Paese che vai narrazione che trovi

Paese che vai narrazione che trovi

Ma perché non te ne vai? Che fai qua?!?

Alzi la mano a chi, in vita sua, non è stata rivolta questa esclamazione, camuffata da domanda?

Alzi la mano chi, in vita sua, in seguito al quesito retorico sopracitato non ha vissuto attimi di esotiche fantasie in cui per un breve momento si è immaginato altrove, alle prese con nuove sfide e nuove avventure?

Sono sicuro che non basterebbe uno stadio per contenere tutte le persone che si sono ritrovate a dover fare i conti con queste parole. Almeno una volta nella vita, ognuno di noi avrà dovuto rispondere all’inquisitore di turno. Almeno una volta nella vita ognuno di noi avrà dovuto rispondere a se stesso. Ma procediamo con ordine.

IL PERCHÉ DELLA DOMANDA

Chi vi scrive quelle parole le ha ascoltate spesso, in forme ed espressioni diverse. Parole che negli anni hanno assunto differenti suoni e flessioni: qualche volta sono state pronunciate come un consiglio fraterno, altre volte come un’esclamazione violenta, sofferente e disperata.

Sprezzata rassegnazione di una generazione, precedente o contemporanea, che di fronte agli invalicabili ostacoli non ha potuto far altro che gettare la spugna. Non ha potuto far altro che immaginare per sé una vita differente che non potrà più esserci, ma che continua ad accompagnare i pasti, gli aperitivi e le notti provinciali di molti.

Una rassegnazione prodotto di una narrazione distorta che riporta la provincia ad essere intesa, analizzata e vissuta come un qualcosa di unidimensionale da cui è impossibile sfuggire. Ma soprattutto la porta ad essere letta solo ed esclusivamente attraverso schemi interpretativi provenienti, e quindi funzionali, dai grandi centri.

Quindi ci ritroviamo immersi in una certa varietà di narrazioni, questo è vero, ma tutte incompatibili tra di loro e soprattutto tutte frutto di un punto di vista esterno. Si fa fede ai diversi modelli standardizzati di provincia tra cui, senz’altro quelli più comuni sono la “provincia presepe” e la “provincia meccanica”.

La prima è il risultato di anni e anni di erosione democristiana che hanno raggiunto l’apice in questi anni con la promozione e diffusione dei servizi del Tg3 regionale in cui presentano paesi e cittadine da piazze inverosimilmente gremite dove ragazze con vestiti tradizionali ballano a ritmo di musica popolare in un’orgia di dolci e piatti tipici e dove le persone festanti si ritrovano in difesa del proprio campanile.

La seconda è il risultato delle trasmissioni pomeridiane dai colori accesi in cui reporter d’assalto si ritrovano catapultati nella provincia di … e nel comune di … e dove si è sempre consumato qualche efferato delitto per cui è bene concludere generalizzando che la provincia è quella parte di Italia dove si consumano le peggiori violenze.

Schiacciati da queste forme di narrazioni ci si convince, a seconda del caso, che le realtà in cui viviamo sono terre di sole e nacchare durante il sabato e la domenica e terre senza dio dal lunedì al venerdì. Schiacciati da ciò ci si convince che forse l’unica soluzione giusta è quella di lasciare casa e raggiungere altre sponde.

IL PERCHÉ DELLA RISPOSTA

Alla visione unidimensionale si contrappone un universo pieno di sfumature e difficile da definire ed interpretare attraverso una sola chiave di lettura. Lo dimostrano i 150 metri quotidiani che dividono la mia abitazione dal luogo in cui lavoro.

In meno di un chilometro è possibile raccontare diverse forme di provincia con le sue problematiche e le sue battaglie.

Una provincia che si sveglia ogni mattina e deve fare i conti con il continuo tasso di inquinamento dell’aria e delle falde.

Una provincia che nel corso degli anni 80 ha vissuto una delle prime forme di gentrificazione del centro storico, “grazie” alla ricostruzione del post terremoto.

