da Antonio Lepore | Dic 17, 2021 | Riflessioni non richieste
Gli obiettivi che fallirò nel 2022:
-Sorridere di più anche quando entro nel tabacchino e mi accorgo che mi mancano cinque centesimi per l’acquisto delle cartine e quella stronza mi invita a ritornare più tardi.
-Comprendere che una birra al tramonto significa che hai fregato Dio ancora una volta.
-Smetterla di dirmi “oh, c’è gente in guerra, bambini che muoiono di fame”. Non è colpa mia se il mondo è ingiusto ed io ho il pieno diritto di lamentarmi se si strappa il laccio della mia scarpa preferita.
-Imparare a dire di no a quei cazzo di ambulanti che vendono calzini. La psicologa mi ha suggerito che a causa del mio essere passivo ho speso oltre cento euro in accendini e calzini. “Capo, una cosa a piacere” e allora ti va bene un cazzotto da femminuccia al centro della faccia?
-Far finta a volte di dimenticare il passato e disperarmi e felicitarmi soltanto per ciò che accade avanti ai miei occhi. Qui ed ora.
-Concedere più tempo alle canzoni e alle persone.
-Non farmi fregare dalle cose e dalle persone che hanno un bel packaging.
-Ritornare a fare sogni impossibili, tipo diventare astronauta, ché nella vita non si può mai sapere. Spesso è di merda, però comunque non si sa mai.
-Staccare il telefono almeno un’ora al giorno. Ed in quell’ora scrivere cartoline, piantare fiori oppure più semplicemente allontanare le ansia delle continue notifiche, dell’ennesima email a cui rispondere, dell’ennesima notizia da commentare perché adesso va di moda avere una cazzo di opinione su tutto e tutti.
-Avere la consapevolezza che non potrò accontentare tutti. Deluderò qualcuno, non farò ciò che qualcuno desiderava, ma ehi, sono sempre io. E vi voglio bene.
-Accarezzarti di più e ogni tanto sussurrarti in qualsiasi orecchio che ce la faremo. E che comunque non hai mai visto me e Batman seduti allo stesso tavolo.
-Ricominciare a fare promesse perché una promessa è tipo Dio che ti concede del tempo per fare il possibile e a volte l’impossibile. E soprattutto per far sorridere a chi vuoi bene.
-Volermi più bene.
-Smetterla di masturbarmi per noia.
da Giannicola Saldutti | Nov 1, 2021 | Distinti est
Si, il titolo è provocatorio. Ma ormai qui è questione di culto. Sarrismo, cortomusismo, guardiolismo…gli ultimi campionati (noiosissimi in quanto a suspance e competizione) hanno quantomeno contribuito ad aprire un vero e proprio dibattito nell’ambiente.
Meglio il gioco o il risultato? La concretezza arida o l’appassionata poesia del rischio di veder dominata una partita, seppur uscendo sconfitti? È meglio arrivare secondi dando spettacolo con la bellezza di 91 punti totalizzati, oppure arrivare con metodica tristezza a 92 per prendere tutta la posta in palio?
La conferenza stampa di Allegri, ormai divenuta riferimento di culto, ha fatto scuola ed ha tracciato, col pragmatismo toscano che contraddistingue il tecnico, una strada ed un estemporaneo manifesto: corto muso vince, secondo perde. Facile. Come nelle corse dei cavalli. Una visione tanto piatta della realtà del calcio quanto funzionale alla nostra mentalità.
Proprio questa, infatti, è la chiave risolutiva: la filosofia calcistica del nostro Paese è stata sempre fortemente inclinata verso una interpretazione pragmatica del gioco, il rischio è sempre stato visto con un certo carico di paura, in un ambiente pronto a processare chiunque osi fallire. Allegri lo sa, lo ha sempre saputo. Sembra quasi che la serie A odierna sia il suo habitat naturale, capace di esaltare le sue qualità e la sua visione: il bel gioco non serve a nulla se non è accompagnato dal risultato finale (che per la verità ultimamente…latita!).
È uno slogan funzionale, che parla alla pancia, capace di convincere i più scettici proponendo all’orizzonte la gioia più ambita: la vittoria. Eppure da un punto di vista più ampio (che non sia solo quello del fruitore finale dello show o del tifoso sfegatato), i dati dimostrano chiaramente che il calcio italiano, nonostante la piacevolissima notte di Wembley, sta perdendo pericolosamente appeal.
