Esistono motivi per restare laddove si è nati? E quali sono?

Esistono motivi per restare laddove si è nati? E quali sono?

Nonostante la digestione del cibo ingurgitato tra Pasqua e Pasquetta sia ancora difficoltosa, abbiamo deciso di ritornare in campo con una nuova tematica da affrontare nelle prossime settimane.

In questi giorni – in realtà in questi anni – spesso abbiamo discusso sui motivi per cui scappare dai piccoli centri in cui siamo nati. Tuttavia, non ci siamo quasi mai soffermati a riflettere su cosa potremmo fare per restare. Non siamo del tutto convinti, infatti, che le cause della fuga e gli eventuali motivi per restare coincidano.

E non siamo nemmeno convinti, infine, di aver fatto il massimo per creare nella nostra terra le condizioni ideali per fermarci – almeno fisicamente – laddove da piccoli giocavamo a pallone e sognavamo di diventare persone migliori.

Nelle prossime settimane, dunque, proveremo a mettere nero su bianco tutto quello che vorremmo affinché non andare via diventi una valida alternativa alla ormai “banale” fuga al Nord o addirittura all’estero.

Non si sopravvive di pizza e di mare blu

Non si sopravvive di pizza e di mare blu

Così un giorno salii in vetta ad una montagna di cui ho sempre ignorato il nome. Era Basilicata profonda, talmente profonda che presi il telefono per una foto e per un attimo mi convinsi che fossi uno dei primi a viaggiare nel tempo (oltre alle canzoni di Sanremo, sempre troppo vecchie per il presente). Comunque non voglio tirarla per le lunghe. Da lì vidi un bambino rincorrere una bambina e sorridersi. Asciugato con mezzi di fortuna il sudore sulla fronte, feci respirare un po’ di aria fresca ai miei pensieri, soprattutto ad uno, quello che più mi spaventa: un giorno, neanche troppo lontano, sarà sempre più raro vedere due bambini, al Sud, sorridersi.

Così, mentre addentavo un panino con la mortazza, una botta di malinconia mi perforò il cuore come la pallottola più potente del mondo. Affamati di pizza e di mare, abbiamo smarrito le vere missioni da inseguire per resistere qui e vedere altri bambini sorridersi. Io non voglio dilungarmi sui responsabili di questa “estinzione” – altri miei colleghi saranno molto più efficaci – ma da sentimentalista vorrei poter restare qui e maledire una segnaletica stradale da schifo e veder spuntare, poi, un inaspettato tramonto tra due abitazioni abusive in mezzo ad una piazza straordinaria ma rovinata dal tempo eppure misteriosa e bellissima. In fondo, in questo periodo lessicale e confuso, respira tutto il Sud che è in me.

E quindi non sarà facile proteggerlo da noi che lo difendiamo soltanto elogiando la nostra allegria ed il cibo buono ed il romanticismo delle vecchie che spettegolano, ma per favore, rimettiamoci in cammino. Lasciamo stare il Nord, i giornali che mistificano, la politica: badiamo soltanto al nostro futuro ed iniziare a pensare che senza le urla di vita dei bambini è soltanto un conto alla rovescia verso la morte.

A chi figlio a chi figliastro…

A chi figlio a chi figliastro…

Un antico detto che abbiamo avuto modo di ascoltare spesso nel nostro viver quotidiano è stata l’espressione colorita e gergale che ci è venuta in soccorso quando ci siamo ritrovati a commentare quanto accaduto lo scorso 6 gennaio a Capitol Hill.

Certo ci saremmo, e forse avremmo, dovuti abbandonare ad un’analisi più profonda di quanto successo in quel giorno a Washington, ma un po’ per la pioggia battente, un po’ per la zona arancione che non permette altro che fugaci incontri, non abbiamo avuto altro modo se non quello di affidarci a questo detto che dalle nostre parti viene utilizzato anche con troppa leggerezza.

Così mentre l’umido inverno avellinese ci mostrava il suo lato piovoso (e forse peggiore) abbiamo cominciato a riflettere su i tanti se e i pochi ma che quell’episodio aveva suscitato in gran parte dell’opinione pubblica. Rifiutando il più grande errore che un altro detto ci consegna, ovvero che la storia non si fa con i se e con i ma, abbiamo avuto modo di riflettere più in generale sulle tante differenziazioni a cui spesso assistiamo, che spesso viviamo e a cui spesso ci ritroviamo ad essere incolumi fautori.