Ma in quei 150 metri che mi separano da casa al lavoro è possibile vedere la voglia e la capacità di una generazione di non arrendersi agli schemi prestabiliti per loro, che ha tentato di riscrivere quel piccolo pezzo di vita che li aveva già assegnati ai soliti consumi e ai soliti divertimenti.

Così quando mi dicono: Che fai ancora qui? Perché non te ne vai?!?

Ripenso a quante storie quei 150 metri riescono a contenere e a quanto sia necessaria una nuova politica del fare, come scriveva spesso Manlio Rossi Doria, e quanto sia importante il nostro ruolo qui, per non dover andare altrove a cercare un racconto di noi che è qui ed ora.

S di Superman, come Speranza

S di Superman, come Speranza

Quest’anno sta volgendo al termine, pochi giorni ancora e potremo dire addio a questo 2020 che è stato tutt’altro che normale. Ci ha abituato a nuove situazioni, estranee alla nostra quotidianetà e ci ha mostrato che possiamo migliorare sia singolarmente che in gruppo. Poi ovvio ci sono voci fuori coro che sono pronte a negare qualsiasi situazione.

In quest’anno ho ritrovato in parte la voglia di leggere e anche grazie ad Andrea, di scrivere. In questo interminabile 2020 ho spesso parlato e cercato di contestualizzare giochi, serie TV, film o fumetti per le tematiche proposte. Anche in questa fase finale proverò a parlare di fumetti, in particolare di un personaggio che bene o male conosciamo tutti : Superman.

E’ un uccello? E’ un aereo? No è Superman!

E’ il 1933 quando sulle pagine di Action Comics viene pubblicato il personaggio di Superman, creato da Jerry Siegel e Joe Shuster per poi nel 1938 passare alla DC Comics. E’ il primo supereroe a nascere ed è il primo ad entrare nell’immaginario collettivo da quel momento.
Superman nasce su Krypton, un pianeta alieno ma che non riesce a conoscere poichè è prossimo alla distruzione e i genitori decidono di inviarlo sulla Terra su una navicella per salvarlo; una volta arrivato, viene trovato da una coppia di agricoltori del Kansas: i Kent. I neogenitori lo adottano senza pensarci due volte anche perché non avevano possibilità di avere figli e quell’arrivo inaspettato dallo spazio, realizza il loro desiderio di averne; da quel momento il suo nome cambia da Kal-El a Clark Kent.
La figura di Superman è particolare, poiché è metafora di alcune situazioni e richiami sociali; la più classica è quella dello straniero, del contadino che si trasferisce in città dalla campagna e deve adattarsi a ciò che è nuovo per lui. Dalla piccola Smallville (di cui fu fatta anche una serie tv) si trasferisce a Metropolis, dove cerca fortuna e inizia a lavorare come giornalista al Daily Planet. Fin da bambino Superman è il diverso, sia per la sua nascita aliena che per i suoi poteri che gli permettono di essere “superiore” agli altri ma con gli insegnamenti impartiti dai genitori, non diventa mai superbo e in parte richiama la figura dell’Übermensch, di Nietzsche. Un’altra metafora che viene richiamata è quella cristiana, Kal-El come Gesù, l’avvento dello spirito santo nel ventre della Madonna e la nascita del redentore.

Il primo numero di Action Comics, dove fu presentato per la prima volta Superman al pubblico

Luce e ombra

Superman è forse il personaggio più conosciuto della DC, a pari merito con Batman. I due personaggi hanno origini simili poiché entrambi diventano orfani ma con la differenza che Superman viene adottato da una coppia di agricoltori mentre Batman, alias Bruce Wayne, viene cresciuto dal maggiordomo Alfred,
Entrambi i personaggi da adulti diventano supereroi ma rappresentando due idee diverse: Batman, nella gotica Gotham City, incarna lo spirito della paura mentre Superman, nella solare Metropolis, è la speranza.
Diversi ed opposti riescono a completarsi come in una moderna visione di Yin e Yang, dove uno è un semplice uomo che riesce ad essere il protettore della sua città e l’altro è paragonabile a Dio, onnipresente sulla Terra.
Ma nella loro diversità riescono insieme ad altri supereroi a creare la Justice League, un gruppo che come obiettivo ha la difesa del pianeta da qualsiasi minaccia interna o esterna.

