Si materializzano i fantasmi di San Siro. Fa capolino anche Giampiero Ventura, come in un film horror che si rispetti la mummia prende vita e scoperchia il suo stesso sarcofago. Dietro di lui fa capolino un manipolo di zombie vestiti con i colori svedesi.
No, non è una nuova trovata dei social media managers dell’Ikea.
Si, ci siam cascati di nuovo.
Avete già capito.
La nazionale italiana di calcio si gioca il viaggio in Qatar tramite i play-off.
La strana mutazione genetica in atto negli Azzurri sarà stata scaturita da un virus, probabilmente una variante neanche poi tanto rara, quella dell’appagamento e della svogliatezza. Mancini & Co. si saranno probabilmente contagiati sulla strada del ritorno da Londra. Mai si era vista la squadra campione d’Europa in carica perdere la bussola del gioco in questo modo. Jorginho manda all’aria una qualificazione data per certa, il rigore calciato non preoccupa minimamente lo svizzero Sommer. Il disgraziato muro di Belfast ha fatto il resto.
Verdetto? Una squadra che in estate mostrava tenacia e numeri strabilianti non fa più gioco, manovra sterilmente, quanto peggio…non segna. Ce lo aspettavamo? Personalmente un po’ sì. Le grandi vittorie della nazionale sono sempre state storicamente seguite da clamorosi scivoloni, così come storiche brutte figure sono stati il prologo di trionfi impensabili alla vigilia.
L’urna dei play off sembra aver completato il prologo di quello che si preannuncia essere un dramma sportivo in piena regola: l’abbordabile Macedonia in casa, per poi eventualmente sfidare Portogallo ( a Lisbona) o Turchia (a Istanbul) in una gara singola da dentro o fuori da fare paura a chiunque.
Joao Pedro, il ritorno di Balotelli, addirittura la naturalizzazione di Ibanez…la stampa è nel panico, serve disperatamente il solito attaccante che manca dai tempi di Bobo Vieri, cercasi soluzioni accattivanti in pieno stato parossistico, proposte a tratti surreali che la dicono lunga sullo stato mentale di un Paese sull’orlo di una crisi di nervi.
Eppure…basterebbe riacquisire un attimo di lucidità e capire che basterebbe ritrovare lo spirito dei tempi migliori, attendere Immobile e Spinazzola, ricompattare la difesa e…. attendere. Lisbona o Istanbul, che sia, saranno gli avversari a premere sin dall’inizio in un ambiente a dir poco infuocato. Il meglio del nostro gruppo è venuto fuori proprio in queste situazioni qui, sarà necessario fare una partita “italiana”:
Vigile attesa, copertura degli spazi, contropiede, nervosismo avversario, un po’ di bastone, classico gol da palla inattiva. Siamo maestri nello sgonfiare le tronfie ambizioni altrui. Cristiano Ronaldo o Çalhanoğlu contro, poco importa. Basta chiedere ai sudditi di Sua Maestà.
Manteniamo la calma. Se tutto va bene…ci sorbiremmo l’ennesimo scempio di questo mondo nuovo: le sfilate mondiali, quelle con le trombette, i fumogeni e i tricolori, con il cappotto, tra un aperitivo natalizio ed un altro, magari sotto una bella nevicata. Non so voi…ma non ne avrei proprio voglia…
La volta scorsa abbiamo parlato di come un gruppo unito e compatto, privo del campione che emerge su tutti gli altri, possa essere in grado di compiere imprese eccezionali poiché i singoli calciatori realizzano se stessi all’interno di un contesto più generale. D’altra parte, però, una squadra di calcio non è la semplice somma delle sue parti. Che fine fa la diversità intrinseca delle singole individualità nella totalità di una squadra? Come può convivere una spiccata personalità, il talento, in uno schema unico? Dopo aver scomodato Hegel, è necessario chiamare in causa un altro fuoriclasse della filosofia tedesca, Immanuel Kant.
