Settembre incalza, la sbornia dell’Europeo è un lontano ricordo, la nuova normalità calcistica ci ripropone pensieri rituali che ormai fanno parte della consuetudine di ogni appassionato.
Le ultime amichevoli pre-campionato ci hanno già fatto assaporare qualcosa, la Serie A è già iniziata, la Nazionale è tornata con i piedi per terra dopo una fantastica sbornia di emozioni sbattendo contro la cortina di ferro bulgara sapientemente srotolata in quel di Firenze.
Il valzer degli allenatori si è reso protagonista in un campionato italiano alle prese con tempi di ristrettezze economiche, l’Inter si ridimensiona, il Milan perde – a zero- dei pezzi pregiati, la Juve, attendista, preferisce non strafare puntando sull’usato garantito di Max Allegri, Roma e Lazio sull’estro e la verve di due guru come Mourinho e Sarri.
La sessione di mercato è fortunatamente finita. La premiata ditta Cash&Goals rappresentata dal marchio #CR7 sbaracca dall’Italia delocalizzando in porti già noti e più graditi. Ho la sensazione che un “Grazzie” finale non basterà a spazzare via quella che per me è, ormai, una certezza: la Juventus ha perso parecchio sia in termini economici che d’immagine, come del resto tutta la nostra Serie A, azzoppata dalle partenze di Donnarumma, Lukaku, De Paul, Hakimi e, molto probabilmente…Frank Kessie, pronto a cedere alle soavi sirene provenienti da Liverpool, sponda Reds.
Assistiamo al ritorno dell’eterna promessa Pellegri, al nobile e poetico calcio di provincia dell’Empoli, all’avventura romantica di un Franck Ribery prossimo sposo di una Salernitana che non vuole arrendersi alla prospettiva di retrocedere senza aver lasciato il segno. E poi il Psg degli emiri, una squadra ad uso e consumo dei ragazzini che giocano ad Ultimate Team. Donnarumma, Messi, Ramos…per fortuna il calcio è uno sport che va sempre giocato sul campo. Per la serie…ci vediamo a maggio.
Bandiere non ne esistono più, così come è sparita la riconoscenza e la professionalità. I prezzi delle curve rasentano ormai il vertiginoso, allo stadio si accede solo grazie ad una tessera verde, risibile almeno quanto la vecchia “tessera del tifoso” (a proposito…ve la ricordate?). Cosa ci rimane? Un’asta fantacalcistica da svolgere tra mille incognite, sono già due settimane che non trovo pace non sapendo chi sia il secondo portiere del Bologna, né se Agudelo esploderà come merita (giudizio strettamente personale). Ibrahimovic lo prendo o non lo prendo? Fatemi sapere…
Poi, le nuove bellissime maglie dell’Avellino, che ricalcano il modello Ajax degli anni 70, rimasti nella storia della provincia per l’approdo in Serie A, speriamo portino fortuna in una città sempre più irriconoscibile e disamorata da ogni punto di vista. E poi…la storia fantasmagorica di Messias Junior, dai campionati dilettantistici alla ribalta di San Siro in pochi anni. Un barlume di normalità in un mondo sempre più tristemente patinato e scontato nei suoi contenuti.
Ci rimane poco. I tempi sono quelli che sono. Ma ho come la sensazione che, come ogni anno sempre più ciecamente innamorati, questo poco ce lo faremo bastare. Bentornato campionato.
Ultimamente sembra essere ritornata in voga una mania collezionistica che ha letteralmente perseguitato la mia adolescenza. Il calcio, si sa, apre la mente a diverse passioni, al nozionismo e alla curiosità legate al suo mondo, alla storia, alla cultura, alla geografia dei luoghi. Ed è proprio questa caratteristica a rendere questo sport “la cosa più importante tra le meno importanti”, citando il profeta di Fusignano, Arrigo Sacchi.