Superman e Batman disegnati da Alex Ross

Multiversity

Una caratteristica dell’universo DC è la presenza di storie ambientate in Elseworld, realtà dove i protagonisti delle storie vivono esperienze diverse. Superman non è escluso da questo “concetto” ed anzi spesso e volentieri è il protagonista di queste realtà alternative. Diverse le storie che mostrano un Clark Kent diverso da quello a cui siamo abituati a conoscere, cresciuto in luoghi differenti ma sempre faro di speranza per la Terra.
Per esempio Mark Millar in Red Son ha fatto atterrare la navicella kryptoniana nell’Unione Sovietica, dove il nostro superuomo viene indottrinato con l’ideologia comunista e una volta adulto la esporta in tutto il mondo. Ma esiste un elseworld che più di tutti mostra come la speranza che porta Superman sia sempre la stessa a prescindere dall’origine : Multiversity. E’ una mini serie scritta da Grant Morrison e disegnata da vari artisti, tra cui Jim Lee, e ci mostra varie realtà in cui l’uomo d’acciaio nasce e cresce.
In una storia è Overman, il rappresentante del nazismo mentre in un’altra è il presidente degli Stati Uniti e il suo aspetto ricorda Barack Obama. Tutte queste storie, tutte queste origini portano sempre allo stesso finale dove il nostro supereroe è la persona su cui le persone affidano la propria speranza, il volto amico che è pronto a sacrificarsi per il bene di tutti.
Diciamo che questo 2020 con le sue sfide, le sue avversità e i suoi cambiamenti ci ha portati ad essere un po’ tutti come l’uomo d’acciaio, pronti a guardare al 2021 con una speranza inossidabile.
Perché nel profondo del nostro cuore abbiamo il potenziale per essere dei super, per affrontare qualsiasi sfida che il futuro ci porrà avanti a noi.

La cultura è una bella impresa

La cultura è una bella impresa

Cara Fabiana,

in questi giorni ho fatto, visto e ascoltato un po’ di cose, per cui ora sono attraversata da molte sensazioni, da molti pensieri. Settembre, il mese dei buoni propositi, è giunto ormai al termine. Dalla finestra accanto alla scrivania da cui ti scrivo vedo le foglie degli alberi cadere, innumerevoli, pronte ad adagiarsi leggere sulla strada, a formare un manto scricchiolante. Sono le cose passate – non importa se belle, brutte, complete o incomplete – e lasciano spazio a rami spogli, pronti ad ospitare cose nuove.

Anche io tra qualche giorno spezzerò la vecchia routine “estiva” e riprenderò quella più impegnativa, anche io, come tutti, cercherò di trasformare i miei buoni propositi in realtà. Intanto, però, approfittando della presenza dei nostri genitori in città, ho camminato per le strade di Parma e visitato alcuni paesini limitrofi.

Sono stati giorni molto intensi, durante i quali ho scoperto luoghi nuovi – come Soragna, Fontanellato, Castell’Arquato – camminato tra costruzioni medievali, ammirato castelli e rocche, contemplato opere e affreschi.

Non c’è dubbio, la cultura la si apprezza sul serio quando è una scelta. Poi, nel momento in cui questa scelta coincide con la libertà da impegni e la leggerezza di animo e mente, ecco che si coglie tutta l’intensità di significati che vi è in quello che osserviamo.

Fare cultura è una bella impresa. Il primo incontro con questa sconosciuta avviene attraverso la scuola che ha il compito di formare l’individuo, di trasferirgli il sapere umano al fine di favorire la costruzione di una personale forma mentis e il conseguente inserimento nella società.