IL GENIO
Nella Critica del Giudizio (1790), il filosofo di Könisberg elabora sua personale concezione del “genio”:
«Il genio è il talento (dono naturale), che dà la regola all’arte. Poiché il talento, come facoltà produttrice innata dell’artista, appartiene anche alla natura, ci si potrebbe esprimere anche così: il genio è la disposizione innata dell’animo per mezzo della quale la natura dà la regola dell’arte» (Critica del Giudizio).
Al contrario della scoperta scientifica, che è il risultato di un metodo, quindi insegnato e imitato, la produzione artistica non segue metodi scientifici, ma si fonda su regole che provengono dalla natura. Kant identifica le prerogative del genio in tre aspetti: 1) il genio è originale; 2) il genio è capace di produrre opere esemplari, ossia che fungono da modelli per gli altri; 3) il genio non può mostrare scientificamente come compie la propria produzione. A differenza di quanto si possa pensare, il genio non è accompagnato da quella sregolatezza di cui tanto si decantano le lodi. L’originalità dell’arte deve essere sempre accompagnata dalle regole della natura, altrimenti si cadrebbe nella stravaganza. Per questo motivo, l’opera d’arte è insieme la sintesi di necessità e libertà. Per quanto libera e geniale sia infatti l’ispirazione dell’artista, egli dovrà tuttavia fare i conti con le regole del mondo della natura.
Questa concezione funziona perfettamente per capire i meccanismi di una squadra di calcio. Il campione (il genio, il talento) non deve limitare le proprie potenzialità ma deve esaltarle per metterle al servizio del gruppo. Tale modello, quindi, riesce sia a mantenere alto lo spirito complessivo della squadra sia a rispettare il ruolo di una personalità straordinaria all’interno di una complessità. Il genio che si esalta sulla base di regole ben specifiche si incarna perfettamente nella figura di Johan Cruijff e nella nazionale olandese.
IL PROFETA DEL CALCIO E L’ARANCIA MECCANICA
Nelle discussioni su chi sia il più forte calciatore di tutti, ancora oggi non si è trovata risposta certa. Il binomio Maradona-Pelè è stato ultimamente da quello composto da Cristiano Ronaldo e Messi, per rendere ancora più ardua la sentenza di noi appassionati. C’è una chiave però sulla quale tutti sono d’accordo senza lasciare spazio alle interpretazioni. Se dobbiamo soffermarci sul calciatore che più di tutti ha lasciato un segno nel calcio in senso assoluto, la risposta non può che essere Johan Cruijff. Non si parla solamente del fatto che dall’idea calcistica del fenomeno olandese siano nate quelle che rimangono le ultime rivoluzioni della storia calcio, ossia il Milan di Sacchi e il Barcellona di Guardiola (che di Cruijff è stato un allievo diretto), ma di come i suoi concetti tattici siano alla base del calcio moderno: la creazione dello spazio, il possesso palla e la circolazione del pallone, il falso nueve, l’inserimento in area dei terzini. Tutto ciò realizza la visione di un calcio che vedeva nell’organizzazione collettiva l’esaltazione della singola genialità. E il genio è Johan Cruijff, nemmeno a dirlo. Difficilmente inquadrabile in un ruolo specifico, sapeva unire il senso della posizione di un difensore, le doti di impostazione di un regista e la reattività di un attaccante. Dal suo talento prende vita il ciclo leggendario dell’Ajax e del calcio olandese: con i Lancieri vincerà, dal 1964 al 1973, 6 Campionati, 4 Coppe dei Paesi Bassi e alzerà per 3 anni consecutivi la Coppa dei Campioni, dal 1971 al 1973. Nel ’71, nel’72 e nel ’74 vince il Pallone d’Oro, il primo a riuscirci. Nel pieno del suo splendore calcistico lascia l’Ajax e l’Olanda, e si trasferisce, nel 1973, al Barcellona che riporta subito al titolo, dopo 13 anni di digiuno e di dominio del Real Madrid. Cruijff è il primo violino di quella meravigliosa e sfortunata orchestra che sarà la nazionale olandese ai Mondiali del 1974, l’Arancia Meccanica. Il gioco dell’Olanda di Cruijff, allenata dal leggendario Rinus Michels, passerà alla storia come calcio totale, per la fluidità interpretativa da parte di ogni singolo componente della squadra: tutti partecipano alla manovra d’attacco, tutti si fanno carico delle mansioni di copertura nella fase di difesa. Quando un giocatore passa la palla al proprio compagno, egli prenderà successivamente il suo posto in quella zona del campo, in modo da coprire tutti gli spazi. Il talento di Cruijff è perfettamente inserito in questa macchina quasi perfetta. Quasi perfetta perché il sogno di vincere la Coppa del Mondo sbatte sulla Germania Ovest di Franz Beckenbauer e Gerd Müller, che nella finale di Monaco di Baviera si impone per 2-1. Uno dei pochissimi casi in cui un secondo posto riesce a rubare la scena a un primo perché «i risultati finiscono sugli almanacchi, lo spettacolo resta nella memoria» (Fabrizio Tanzilli, Lo spazio della libertà).
