L’ultimo lavoro di Bernardo Bertolucci è stato un corto di un minuto e mezzo
Una passeggiata nelle sue strade di Roma
Su una sedia a rotelle
La sua
Voleva mostrare le mille difficoltà che ha un disabile a muoversi
Voleva mostrare cosa significa sentirsi emarginati perché sul tuo tragitto manca un marciapiede
O una discesa
O un posto auto dedicato
Voleva mostrarcelo da disabile
Lui che ha girato il mondo senza porsi mai alcun limite
Quel limite lo ha trovato sotto casa
A Trastevere
Quel limite che incontrano tutti i disabili
Quell’emarginazione che continua ad essere un’ offesa
Che io vedo ovunque
Che mi rattrista
“Scarpette rosse” Irpinia 2021
Sono giorni difficili. Sono mesi complicati. Sono tempi complessi e molto più spesso di quanto avremmo mai potuto immaginare ci ritroviamo in alcuni momenti del giorno a ripensare al nostro passato. Più precisamente alla nostra infanzia. Con lo sguardo assente di chi si trova altrove, nel tempo e nello spazio, ritorniamo alle nostre infanzie, ovattate e piccolo borghesi. Ripensiamo con assoluta nostalgia a quello che per molti è stato un porto sicuro, lontano da tempeste e mareggiate. Per anni siamo stati al sicuro anche da qualsiasi forma di disagio economico e sociale. Per molti di noi termini come povertà ed emarginazione riportavano alla mente scenari esotici, frutto di qualche, insolita, testimonianza missionaria rilasciata durante la messa domenicale.
Per anni non siamo stati capaci di mettere a fuoco questi fenomeni: eravamo miopi e li consideravamo troppo lontani. Ma col tempo ci siamo dovuti ricredere. La povertà, il disagio economico e sociale, l’emarginazione era sempre stata lì, vicino a noi. Era nelle nostre strade, in fila nei supermercati, nel palazzo di fronte e persino allo stesso bancone del bar. Abbiamo col tempo imparato a conoscere i segni, spesso invisibili, di questi fenomeni. Proprio su di uno vorrei concentrarmi particolarmente, ovvero sulla marginalità giovanile.
L’IRPINIA E I GIOVANI AL MARGINE
In questo periodo è molto difficile intraprendere un itinerario fisico, ma proviamo ad immaginare una provincia del Sud Italia, come quella Irpina. Proviamo ad immaginarla con i suoi 118 comuni disseminati su una superfice di circa 2.800 km². Ma oltre i dati geografici dovremmo sforzarci di immaginarla anche su un piano demografico con la sua popolazione di 410.369 abitanti e con una popolazione giovanile di 146.775, ovvero il 35,7% dell’intera popolazione (fonte Demo Istat,2020). Un dato che se paragonato con l’ultimo disponibile sul sito dell’Istat, ovvero del 2012 è pressoché eclatante. La popolazione era di 428.855 abitanti e i giovani rappresentavano 170.182 unità, ovvero il 39,6% della popolazione. Quello che i numeri possono comunicare è la costante erosione demografica di una terra, che in meno di dieci anni ha perso circa 18mila abitanti. Quello che i numeri non ci raccontano sono le vite, soprattutto dei giovani che “studiano dove si può studiare e lavorano dove si può lavorare, e non tornano più”.
Sono in tanti quelli che si sono ritrovati ai margini della società capitalista, sempre più in crisi, e della sua struttura economica e sociale, che non ha posto per tutti e ha finito con l’escludere una larga fetta di popolazione che così facendo non riesce più a trovare posto nel mondo. Ci si ritrova ai margini in un momento generazionalmente importante, schiacciati da una struttura che valuta l’affermazione dei suoi componenti attraverso il superamento di alcuni riti e l’incapacità dei tanti di assurgere agli stessi. Le reazioni sono fondamentalmente tre, tutte parziali e temporanee: c’è chi continua il proprio percorso accademico/formativo, una punizione da girone dantesco, sperando prima o poi di uscire dal più grande parcheggio italiano, l’università. C’è chi decide di andare via, alla ricerca di un posto nel mondo che in Irpinia non sarebbe mai arrivato.
Infine c’è chi resta e tenta un disperato ingresso nel mondo. Sono in molti a tentare questa strada e le ragioni sono molteplici e vanno dalle questioni personali, sentimentali, familiari, fino a quelle sociali e politiche.
