Le cose orfane

Le cose orfane

L’altro giorno ho ripensato alla casa di mia nonna. Credo di non averlo mai fatto da quando è andata via. Ci ho trascorso un bel pezzo della mia infanzia e adolescenza in quella casa. Ne conoscevo ogni angolo e a quasi ogni oggetto che la riempiva è legato un ricordo.

Ricordo, ad esempio, quei due tre portagioie che di tanto in tanto tirava fuori dal cassetto e capovolgeva sul letto per mostrarne il contenuto. Erano collanine, anelli, spille, ognuno con la sua storia che puntualmente amava raccontare. E alle foto, quanto ci teneva alle foto, soprattutto le più vecchie, quelle con i figli piccoli e ancora la presenza del nonno.

Non è stato un pensiero felice, purtroppo. Non più, nel momento in cui si è fatta spazio con prepotenza nella mia mente l’immagine di quella stessa casa, ma buia, abbandonata come un relitto, con le cose orfane.

Quando si tratta di morte nessuno mai pensa alle cose. Eppure quegli oggetti apparentemente senza un’anima, un’anima ce l’hanno ed è quella riposta su di essi dai loro possessori. Oggetti carichi di energia, di storie da raccontare o tenere per sé.

La morte, purtroppo, è la grande antagonista, di questo momento storico. Il rumore dei tasti della tastiera pigiati dalle mie dita nell’atto di scrivere, probabilmente non fanno altro che scandire il ritmo dei passi di persone che, a pochi chilometri da qui, scappano via nella speranza di salvarsi.

Non c’è tempo, la guerra non ne lascia, si può portar via solo il proprio corpo e forse un pezzo di anima. Quando si parla di eventi distruttivi, come una calamità naturale o in questo caso specifico un conflitto, è di uso comune da parte dei media proporre immagini di macerie da cui si intravedono oggetti. I restanti pezzi di quelle anime fuggenti sono proprio lì, in quegli oggetti, sotto quelle macerie. Si tratta di una violenza, di un obbligo, non c’è margine di scelta. Ecco perché è sbagliato parlare di cose abbandonate. Sono cose orfane, strappate via a chi le custodiva.

Stamattina il mio volto è stato attraversato da un sorriso amaro, provocato dal rintocco delle campane in numerose piazze europee, tante quanti i giorni trascorsi dall’inizio del conflitto in Ucraina. È così che noi europei manifestiamo la nostra richiesta di pace. Il suono sordo delle campane che attraversa piazze gremite di persone nel silenzio più assoluto. Mi è sembrato che quel silenzio non facesse altro che sottolineare l’enorme distanza che intercorre, nonostante i pochi chilometri, tra la nostra vita tranquilla e quella dei cittadini ucraini torturati dal suono delle armi e della disperazione.

Poi, però, mi sono venute in mente le cose orfane. Anche un conflitto ha la sua parte silenziosa. Durante le tregue, di notte, sotto il chiaro di luna, si può intravedere tra le macerie di un’abitazione quel che resta di una bambola che qualche giorno prima era tenuta stretta tra le braccia di un bambino. Il peggiore dei silenzi, quello della morte.

L’estate e l’insalata di pomodori di mia nonna

L’estate e l’insalata di pomodori di mia nonna

L’estate per me è l’insalata di pomodori. Ma non quella asettica propinata dai ristoranti, bensì quella dipinta da mia nonna. Dentro ci conviveva di tutto, altro che le politiche d’integrazione del Pd: patate scaldate, olive, sedano, lattuga, tonno ed in fondo, ma molto in fondo, due o tre pomodori tagliuzzati con maestria. Perché parliamoci chiaramente, questa è l’estate: un pentolone con all’interno l’amore dell’umanità verso una stagione che possiede la magia di farti credere che tutto sia possibile, persino che tu digerisca quell’insalata di pomodori.

Un filo di emozioni, anche abbondante. In particolare modo da versare quando si è in riva al mare e presti l’orecchio alle onde, che secondo me nel corso dei secoli hanno ascoltato talmente tante storie che potrebbero narrarle da qui fino all’albo del nuovo mondo governato ovviamente da Gates e Rockefeller. È uno dei momenti che attendo di più della “stagione”: lì, quando i bambini sudati sono lontani da me, chiudo quel poco di cervello che ho e lascio spazio al cuore. Si narra di sirene ammaglianti rimaste incinte di Capitan Findus, di uomini e donne coraggiose che hanno difeso la propria terra dai conquistatori e di una coppia, forse adolescenziale, che si promise amore eterno prima di fare i conti con i treni che spesso sanno di malinconia e tristezza.

Intanto mettete a scaldare i film già visti. Tra questi “Ovosodo” di Paolo Virzì. Non so perché ma lo guardo ogni estate. Credo perché parli della scuola (da cui l’estate ci salvava ogni anno) e della caparbietà che bisogna avere per vivere all’estremo ogni emozione ed è quello che vorrei fare quando la notte tarda ad arrivare e ci fumiamo le sigarette e le parole si intrecciano ai miei e ai suoi pensieri e fa troppo caldo per mangiare. Verso le 20:00, quando il sole splende ancora e tutti sono felici di poter sorseggiare lo spritz. Io lì vorrei abbracciarla e dirle che purtroppo non si può vivere sempre di estate e che arriveranno giorni freddi micidiali, settimane in cui il mare non è una foto da instagram ma un mostro che abbatte i palazzi. Ed è proprio lì che dovremmo lavorare e pazientare in attesa dell’unica stagione che si fa invidiare dalle altre (semicit. Flaiano).

Infine, l’estate ci infonde il coraggio di mostrare la nostra pelle. Anche la mia, che troppo spesso ha cambiato forma e lei mi ha insegnato a rivelarla a tutti anche quando avevo paura di ordinare la coca cola al lido con il tizio accanto che aveva la palestra in sé.