L’unica sicurezza nella vita è che nulla è sicuro. Sembra una frase fatta, forse lo è, ma, ad ogni modo, resta una delle poche verità che un essere umano può avere nella vita. E questo non l’ho letto sui libri di scuola, ma me lo hanno insegnato le esperienze.
Qualsiasi sia la nostra condizione attuale, dalla più stabile possibile a quella più precaria, non c’è nulla, e dico nulla, che ci possa assicurare la continuità di questo stato.
La sicurezza della permanenza non esiste. Non è possibile conoscere la data di scadenza di tutto ciò che in questo momento compone il nostro presente. Compresi noi stessi. Potrebbe esserci, come no.
La sicurezza è un po’ come la speranza di cui vi parlavo qualche articolo fa. Delle gran belle parole, inventate per cercare di rendere meno percepibile la precarietà dell’esistenza umana. Qualche zolletta di zucchero in un caffè amaro.
La domanda è: perché? Forse il tutto è riconducibile ad una natura umana protettiva o forse autodistruttiva. Voi come lo chiamereste un uomo che dall’alba dei tempi ad oggi ha impiegato gran parte delle sue energie a cercare di trasmettere, a ribadire, il concetto che il mondo è nelle sue mani? Un’idea di invincibilità che, se tiriamo le somme, ci ha di gran lungo fottuto.
La sicurezza di una predisposizione innata a governare la natura e le cose che ci circondano ci ha condotto senza dubbio a sbagliare, più e più volte. Le conseguenze? A livello macro, per dirne una, il mondo si sta sgretolando tra le nostre mani. A livello micro, individuale, l’incoscienza che ci accompagna ci impedisce di assaporare il presente. Nonostante qualche zolletta di zucchero.
Eppure le esperienze ci parlano. Tutti, almeno una volta nella vita, aprendo una porta, non abbiamo trovato quello che ci aspettavamo. Tutti abbiamo subito un lutto, una sconfitta inaspettata, un dolore. L’imprevedibilità è all’ordine del giorno, non la sicurezza. Continuiamo, però, a comportarci come se valesse il contrario e questo è il paradosso più grande che io conosca.
Il mare mangia
La terra copre
Tutto può essere nascosto
E dimenticato
Dagli ignavi
Per anni essi devastano
Sotterrano
Rubano il futuro del mondo
Dell’ambiente
E dell’uomo
Modificano il corso della storia
Bruciano la vita
L’eternit è solo un rifiuto
Il cuore di una montagna è solo un luogo fisico
Per gli ignavi non esistono termini corretti
Gli ignavi parlano con il loro linguaggio
E dalla loro loro bocca esce solo puzzo di marcio
La loro saliva sa solo di eternit
“Futuro tossico”
Irpinia, 2021
Per molti, oserei dire per la quasi totalità di noi, questi 366 giorni appena trascorsi sono stati molto difficili e ci hanno messo di fronte a notevoli difficoltà. Un anno in cui abbiamo dovuto affrontare disgrazie d’ogni genere e districarci tra mille peripezie. Proprio per questo in ogni discorso, pensiero o semplice appunto che riguardava il 2020 gli abbiamo dato seguito con i più differenti dispregiativi. Un anno sfortunato, maledetto, sciagurato, strano, dannato. Ma per molti di noi questo è stato anche un anno “non vissuto”, in cui non è “cambiato niente”, quasi come se ci fosse stato un congelamento della vita. È mia intenzione in queste brevi parole affrontare proprio questa definizione, ma procediamo con ordine.
Nella memoria collettiva il ricordo di quanto avvenuto nei mesi scorsi e per questo mi servirò di questa freschezza ed elasticità collettiva per dimostrare quanto segue.
Erano i primi giorni di aprile e tutta l’Italia si stava lentamente riprendendo dal fortissimo crochet che dai primi di marzo ci aveva chiuso all’angolo e ci aveva costretto a familiarizzare con termini quali coronavirus, pandemia, lockdown e così via. Giorni in cui la paura dei singoli si era trasformata in coraggio collettivo. Avevamo riscoperto i primi spazi domestici a noi sconosciuti fino allora, i balconi, e avevamo passato gran parte delle nostre giornate lì, riscoprendoci cantanti, patrioti, ma soprattutto avevamo riscoperto la natura.
Così, mentre gran parte dell’azione antropica si stava ritirando sotto i colpi dei DPCM, la natura stava rinascendo proprio nel suo momento migliore dell’anno: la primavera. L’assenza di traffico e smog aveva portato a un notevole miglioramento della qualità dell’aria e gli stormi in cielo e gli alberi in fiore dimostravano un’altra energia rispetto al solito. Le nostre città hanno assistito a questo miracolo stagionale con estremo stupore. Lo stesso stupore aveva pervaso le strade di Atripalda, invasa com’era delle stesse sensazioni e dagli stessi umori.
Spettatori incolumi di tutti erano i pochi e timidi passanti, impegnati nello svolgimento delle piccole commissioni quotidiane. La città che fino a qualche giorno fa si era mostrata silente ed immutata, celava nei suoi angoli più coperti il frutto di un lavoro di trasformazione continuo e costante che la natura stessa stava operando in quei giorni.