IL PROBLEMA DI CHI RESTA – EMARGINAZIONE CONSAPEVOLE
Quasi tutti quelli che intraprendono questo percorso si condannano ad una consapevole condizione di marginalità che li accompagnerà per anni nella speranza che un giorno possano finalmente uscire da questo limen.
Sanciscono il proprio ingresso nel mondo del lavoro, da giovani, almeno sul contratto. Una miriade sono i sotterfugi per non consegnarli dignità e una paga adeguata. Si inizia quasi sempre come volontari di servizio civile, poi si passa a volontari di garanzia giovani, successivamente si arriva agli stage e nel migliore dei casi al tirocinio aziendale o all’apprendistato. Eccoli i giovaninongiovani caricati di ogni responsabilità al lavoro, ma privati della possibilità di reclamare un proprio posto dignitoso nella società. Sono incapaci di conquistare una propria indipendenza, vivono ad oltranza con le proprie famiglie, accompagnati da un costante senso di alienazione che prende forma ogni mattina dal proprio letto e che li accompagna per tutto il giorno.
Condannati ad essere eternamente ragazzi subiscono le arroganze, lavorative, di diversi esponenti delle generazioni passate. Alcuni di questi non lesinano ostentazioni del proprio estro imprenditoriale e delle proprie capacità di self made men, salvo poi dimenticarsi come hanno costruito le proprie fortune su una delle più grandi tragedie che questa terra ha vissuto. Una tragedia che ha portato con sé morte e distruzione, ma che al tempo stesso ha permesso ad alcuni (un discreto numero di imprenditori delle precedenti generazioni) di ottenere più degli altri a scapito degli altri.
CONCLUSIONE
Vorrei essere più ottimista e regalare una speranza di sicuro stravolgimento delle attuali condizioni, ma purtroppo non è così che funziona. I giovani di questa terra, e più in generale i giovani, dovranno lottare per ottenere ogni minimo cambiamento positivo, saranno spesso ricacciati ai margini, saranno derisi, chiamati sfigati, choosy e bamboccioni. Dovranno liberarsi della più grande sindrome di Stoccolma che una generazione abbia mai vissuto. Solo così potranno cominciare a gettare le basi per sconfiggere questa forma di emarginazione in cui si trovano a vivere.
Le belle giornate invernali ad Atripalda sono riconoscibili sin da subito, dalle prime luci del mattino. Il sole, vigoroso, colpisce gli spigoli e le punte dei palazzi, dei balconi e dei tetti. In quel momento inizia la giornata di tanti e tra questi anche quella del sottoscritto. Un insieme di azioni, abitudinarie, quasi ritualizzate che mi accompagnano in casa prima di raggiungere la porta e conquistare così la strada. Ci sono cinque piani che mi separano dalla strada e in quei cinque piani di scale, ogni mattina cerco di preparare il mio futuro prossimo. Pochi secondi, meno di un minuto, per definire un’intera giornata. I piani diminuiscono e mi avvicino sempre di più alla strada.
Finalmente arriva, il momento in cui apro il portone per uscire di casa. La luce ha toccato l’asfalto e sono consapevole che, salvo in rare occasioni, sarò sempre secondo in questo stupido giochino. L’aria del mattino è fredda e rigenerante, se ne accorge subito il mio corpo, o meglio se ne accorge subito quella parte di viso direttamente esposto alla luce mattutina. Un momento di inconsapevole riscoperta. Come per gli spigoli e le punte dei palazzi, anche il nostro corpo risente dell’azione dell’ambiente esterno e lo percepisce in maniera diretta e non, a seconda della quantità di abiti che indossiamo per proteggerci dall’insopportabile freddo umido. Proprio lì riesco sempre a stupirmi dell’insensibilità che la mia bocca e il mio naso hanno a tutto questo processo. Ci metto qualche secondo per ricordarmi che una motivazione c’è ed è dettata dalla mascherina che ormai indosso per almeno 8 ore al giorno.
In quell’attimo, mentre cammino per andare in ufficio, ricordo quelli che sono stati gli ultimi mesi: la sensazione di spaesamento, una costante anche quella, dei primi giorni di marzo 2020, del silenzio irreale in pieno giorno, di una collettività ricercata sui balconi, dell’estate volare e dall’apprensione scaturita dopo aver appreso di essere positivo, tramutatasi in paura per quei contatti stretti e quotidiani riassumibili nella mia famiglia. Ma in quell’interminabile attimo riscopro anche una grande assenza, riscopro l’incapacità nel definire un futuro.