Guardo, a tal proposito, la mia collezione personale di maglie da calcio gelosamente conservata in un armadio appositamente dedicato. La moltitudine di colori ne fa da padrona. A riguardo non posso non pensare a come le divise che oggi idolatriamo non siano altro che il simulacro delle vecchie uniformi con le quali si solcavano i campi di battaglia, l’idea di distinguersi cromaticamente in una arena, distinguere i fratelli dai nemici, ciò che è loro da ciò che è nostro…
L’accostamento dei colori e l’immaginario che ne è scaturito ha profondamente influenzato la mia infanzia, dettando anche tempi e modi della mia fede calcistica. Mio padre saggiamente decise di spiegarmi il concetto di libero arbitrio ponendomi di fronte ad un bivio alla tenera età di sei anni: scegli, Milan o Inter! (Da buon interista non avrebbe mai potuto tollerare l’opzione bianconera). Era il mercato di Atripalda, la calda primavera del 1994, da pochi giorni l’Armata rossonera guidata da Capello aveva demolito il Barcellona in finale di Coppa dei campioni, nell’aria c’era speranza per il mondiale americano che di lì a poco ci avrebbe fatto palpitare e tribolare. La bancarella delle maglie contraffatte fu lo scenario della prima grande scelta della mia vita. “Papà, questa è forte, è rosso-nera come il fuoco, quell’altra è buona per andare a un funerale”. Molto contrariato mio padre sborsò le 5mila lire e se ne andò imprecando al destino. Io mi ero innamorato per la prima volta in vita mia e non sarebbe mai finita. Tutto grazie ad un accostamento cromatico azzeccato.
La storia delle divise calcistiche è costellata di miti, leggende, misteri, simboli. Dalle maglie delle nazionali che simboleggiano il potere delle dinastie regnanti (azzurro Savoia per l’Italia, arancio per l’Olanda in onore della casata d’Orange), fino al rosso rivoluzionario dell’Urss (CCCP), passando per il “Blanco” purissimo e cattolicissimo del Real Madrid o al modello iconico a doppio tono spezzato del Monaco disegnato dalla principessa Grace Kelly in persona…la maglie sono essenza della nostra passione e della storia dei club, nonché, ad oggi, anche un business non indifferente.
Dagli anni 80 ad oggi sono arrivati gli sponsor, i fornitori tecnici che hanno affinato sempre più gli stili personalizzando il prodotto in maniera sempre più sagace ed accattivante: le tre strisce Adidas, il rombo iconico molto British della Umbro, lo swoosh Nike, ma anche l’eleganza e l’essenzialità di marchi nostrani come NR (vero e proprio feticcio anni 80) Diadora, Lotto ed Errea.
Gli anni 90 vengono dominati dallo stile baggy e dalla stravaganza, i colori si accendono: dal giallo evidenziatore del Borussia Dortmund campione d’Europa a spese della Juve, fino alla maglia arcobaleno dei tedeschi del Bochum, passando per le iconiche maglie sfoggiate dalle squadre inglesi e scozzesi, per non parlare delle maglie fiammeggianti della nazionale giapponese. Il non-plus-ultra a mio avviso è stato il mondiale di Francia ’98: Colore, innovazione, fantasia (chi è stato bambino non dimenticherà mai la maglia “azteca” della nazionale messicana), stravaganza folle ma anche tanta tradizione.
Negli anni 2000 la comparsa di tanti altri marchi sulla scena, il modello Total 90 di Nike, le linee che di fanno sempre più futuristiche, la Kappa sdogana il modello Kombat (l’Italia del 2002, per intenderci), le forme sono sempre più attillate, la tecnologia sale di livello. Intanto, il merch diventa parte integrante degli introiti delle società, con internet compaiono i primi siti dedicati, blog, comunità intere di vendita o scambio di rarità e memorabilia.