Il cambiamento era avvenuto sotto gli occhi di tutti e sotto l’attenzione di nessuno, in maniera costante. Persino la pavimentazione del centro storico si era trasformata, tra i lisci sampietrini dei vicoli era cresciuta, prima timidamente, poi con maggior rigore l’erba, lasciando così al verde una delle rare vittorie in mezzo all’oceano di grigio che ci circonda quotidianamente. Al posto della strada, un piccolo prato, tra i palazzi e le auto, era rinato.
Per qualche giorno lo stupore dei passanti, compreso il sottoscritto non è stato poca cosa. Lo stesso stupore di quei giorni mi ha invaso mentre mi ritrovo qui davanti alla tastiera cercando di parlare del cambiamento. In molti, tra amici e conoscenti li ho sentiti ripetere che dell’anno trascorso la cosa peggiore è stato la condizione di congelamento in cui abbiamo vissuto e per settimane mi sono interrogato a riguardo. Ma proprio ripensando a questo piccolo avvenimento mi è stato possibile comprendere come anche nella realtà più immobile tale condizione è essa stessa apparente.
Il vicolo del centro storico dove per un breve periodo ha fatto la sua comparsa un inaspettato prato.
Così anche noi in questo anno appena trascorso siamo cambiati non poco e abbiamo vissuto moltissimi cambiamenti. Come per la nascita del prato urbano dovremmo imparare ad osservare e a leggere le nostre strade, le nostre piazze e le persone che le attraversano. Quello che questo 2020 ha fatto emergere è che le città sono ancora il motore di tutto, sia delle nostre disuguaglianze, ma anche delle innovazioni e delle trasformazioni che avvengono continuamente e che appunto avremmo dovuto imparare a leggere proprio grazie a quest’anno così difficile.
Dovremmo imparare ad osservare un po’ più spesso quello che ci circonda per sentirci almeno un po’ cambiati dal passato, non è un compito facile, ma nemmeno impossibile.
Ad un tratto mi sorride in mente il ricordo di quella ragazza dolce che si infilò una Winston in tasca per fumarla di nascosto. E la sua paura di romperla é la stessa che provo io quando nascondo quello che sono alle persone a cui voglio bene (soprattutto per la paura che in qualche modo possa deluderli). E quindi sarà il tempo bruttooppure l’aumento improvviso di virologi ma ho deciso di confessarvi quello che sono veramente (o almeno una piccolissima parte). La parola (anzi due) di questa settimana è la M di Me stesso.
Odio le luci natalizie. Soprattutto quelle di Salerno. Osservare tutto quel casino di gente entusiasta per così poco mi fa salire l’invidia e mi viene spontaneo, quindi, pormi una domanda: ma solo io per essere entusiasta pretendo chissà cosa?Amo il silenzio, stendermi sul letto, magari con te accanto o anche da solo, e non avere l’ansia di chiedere come sia andata la giornata. In quel momento vorrei soltanto che il mondo e tutte le sue cattiverie rimanessero fuori da quella porta sgangherata. Non sopporto scegliere i locali in cui andare a mangiare. Incamminiamoci, non roviniamo la magia di sentire il brividino del destino. E poi se mangiamo di merda, pazienza! Quanto é fondamentale la pazienza, ma questa é un’altra storia.
Adoro, invece, quando mi accarezzi dopo una stronzata che ho fatto e in quegli occhi tuoi posso leggere “ti ho scelto perché le tue stronzate sanno di bellissima adolescenza”. Odio quando un amico mi rimprovera di essere stato assente per troppo tempo, che poi io vi vedo tutte le sere assieme, voi grandi amici, con quei cazzo di cellulari che brillano manco fossero tutte stelline di San Lorenzo (che secondo me sono una leggenda metropolitana visto che non ne ho viste mai neanche mezza). Voi siete il mio cuore, e avete ragione, ma io preferisco assaporare lentamente la felicità che solo voi mi spiegate perfettamente (e poi sono anche un pigro schifoso in campo sentimentale).
Mi piace tornare a casa, almeno una volta al giorno. Sapere che ogni cosa sta lì al suo posto e capire che per quanto possa andare via, il profumo di casa lo riconoscerò sempre (anche se ultimamente il forte inquinamento mi sta mettendo in seria difficoltà). Poi odio la domenica sera -la causa probabilmente è da attribuire al lunedì scolastico- ed esco pazzo per il sabato mattina che scendo dal letto e mi immagino trasformarmi in un giocatore di rugby applaudito da tutto il pubblico (lo so che non ha senso come immagine ma credo siano applausi per essere sopravvissuto ad un’altra settimana di schifo).
E non so perché alle persone a cui voglio bene queste cose e tante altre le nascondo: in fondo basterebbe dire loro “Non mi va di uscire a bere una cosa, mentre se mi prepari un piatto di pasta ti abbracceró fortissimo anche se il contatto umano….”.
E allora facciamoci una promessa: cioè quella di fumare quella sigaretta all’aria aperta, in mezzo al casino. Chi vorrà resterà, anche se avremo il sapore di bruciato, anche se sappiamo che siamo fatti soprattutto di sbagli e di stranezze. Ad esempio sperare che domani andrà meglio quando la giornata è stata triste, proprio come una qualsiasi serie tv divertententemente drammatica (vi assicuro che quando sono triste non mi immagino in un bar di New York a bere caffè mentre fuori piove leggero ed una bella ragazza mi sorride, così, all’improvviso).
Canzone che consiglio: Max Gazzè– Splendere ogni giorno il sole
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