Le fredde mattine invernali mi portano sempre a questo punto a ricordare che di futuro abbiamo smesso di parlare, ma soprattutto abbiamo smesso di reclamarlo. Dopo un anno, sotto questo aspetto, nulla è cambiato: generazione dimenticata e precaria. Siamo diventati la generazione degli inoccupati, molti di noi non si possono nemmeno permettere il lusso di essere disoccupati, e degli eterni in formazione. Richiamati sempre alla responsabilità e al sacrificio con la promessa di essere finalmente ascoltati, rimaniamo eternamente giovani.
Una condizione questa che si ritrova in ogni sfera del mondo e che porta a conseguenze ben più ampie. Un requisito che poi porta ad esclamare ad alcuni, non senza una punta di disprezzo, “Dove sono i giovani?! Nessuno più si interessa della città, le nostre piazze sono morte, i nostri spazi escono sconfitti. I critici borbottano: le cause sono queste e quelle (esclamerebbe un famoso poeta russo)”. Ebbene i “vostri” giovani sono in qualche azienda a farsi sfruttare per una misera paga, a lavorare a cottimo, sono costretti a sorridere dentro un negozio con turni massacranti, sono dietro un pc ad ammazzarsi la vista, sono eterni concorsisti e via dicendo. Ritornano a casa, poi stremati. Vorrebbero dire e fare tanto sul futuro delle nostre città, ma restano sempre in bilico tra il mondo del lavoro che richiede sempre più sacrifici, consegnandoli comunque ad una incompletezza semi-permanente, e una città spesso sospettosa verso ogni azione.
Arrivati a questo punto dovrei giungere alla conclusione, ma come ogni bella giornata invernale che si rispetti anche io sono arrivato all’ingresso dell’ufficio e devo pensare al presente, al futuro ci penseremo poi…
Da oltre un anno, le nostre vite fanno i conti con quello che è stato uno dei più grandi e drastici cambiamenti collettivi degli ultimi decenni. Un anno fa, infatti, incominciammo a ridefinire il nostro modo di vivere, le nostre abitudini, le relazioni sociali, il lavoro. In pratica un anno fa abbiamo ridefinito il nostro presente. Lo abbiamo fatto senza pensare al domani perché concentrati e spaventati sull’oggi.
La preoccupazione, però, è ritornata ai livelli ordinari. Abbiamo permesso alla nostra attenzione di concentrarci sul bonus vacanze, sulle modalità attraverso cui sostenere gli esami di stato, sui banchi con rotelle. Nelle nostre estati italiane ci siamo concessi attimi di normalità per ricordare al nostro presente cosa fosse la quotidianità. Unico monito delle nostre serate, la mascherina legata al gomito. Il caldo ottimismo come il sole di luglio ed agosto è svanito e con l’avvento dell’autunno il nostro presente ha subito l’ennesima scossa.
Riportati bruscamente al presente fatto di paura, privazione e stanchezza abbiamo cominciato a pensare realmente al domani. Ci siamo rifugiati nel domani con la speranza che alla fine di tutto ci saremmo potuti ritrovare in un mondo differente, ma proprio questo pensiero è stato accompagnato dalle numerose incognite.
Abbiamo finalmente compreso che è impossibile fare i conti con il futuro senza collegarlo al lavoro, agli spazi e alle loro fruizioni, senza legarlo alle città, all’istruzione, alle disuguaglianze, alle politiche, al sociale. Un insieme di parole chiave che in questo ultimo anno in molti hanno davvero dimenticato. Ma in mezzo ai tanti senza memoria, ai teorici del qui e dell’oggi ci siamo ritrovati in tanti spaesati: siamo emarginati, giovani, disoccupati, inoccupati, mai entrati ufficialmente nel mondo del lavoro, precari, studenti universitari.
Ci siamo ritrovati in tanti, in passato ci saremmo chiamati proletariato, quarto stato, oggi siamo i precari, i neet, gli eternamente in formazione, siamo la banda delle Scarpesciuote e oggi ci (vi) chiediamo qual è il nostro futuro, quali saranno i nostri domani, le nostre vite.
Intanto aspettiamo, raccolti come la polvere sotto il tappeto, in attesa di far inciampare qualcuno per renderci visibili. Ma vi avvertiamo non aspetteremo ancora per molto e non saremo più comprensibili e pacifici. Mentre il mondo giornalistico e politico saluta con entusiasmo il nuovo salvatore Mario Draghi il nostro futuro ci scivola sempre più dalle mani. Ma non per questo ci arrendiamo, non per questo getteremo la spugna.