Oggi si sta stilisticamente pian piano ritornando al passato, ma con un incremento spasmodico dell’uso della divisa di gioco: tute, felpe di rappresentanza, maglie da gioco, da allenamento, canotte, edizioni limitate da usare durante il riscaldamento, linee nuove ispirate allo streetwear, collaborazioni tra marchi di alta moda e società di calcio (come il Milan con Roc Nation o la Juve con Palace). Il tutto dato in pasto a social e a strategie di marketing che bombardano a tappeto il fruitore.
Una delle pubblicità del Paris Red Star
Forse proprio questa varietà infinita di scelta sta dando agli appassionati come me il disgusto di questo mondo dove a breve ci troveremo a dover assistere a presentazioni di nuove maglie ogni tre mesi. Mentre sto scrivendo, il PSG ha appena presentato la sua quarta (Sic!) maglia stagionale, un obrobrio nero-porpora che ricorda vagamente i colori galattici dello spazio, con Neymar e Mbappè presentati come alieni provenienti da un’altra dimensione. Chissà se basterà la solita grandeur a portare la tanto agognata Champions sotto la Torre Eiffel quest’anno..
Del resto, pecunia non olet. Fin quando ci saranno appassionati folli come me disposti a spendere pur di avere un armadio pieno di divise rare…
Mi ritrovo molto spesso in questa fase della mia vita a riflettere sul significato della parola sconfitta, a quanto questa condizione abbia influenzato e continui ad influenzare la mia esistenza.
In un’epoca dominata da un’“effimera positività” veicolata dalle mostruosità social noto sempre più l’enorme difficoltà dell’individuo nell’ammettere la sconfitta in ogni sfera dell’esistenza, nel tollerare anche solo la possibilità di rientrare per una volta nella tanto temuta zona oscura del fallimento. Lo sport e la sua immagine riflessa nei circuiti mass-mediatici degli ultimi decenni ne è la prova lampante: non è difficile rilevare come fama e prestigio, biografie e celebrazioni vengano ormai misurate nell’ unico ed imperante metro di misura ad oggi valido, ossia quello delle bacheche dei trofei, individuali o collettive.
Quanti soldi hai, quante donne hai, quanti followers hai, quanti trofei hai vinto: è il “cretinismo economico” di gramsciana memoria sollevato a parametro risolutore di ogni tipo di valutazione. Un giudizio di valore calante a mo’ di spada di Damocle sulla testa di ognuno di noi, che non potrà mai sfuggire alla fredda condanna della matematica. Sarà per questo che, nel campo del mio sport preferito, sono sempre stato legato a figure che, oltre alle vittorie, hanno saputo scandagliare a fondo anche l’altra metà del cielo, più oscura e scomoda, quella della sconfitta, in campo così come nella vita. Ed ecco che alla cantilena recitata dei ricchi palmares di Cr7, Messi o Ibrahimović (lo dico da milanista sfegatato, quanto mi tedia ormai la stantia narrazione di supereroe invincibile!), ho sempre preferito i colpi pazzi e sregolati di Savicević, Gasgoigne, Cantona o Tino Asprilla.
Cantona dopo il celebre episodio che lo tenne lontano dai campi per mesi (Credit: PA Wire) .
Le ultime sonnacchiose partite a porte vuote giocate dalle nazionali mi hanno fatto profondamente riflettere, non solo su quanto la geografia del football stia drasticamente cambiando, ma su come certe attitudini, in fondo, non cambino mai. E se vi è un popolo che più mi ricorda l’attitudine alle pazze vittorie e alle tragiche sconfitte è sicuramente quello jugoslavo, un popolo che oggi, ironia della sorte, non esiste più se non nei cataloghi della Jugonostalgija o negli aneliti sopiti delle ormai tristemente vuote cattedre di lingua serbo-croata. Frammentati in sei repubbliche, i balcanici sanno ancora offrire spettacoli ai miei occhi bellissimi e rocamboleschi.
