibile se consideriamo il ritiro sociale e il coraggio come una fotografia con il suo negativo (quel “pezzo” di rullino che conteneva l’immagine da imprimere sulla carta fotografica, unico strumento da poter “sviluppare” prima dell’avvento della fotografia digitale). Perché la timidezza provata da chi desidera ritirarsi dalla società si annida laddove viene meno il coraggio di esprimersi in libertà per il timore delle conseguenze a cui si pensa (e si ha paura) di andare incontro.
Come per la timidezza, il coraggio di ciascun individuo è il risultato di una complessa interazione tra diversi fattori che la collaborazione tra diverse branche della scienza non è ancora riuscita a trovare l’equazione che ne spieghi tutti gli aspetti; questi fattori sono ambientali come l’educazione ricevuta o la città e il quartiere in cui si nasce, storici e individuali, questi ultimi divisibili in mentali e cerebrali.
La mente e il cervello costituiscono due facce della stessa medaglia e, sebbene in natura siano considerabili come una unità inscindibile, è necessario considerare prima uno e poi l’altro aspetto per poter cogliere conoscere qualcosa del suo funzionamento. Le persone coraggiose, ad esempio, hanno una particolare caratteristica mentale che li porta a cercare il brivido, a fare cose rischiose per il desiderio di provare la sensazione che ne deriva; questa complessa caratteristica mentale prende un nome inglese che si traduce con “ricerca di sensazioni” e che spiega la voglia di correre rischi da parte di queste persone non tanto sulla base di quello che fanno ma rispetto a ciò che vogliono sentire il che, ad esempio, fa sì che un pilota di formula1 e uno scalatore alpino abbiano la stessa caratteristica mentale, o per meglio dire di personalità.
E che succede nel cervello di queste persone? Nulla che non accada in tutti gli altri cervelli quando ci si trova ad affrontare situazioni pericolose. La differenza sta in alcune strutture del loro cervello che, per come si sono sviluppate nel corso della loro esistenza e per come hanno interagito il genoma, l’ambiente inteso in senso lato e le persone significative, hanno fatto sì che le sostanze chimiche rilasciate dal cervello quando si corre un rischio (a.k.a. i neurotrasmettitori adrenalina e noradrenalina) venissero associate alla sostanza che il cervello rilascia quando si prova piacere, la mitica dopamina.
Il coraggio, ovviamente, non è ad uso e consumo esclusivo dei cosiddetti cercatori di sensazioni sebbene queste persone siano maggiormente propense ad esprimerlo quando, appunto, corrono dei rischi per provare piacere mentale e fisico. E non è neanche scontato che queste persone siano percepite da chi li conosce come coraggiosi, basti pensare che questa caratteristica è tipica dei giocatori d’azzardo incalliti, non proprio dei leoni nell’immaginario collettivo.
Fatto sta che per dimostrare di avere coraggio bisogna provare quella sensazione che viene appositamente ricercata da alcune persone, anche se alla maggior parte degli individui dare una prova di coraggio non porta al soddisfacimento di un desiderio. Ed è anche vero che per dimostrare di avere coraggio non bisogna andarsi a cercare per forza situazioni rischiose: ogni decisione presa come soluzione a qualcosa che avverrà nel futuro richiede una dose di coraggio e poco importa se la nostra storia personale ci ha reso più o meno propensi ad essere coraggiosi.
Prima o poi ogni persona dimostrerà a se stessa di essere stata coraggiosa.
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