Di certo la scuola fa il suo dovere, ma il fatto che frequentarla appaia come un obbligo, fa sì che qualcosa si perda. Parlando della mia esperienza personale – e sono certa anche della tua – io mi ricordo di una ragazzetta emozionata all’idea di andare a scuola solo il primo giorno, e non per quello che avrei imparato, ma all’idea di incontrare i miei compagni, raccontarsi le reciproche esperienze estive. Un’emozione che sbiadisce già al secondo giorno per poi scomparire totalmente per il restante anno e lasciare il posto all’ansia di interrogazione, alla scocciatura dei compiti a casa, all’odio o alla simpatia verso questo o quel professore.

Fare cultura è una bella impresa e i docenti, i principali operatori di cultura, ne sanno qualcosa. A loro il difficilissimo compito di trasferire, ancora prima dei concetti che costituiscono la conoscenza, la passione per la cultura. Purtroppo, parlando della nostra esperienza personale, sono pochi i docenti che ci sono rimasti nel cuore e, a ripensarci, ognuno di loro non solo faceva il proprio mestiere con passione, ma soprattutto non seguiva il tradizionale iter di insegnamento spiegazione – compiti – interrogazione.

Ricordi, abbiamo amato la filosofia per il circle time in cui potevamo esprimere il nostro pensiero su un argomento con estrema libertà, abbiamo amato la letteratura perché ci hanno mostrato gli strati di significati racchiusi in dei versi, perché in viaggio con Dante nell’oltretomba c’eravamo anche noi.

Fare cultura è una bella impresa, lo sanno anche tutte quelle persone impegnate nella sua promozione attraverso l’organizzazione di eventi. Eh sì, cara Fabiana, a me sembra quasi strano, ma la cultura ha bisogno di pubblicità e anche tanta.

Quando siamo bambini o adolescenti, con tanto tempo a disposizione, non ne cogliamo l’importanza e quando diventiamo grandi abbiamo mille impegni e poco tempo da sprecare.

Eppure la cultura ci avvolge: è in ogni angolo, in ogni palazzo e monumento della nostra città, in quei libri messi in fila troppo ordinati sulla nostra libreria, nelle persone che ci circondano. Spesso, però, non la vediamo, troppo presi dalle “cose serie” o dai social. E così ecco spiegata la necessità di promuovere.

Fare cultura è una bella impresa, ma lo è ancora di più fermarsi a contemplare in una via quella statua che è lì praticamente da sempre, ma che ogni giorno guardi distrattamente mentre corri a lavoro. Non c’è bisogno di nessun professore, di nessun promotore della cultura. Basti tu, la statua e, se hai un pizzico di curiosità, basta prendere il cellulare e usare internet per saperne di più sulla sua storia.

Io l’ho fatto, sono entrata nel Duomo di Parma e per la prima volta ho visto i fantastici affreschi che adornano le sue pareti. Presa da chi sa quali pensieri, seppur vi fossi entrate altre volte, non li avevo mai visti realmente. Questa volta, invece, erano lì, belli, maestosi, da toglierti il fiato. Ci sono sempre stati, ma evidentemente prima non vi ero io, con la testa chissà dove.

Rallentare è il segreto. Certo, il lavoro, gli impegni non si possono mettere da parte, ci danno da mangiare. C’è necessità, però, di alimentare anche la nostra anima, spesso affamata e lasciata in un angolo. La cultura è il cibo più prelibato, non costa nulla e arricchisce tanto.

Certo, questa non è la scoperta dell’America, ma un conto è sapere, un altro è prenderne piena consapevolezza e concretizzarla in azione. Io, per prima trovo difficile mettere in pratica tutto ciò, ma quei luoghi e tutte quelle cose che ho visto in questi giorni, a mente sgombra, il beneficio che ne ho avuto, mi hanno resa più consapevole e questo è già un bel primo passo.