Jugoslavia anni 90.
La Serbia di Milinković-Savić è fuori dagli Europei, capitola a Belgrado dopo la lotteria dei rigori contro una modesta Scozia, tornata sulla ribalta internazionale a 24 anni dalla rassegna iridata di Francia ’98. “Possono vincere contro chiunque e perdere contro…chiunque!”: eccolo il motto che da sempre accompagna il calcio balcanico. Sarà per l’orgoglio ferito o per il sangue bollente che scorre a fiotti da quelle parti, ma dopo pochi giorni le Orlovi (le aquile, questo il nomignolo affibbiato alla selezione serba) asfalta i fratelli russi con un pesante 5-0 in un innocuo incontro di Nations League. A Belgrado l’importante è esagerare, in negativo o in positivo… poco importa.
Serbia – Russia
La Macedonia “del Nord” (la geografia politica dell’ultim’ora impone nomi tanto nuovi quanto vecchi…) mette la testa fuori dal sacco qualificandosi per la prima volta ad una rassegna internazionale. Il “nostro” affezionatissimo Goran Pandev si prende scettro ed opale alla conquista del continente, è il nuovo Alessandro Magno: in una fredda notte caucasica piega la Georgia e scrive una nuova e bella pagina di cultura sportiva in un Paese ancora alla ricerca della propria identità nazionale, impegnato a litigare con greci e bulgari, a turno.
Pandev festeggia la storica qualificazione della Macedonia del Nord agli Europei.
La festa impazza per le calde strade di Škopje, dove è ancora vivido il ricordo dell’ultimo macedone ad aver scritto il proprio nome nella storia. Parliamo del mitologico Darko Pančev, macchina da gol alla Stella Rossa, clamoroso bidone all’Inter, un Giano bifronte del pallone dai tratti inspiegabili, che ha incarnato tutto lo spirito sornione, tragicomico, fatalista e stralunato di questo popolo capace di tutto.
Giocatori come Savicević, capaci di leziose e tanto “montenegrine” dormite colossali, ma anche di guizzi risolutori da capogiro (per info contattate Andoni Zubizarreta, vedete che vi dice…), ci riconciliano con l’umana esistenza, con la complessità delle nostre vite, in un mondo dove valiamo sempre e solo se vinciamo e possediamo qualcosa o nei casi peggiori, qualcuno. Spesso mi vengono in mente le lacrime di Baresi a Pasadena e credo proprio che certe esternazioni siano state cancellate dalla circolazione: mai piangere, sempre sorridere, mai perdere. Eccola, la vera tristezza. In questa ottica non mi meraviglio dello scalpore che hanno suscitato nel mondo del web le dichiarazioni rilasciate da un gigante come Maldini (è il quarto rossonero che cito, lo so, perdonatemi…): “sono uno dei calciatori più perdenti della storia”. Una frase tagliente, spiazzante, quasi da sembrare ironica, proferita con una fermezza ed una lucidità disarmante, capace di scioccare anche i suoi colleghi più prossimi, costernati: “Paolo, ma…ma che stai dicendo?”. Immaginate un Cr7 o un Ibra dire una cosa del genere. Non ci riuscirete.
Sarà che oggi il “Sole dei vinti” ci risulta più pallido e freddo che mai (passatemi la citazione che qualcuno potrebbe trovare…scomoda…), ma credo che cancellare la sconfitta dalle nostre vite e dalle nostre bacheche sia come perdere due, tre, quattro volte. E allora amici in alto i calici… brindiamo a quel sangue balcanico che di volta in volta ci ricorda che essere uomini vuol dire trattare successo e disgrazia come lo stesso impostore (ops, altra citazione). Ogni mattina faccio come Maldini e mi guardo allo specchio: “sono Giannicola, sono uno dei più perdenti della storia”. Accenno un sorriso che assomiglia a un ghigno. Fine. Sipario.
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