Inauguriamo il nostro nuovo sito, più combattivi che mai e più sicuri che per parlare di futuro dobbiamo ripartire anche dalle diverse narrazioni che le nostre realtà giovanili, meridionali e provinciali ci portano ad avere.
«Iniziava sempre con quell’insolito rituale, prima di mettersi in viaggio mio padre era solito togliersi il cappotto, ripiegarlo e posizionarlo sul bagagliaio dell’auto»
C’è sempre stata una certa sacralità in quello che per molti anni ha rappresentato uno dei viaggi di famiglia più frequenti e più intensi. Negli anni ha assunto diversi significati.
Da bambino ritornare in quei luoghi, così vicini e così lontani, rappresentava un viaggio, un’avventura il cui copione era sempre lo stesso e veniva rispettato in maniera incredibile. Le nostre “costanti” erano sempre lì ad attenderci: l’incredibile buio quando arrivavamo a Villamaina e quell’enorme muro di luci e lumini pronti ad accoglierci, le statue in pietra e quei lunghi vialetti grigi che ben si sposavano con l’autunno. E dopo, di nuovo in auto, in direzione Sant’Angelo dei Lombardi, le chiacchierate vicino la stufa e la visita al laboratorio di un artigiano speciale, come sapeva essere nostro prozio e poi, se eravamo fortunati, una bella partita a palle di neve che ci “costringeva” tutti ad un tutti contro tutti impagabile.
Crescendo, con gli anni, molti di quei luoghi e di quei protagonisti sono cambiati, il viaggio ha assunto sempre più un significato diverso. Negli anni storie passate e presenti si sono mischiate e, con nuove tappe, hanno portato alla luce nuovi protagonisti. Tra tutte, sicuramente, quella più interessante è stata Torella dei Lombardi.
Conosciuta da molti come il paese di origine di Sergio Leone e dei vari De Laurentiis, Torella ha assunto un significato familiare rilevante in quanto paese originario della mia famiglia paterna, o meglio è qui che i miei bisnonni Raffaele e Lucia hanno deciso di mettere su famiglia.
Purtroppo il destino e la grande storia non sono stati benevoli con entrambi e la loro vita è stata scandita da sacrifici immensi, tanto lavoro e una serie notevole di tragedie. La loro vita matrimoniale brevissima, spezzata dalla prematura scomparsa di Raffaele che per gran parte degli anni resterà poco più che un quadretto in divisa militare appeso nelle nostre case e poco più.
Disperso in seguito ai tragici eventi che caratterizzarono il secondo conflitto mondiale i racconti che si sono susseguiti sono sempre stati rari e frammentati, in cui l’unica certezza è stata la sua partenza da un punto A, meglio identificato come Italia, e la sua scomparsa in imprecisato punto B della penisola balcanica tra l’Albania e la Grecia. Nulla più, per decenni. Un’intera vita racchiusa in una serie poco precisa di chilometri e in un continente. Il destino di Raffaele, come tanti altri dispersi ha dovuto fare i conti con la frammentarietà delle informazioni possedute.
Così per anni abbiamo saputo veramente poco della sua vita. Se non fosse per la grande storia che per una seconda volta si sarebbe intromessa nella nostra famiglia. Infatti negli anni 2000 l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi decise di onorare la memoria dei soldati italiani in Grecia ritenendo il loro sacrificio il primo atto di Resistenza italiana contro il nazifascismo.
Sotto questo impulso la comparsa di un foglio matricolare di Raffaele la sua storia comincia ad assumere una forma più definita. Una serie di tappe e città e nazioni comincia ad affiorare nella vita di Raffaele. Prima Torino, poi la Francia, dopo casa e poi di nuovo Brindisi, Valona con l’Albania e infine Corfù e Cefalonia con la Grecia dove molto probabilmente troverà la morte.
Ma a rendere completo il quadro ci penserà Lucia, con un pacco di lettere di corrispondenza conservate a trasformare Raffaele non più in una merce in spostamento dai diversi punti, ma in una persona in balia del destino. Nelle lettere si sente la mancanza per la casa, gli affetti e la terra. L’essere sempre in viaggio e la fiducia in un rapido ritorno che però non arriverà mai.
Il viaggio a Torella dei Lombardi verso una lapide dedicata a tutti i dispersi ha rappresentato questo e continua a rappresentare questo, la connessione con due vite che malgrado il destino le ha strappate alla terra continuano a legarci ai loro luoghi e alle loro storie.
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