La vita è composta da una sequenza di attimi banali e spesso continui e ricorrenti. Ci alziamo sempre alla stessa ora, ma la domenica si può fare un po’ più tardi. A colazione mangiamo sempre i cereali della stessa marca ma a volte ci concediamo il vizio di un cappuccino e di un cornetto. Andiamo lavoro anche se vorremmo già essere in vacanza. Una volta tornati a casa e ceniamo la prima cosa che ci capita per le mani. Dopo aver visto il solito programma alla televisione, andiamo a dormire e tutto ricomincerà da capo.
Se, come molti affermano, il calcio è metafora della vita, una partita può presentarsi noiosa e includente come la giornata qualunque di una persona qualsiasi. Nessuna conclusione in porta da parte di entrambe le squadre. Passaggi semplici in orizzontale. Possesso palla sterile e poco efficace. 0 a 0, nessuna emozione.
All’improvviso qualcosa accade. Il difensore, troppo sicuro delle sue doti, sbaglia il passaggio verso il proprio compagno. L’attaccante coglie l’errore. Intercetta la palla, corre verso la porta e segna. I più scettici definirebbero questa circostanza come un semplice caso. Il difensore ha solo sbagliato un passaggio e l’attaccante ha avuto fortuna ad intercettare il pallone e segnare.
Ma per i credenti del calcio non è così semplice come occasione. Da parte dell’attaccante c’è lo studio del difensore. Ha capito che avrebbe eseguito un passaggio superficiale. C’è l’osservazione minuziosa del pallone. Il centravanti puro conosce la sua circonferenza, la sua traiettoria e le sue deviazioni. Ci sono movimenti, a volte anche inutili, per smarcarsi. Uno è quello importante, uno è quello decisivo. Non è solo fortuna. È l’insieme di tutti questi fattori che porta all’illuminazione, allo scatto decisivo. Alla gloria. È il momento opportuno che cambia le sorti della partita.
I greci utilizzavano un termine per esprimere questo concetto: kairós, “il momento opportuno”, “il momento supremo”. Durante il chronos “il tempo lineare” e sequenziale, c’è un momento (kairós) in un cui qualcosa di meraviglioso accade. Nel Politico, Platone afferma che una delle qualità fondamentali dell’uomo politico è cogliere il kairós. Egli sa quando inviare gli eserciti a fare la guerra, sa quando è il momento di inviare ambasciatori in periodo di pace, sa quando emanare la migliore legge per la città. L’arte politica richiede intelligenza, creatività, astuzia e di cogliere l’occasione propizia nelle situazioni improvvise. Paolo Rossi ha colto il suo kairós a Barcellona il 5 luglio 1982.