I risultati europei purtroppo lo dimostrano e le parole pronunciate da Adani pochi giorni fa ci rispediscono dritti dritti a contatto con la realtà dei fatti: guardare Inter-Juve per chi è abituato ai ritmi e all’attitudine di una Man United-Liverpool risulta un’impresa per cuori forti. I ritmi compassati, l’esasperazione tattica, la paura di perdere, il difensivismo ad oltranza… ciò che venti anni fa sembrava essere una sfida allettante oggi si è trasformato in un grande disincentivo capace, molto probabilmente, di allontanare spettatori, quindi soldi, quindi nuovi campioni.
Lo “scenario” non aiuta: gli impianti sono fatiscenti e desueti, le misure anti-Covid hanno minato fortemente la fruizione dal vivo. Diciamo che il “corto muso” di Allegri fa vincere gli scudetti ed ottenere risultati, ma sul lungo periodo l’applicazione pedissequa di un pragmatismo poco coraggioso porta inevitabilmente a ingessare l’ambiente, rendendolo brutto, tignoso, poco spettacolare.
Si, ma…”i campioni d’Europa siamo noi” direte voi. Guai però a confondere l’estemporanea vittoria di un collettivo affiatato e compatto con lo stato di salute generale del nostro movimento calcistico e della nostra massima serie, peraltro sempre più infarcita di stranieri dalla dubbia qualità.
Personalmente credo che la vittoria sia sempre piacevole, ma il perseguimento della stessa non può intaccare ed ingessare l’ambiente dietro una coltre di difensivismo ad oltranza. Del resto, la notte di Wembley non può cancellare un dato: l’ultima Champions italiana è targata 2010, l’Europa League non è stata mai vinta. Provate voi a resistere all’appeal di un Udinese-Torino giocata di lunedì sera!
da Antonio Lepore | Set 30, 2021 | Abbecedario di provincia
Sono bloccato in mezzo alla strada. Da giorni infiniti non ho più un obiettivo, neanche guardare un porno russo nel cuore della notte. L’unica attività che mi suggerisce un eco di vita è osservare gli altri darsi da fare per vivere qualcosa che possa essere definita vita. Lo stipendio a fine mese, qualche post interessante sui social oppure la ricerca dell’anima gemella: io, invece, ho rinunciato a tutto.
Trascorro le giornate a rivedere film già visti in modo tale che posso distrarmi evitando la maledizione dei sensi di colpa. In questo momento ho riavviato il nastro dell’ennesima commedia con Adam Sandler e sento il respiro finalmente un po’ più lungo. Le disgrazie del mondo sono lontane dalla mia stanza, almeno per oggi.
Ora stacco di telecamera sui ricordi resistenti alla mia depressione (parola della settimana): il primo romanzo a cui non è seguito più un cazzo, le foto di me con i capelli intento a catturare il tramonto per dedicarglielo, le poesie scritte ovunque, i dischi impolverati, le penne con i tappi morsi dalla rabbia.
Io non so cosa sia accaduto, ma so che ad un certo punto ho smesso di agire. Capita una mattina che ti alzi e non sai cosa vuoi per colazione. Ti accontenti di quello che c’è, è commestibile persino quella fetta biscottata rigurgitata dal cane.
Incomincia a pesare ogni passo, la vista ti si annebbia e senti soltanto che tutto ti scivola dalle mani. Non so spiegarvelo in maniera efficace, ma la scena è questa: tu incatenato ad una sedia in una cantina desolata e a turno rabbia, dolore, noia che ti torturano con ogni mezzo. Ed è inutile urlare, chiedere aiuto: le parole si bloccano in gola e se ti specchi puoi vedere la tua faccia che sorride.
È tardi anche per me. Sento le palpebre pesanti. Il buio è ad un palmo di mano da me. La stanza si sta raggomitolando su di sé. Qualcuno sta commettendo un delitto nel vicolo. Ma qui i supereroi sono sovrappeso ed alcolizzati.
Mi addormento con le mani in mezzo alle gambe. Lasciatemi in pace.
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