Ora, ad esempio, mi sento un po’ malinconica. Penso a Napoli, lontana e della quale posso godere solo per alcuni giorni quelle poche volte che riesco a tornarci. Ecco, fossi lì, ora, prenderei e scenderei per i suoi vicoli a respirare tutta quella cultura di cui trasuda. Fallo tu per me se puoi.

Fare cultura è un noi – L’uomo che rubava il Colosseo

Fare cultura è un noi – L’uomo che rubava il Colosseo

Una volta un uomo si mise in testa di rubare il Colosseo di Roma, voleva averlo tutto per sé perché non gli piaceva doverlo dividere con gli altri. Prese una borsa, andò al Colosseo, aspettò che il custode guardasse da un’altra parte, riempì affannosamente la borsa di vecchie pietre e se le portò a casa. Il giorno dopo fece lo stesso, e tutte le mattine tranne la domenica faceva almeno un paio di viaggi o anche tre, stando sempre bene attento che le guardie non lo scoprissero. La domenica riposava e contava le pietre rubate, che si andavano ammucchiando in cantina.

Quando la cantina fu piena cominciò a riempire il solaio, e quando il solaio fu pieno nascondeva le pietre sotto i divani, dentro gli armadi e nella cesta della biancheria sporca. Ogni volta che tornava al Colosseo lo osservava ben bene da tutte le parti e concludeva fra sé: «Pare lo stesso, ma una certa differenza si nota. In quel punto là è già un po’ più piccolo». E asciugandosi il sudore grattava un pezzo di mattone da una gradinata, staccava una pietruzza dagli archi e riempiva la borsa. Passavano e ripassavano accanto a lui turisti in estasi, con la bocca aperta per la meraviglia, e lui ridacchiava di gusto, anche se di nascosto: – Ah, come spalancherete gli occhi il giorno che non vedrete più il Colosseo.

Se andava dal tabaccaio, le cartoline a colori con la veduta del grandioso anfiteatro gli mettevano allegria, doveva fingere di soffiarsi il naso nel fazzoletto per non farsi vedere a ridere: – Ih! Ih! Le cartoline illustrate. Tra poco, se vorrete vedere il Colosseo, dovrete proprio accontentarvi delle cartoline.

Passarono i mesi e gli anni. Le pietre rubate si ammassavano ormai sotto il letto, riempivano la cucina lasciando solo uno stretto passaggio tra il fornello a gas e il lavandino, colmavano la vasca da bagno, avevano trasformato il corridoio in una trincea. Ma il Colosseo era sempre al suo posto, non gli mancava un arco: non sarebbe stato più intero di così se una zanzara avesse lavorato a demolirlo con le sue zampette. Il povero ladro, invecchiando, fu preso dalla disperazione. Pensava: «Che io abbia sbagliato i miei calcoli? Forse avrei fatto meglio a rubare la cupola di San Pietro? Su, su, coraggio: quando si prende una decisione bisogna saper andare fino in fondo».

Ogni viaggio, ormai, gli costava sempre più fatica e dolore. La borsa gli rompeva le braccia e gli faceva sanguinare le mani. Quando sentì che stava per morire si trascinò un’ultima volta fino al Colosseo e si arrampicò penosamente di gradinata in gradinata fin sul più alto terrazzo. Il sole al tramonto colorava d’oro, di porpora e di viola le antiche rovine, ma il povero vecchio non poteva veder nulla, perché le lacrime e la stanchezza gli velavano gli occhi. Aveva sperato di rimaner solo, ma già dei turisti si affollavano sul terrazzino, gridando in lingue diverse la loro meraviglia. Ed ecco, tra tante voci, il vecchio ladro distinse quella argentina di un bimbo che gridava: – Mio! Mio!

Come stonava, com’era brutta quella parola lassù, davanti a tanta bellezza. Il vecchio, adesso, lo capiva, e avrebbe voluto dirlo al bambino, avrebbe voluto insegnargli a dire «nostro», invece che «mio», ma gli mancarono le forze.

Favole al Telefono, Gianni Rodari.