Fa caldo quel giorno, come in tutta quell’estate spagnola del 1982. L’Italia aveva appena vinto contro l’Argentina nella prima partita della seconda fase a girone ma le polemiche e non si erano ancora raffreddate. La stampa non risparmiava righe per attaccare la nazionale dopo la prima deludente fase a gironi ma soprattutto ce l’avevano ancora per Bearzot per aver avuto la scellerata idea di convocare Paolo Rossi dopo i due anni di squalifica per il calcio scommesse e fin lì non ancora in forma e a secco di gol.
Come detto, fa caldo. Di fronte c’è forse la nazionale più forte di tutti i tempi. Falcao, Zico, Socrates, Cerezo, Junior. Nessuno aveva mai visto in campo una tale quantità di talento in un’unica squadra. Contro giocatori del genere si può solo attendere la fine della partita e dichiarare umilmente la propria inferiorità. Ma Paolo Rossi non ci sta. Sa che quella è l’occasione giusta per riprendersi il rispetto che merita. 5’ minuto di gioco. Sulla sinistra Cabrini fa partire un traversone. Paolo Rossi è all’interno dell’area di rigore. Si stacca dal suo marcatore, si allunga sul secondo palo lasciandosi dietro i difensori e insacca di testa. Il Brasile non si piega e pareggia poco dopo con il proprio capitano, Socrates. La Seleçao palleggia, forte del proprio talento. A un certo punto Rossi coglie l’incertezza nel passaggio in orizzontale di Junior sulla trequarti. Intercetta la palla, è più veloce di tutti. Corre verso l’area e al limite fa partire un tiro che il portiere verdeoro non può parare. 2 a 1, e così finisce anche il primo tempo. Nella ripresa il Brasile non si arrende. Falcao si porta al limite dell’area di rigore azzurra. Una serie di finte. Tiro di sinistro e palla che finisce nell’angolo in cui Zoff non arriva. 2 a 2. Sembra tutto perduto per l’Italia. Al Brasile serve anche un pareggio per passare il turno. Per la squadra azzurra si prospetta un rientro difficile condito dalle solite polemiche. Gli dei del calcio però hanno altri piani e Paolo Rossi lo sa molto bene.
Calcio d’angolo per l’Italia. La palla spiove in mezzo e viene respinta di testa fuori dall’area. Tardelli l’intercetta e fa partire un tiro al volo verso la porta del Brasile. Rossi è sulla traiettoria e devia il pallone in rete. 3 a 2 per gli azzurri. È il trionfo della nazionale, di Bearzot e di Paolo Rossi. Il dream team verdeoro è eliminato e l’Italia approda al turno successivo. Il resto è storia nota. Rossi segna altri due gol contro la Polonia in semifinale e uno contro la Germania Ovest in finale. L’Italia è campione del modo. Paolo si aggiudica il titolo di capocannoniere del Mondiale e a fine anno vincerà anche il Pallone d’Oro.
Il talento di Paolo Rossi consisteva nel giocare senza palla. Non aveva un grande fisico e per farsi spazio tra i rocciosi difensori degli anni ’80 ha dovuto sviluppare altre qualità. Dove non arrivava la potenza, arrivava l’astuzia e l’intelligenza. Rossi ha saputo cogliere l’occasione della vita in un’estate torrida del 1982. Più che nei trofei e nelle vittorie, la vera essenza del calcio risiede in gol come quelli di Paolo contro il Brasile. Qualcuno dirà che li ha potuti segnare per caso o per qualche coincidenza ultraterrena. Dietro quei gol si nasconde la sua capacità di saper leggere le situazioni (il primo), di saper approfittare delle incertezze degli avversari (il secondo) e il sapersi trovare al momento giusto nel posto giusto (il terzo). La capacità di cogliere il kairós di cui parlava Platone nel Politico. Non è un caso segnare tre gol al Brasile, a quel Brasile! E non un caso segnare altri tre gol nelle partite decisive del torneo. In mezzo al tempo lineare della storia quindi, il 5 luglio 1982 sarà sempre ricordato in cui un esile ragazzo italiano cambia per sempre il proprio nome. L’attimo di Pablito.
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