Oggi è un anno che ti ho lasciata

Oggi è un anno che ti ho lasciata

Sono a Parma da un anno, eppure quando di tanto in tanto torno a Napoli dalla mia famiglia quella che fino a poco tempo fa era la mia casa non mi sembra più la mia casa. Appare più grande, percepisco che qualche mobile o oggetto è stato spostato e c’è un profumo che non riconosco. Puntualmente chiedo a mia madre cosa abbia cambiato e con la stessa puntualità lei mi risponde che è sempre tutto uguale. La verità è che sono cambiata io.

Penso spesso alle motivazioni che mi hanno portato a lasciare Napoli. La maggior parte delle persone va via a malincuore per la ricerca di un lavoro che giù non c’è. Anche io apparentemente sono andata via per trovare il lavoro della mia vita. Ho colto l’occasione di uno stage presso una casa editrice di Fidenza della durata di quattro mesi. Stage che, nella mia testa, mi avrebbe permesso di mettere piede nel mondo dell’editoria e di non toglierlo più. Come si può immaginare, non è andata proprio così, ma, sia chiaro, la scrittura non la mollo. Alcuni eventi inaspettati hanno reso la mia esperienza in casa editrice turbolenta e a intermittenza. Prima uno stop per gestire questioni lavorative non previste, poi un secondo stop da Covid-19 che mi ha costretta a concludere lo stage, discussione finale inclusa, in smartworking.

Le questioni lavorative non previste prendono il nome di Poste Italiane. Una delle realtà più solide d’Italia, con la quale avevo già fatto conoscenza a Napoli. Quindici duri mesi di lavoro a tempo determinato nel reparto produzione, avviati dopo la Laurea Specialistica in Comunicazione pubblica, sociale e politica e, poi, conclusi durante i primi mesi del Master in editoria e scrittura creativa. A quanto pare quel sudore aveva dato i suoi frutti. Durante lo stage mi arriva la notizia che sono rientrata nelle graduatorie per le assunzioni a tempo indeterminato, proprio a Parma. Mi diverte dire che Poste Italiane ha deciso di perseguitarmi, di seguirmi da Napoli a Parma, ma non posso che ringraziare per aver avuto un’opportunità tale. Oggi sono una portalettere con la passione per la scrittura e tante ambizioni nascoste tra le lettere che imbuco.

Sono andata via da Napoli alla ricerca di un lavoro e il lavoro ha cercato me. Apparentemente sono andata via da Napoli per questo. Se guardo, però, nel profondo di me stessa io ho lasciato quella città come si lascia un fidanzato a cui hai perdonato troppi tradimenti. Del lavoro ne avevo bisogno, ma in un modo o nell’altro avrei trovato qualcosa, magari più vicino alle mie aspirazioni. Napoli è bella, la più bella del mondo. Chi la visita se ne innamora a prima vista, chi vi nasce non può spiegare l’amore che prova. Ma Napoli è anche stronza, ti riempie gli occhi con il suo patrimonio e poi quegli stessi occhi te li  strappa via con la monezza, i disservizi, l’inciviltà. Non è colpa sua, è fatta così e – ahimè – non cambierà mai. O resisti o te ne vai. Io sono andata via perché ero stanca di quella carta sporca.

Parma è bella, ordinata, funziona tutto. C’è tanto verde e un silenzio che non avevo mai conosciuto. Spostarsi è importante, ti fa capire che c’è tanto altro in questa vita e ti cambia dentro. E così quando torno a Napoli è come se andassi a prendere un caffè con quel fidanzato che ho lasciato un anno fa. Attraverso i vicoli del centro storico, arrivo sul lungomare, mi fermo davanti all’onnipotente Vesuvio. La guardo negli occhi: è sempre così bella e maledettamente uguale. Provo rabbia perché non ci si dovrebbe lasciare quando si ama ancora. Provo malinconia perché quello che trovi a Napoli, nel bene e nel male, non lo trovi in nessun altro luogo. Provo gratitudine perché quello che sono oggi è il risultato delle mie scelte.