Una su tutte ci ha sempre interessato e rappresenta uno dei tanti perché che ci ha spinto a intraprendere l’avventura di Scarpesciuote ed è la relativa dicotomia centro – periferia, meridione – settentrione. In questi mesi ci siamo mossi in un terreno di accentuata coscienza delle problematiche che ci circondano e che viviamo, senza cadere nell’infantile neoborbonismo dei tanti e ai loro continui richiami ad un periodo d’oro artefatto. In questi mesi abbiamo cercato di analizzare le contraddizioni che ereditiamo per questioni geografiche, sociali e culturali e di cui siamo vittime e carnefici.

Quindi vorremmo parlare di queste contraddizioni attraverso il racconto delle nostre realtà politiche, sociali e culturali che ci hanno accompagnato e che abbiamo avuto modo di scoprire mettendo a paragone le nostre vite con quelle degli altri nostri coetanei che sono cresciuti e che continuano a crescere in contesti urbani e sociali differenti e in questo caso più centrali delle nostre.

Per questo ritorniamo al punto di partenza e per queste due settimane ci vogliamo chiedere chi siamo noi? Figli o figliastri?

Antonio Lepore

Andrea Famiglietti

Quello che mi togli già mi mancava

Quello che mi togli già mi mancava

Cara Fabiana,

l’Italia non è stata mai così unita e così divisa come in questo momento. Siamo tutti uniti purtroppo nell’epidemia, che con la stagione autunnale si è rinvigorita, e al contempo, stando all’ultimo Dpcm, siamo differenziati in colori a seconda della gravità della situazione che investe la regione in cui abitiamo. Ad ogni modo, tutti, chi più chi meno, dobbiamo rispettare delle regole che conducono a delle rinunce.

Rinunciare vuol dire fare a meno di qualcosa che prima si aveva o si faceva e, di conseguenza, avere delle mancanze. Siamo, però, sicuri che quello a cui oggi diciamo – non proprio spontaneamente – di no, non ci mancasse già prima di questa epidemia?

Ci ho pensato: io oggi sto rinunciando a uscire dopo un certo orario o quando non strettamente necessario, a viaggiare, ad abbracciare e baciare chiunque, a cene con dieci invitati, a organizzare il mio matrimonio, ad andare in palestra. No, non è così. In generale queste sono le rinunce a cui la società è sottoposta, ma se devo analizzare la situazione Fabiana, di fatto io di rinunce ne sto facendo ben poche.

Mi spiego meglio. A novembre dell’anno scorso a quest’ora non mi davo di certo a serate fuori con gli amici dopo le 22, ben che meno nei giorni infrasettimanali, né –  essendo io molto pigra – uscivo di casa se non per comprare il necessario; viaggi a novembre, mai fatti; mai stata particolarmente affettuosa con chiunque; cene a casa con gli amici, mai organizzate; matrimoni non sono previsti ora, figuriamoci l’anno scorso; l’unica causa che ho sposato da quando mi sono trasferita è una vita sedentaria. Manca la mia famiglia, è vero, ma comunque questo era incluso nel mio biglietto di sola andata per Parma.

Lo so, le parole appena scritte fanno emergere una brutta persona ed è proprio qui il nocciolo della questione. Questa epidemia non mi ha portato ad avere delle mancanze, ma ha messo in evidenza quelle che già avevo quando c’era calma piatta. Ora che qualcun altro diverso da me stessa mi dice che questo o quello non si può fare sembra che mi stiano privando di qualcosa. La mamma che dice al bambino questo non si tocca, in pratica.

Con ciò, voglio dire, cara Fabiana, che la mia vita forse era da rivedere ancor prima che si scatenasse tutto questo casino. L’epidemia non ha fatto altro che aiutarmi a capire che ci sono delle cose importanti da non trascurare, che ci sono dei vuoti che vanno riempiti perché da un momento all’altro potremmo non esserci più. Ora non è che quando sarà dato il libera tutti, bacerò i passanti per la strada, ma di sicuro darò più valore alla relazione con gli altri e con me stessa. Da quando ho lasciato Napoli, tutto è diventato più difficile da gestire e, quindi, ho rinunciato a più cose che amavo fare. Difficile, però, non vuol dire impossibile, basta solo uno sforzo in più. Certo, sarò più stanca, ma con meno mancanze.

Sport? Mi ha sempre fatto stare bene. Serate danzanti con gli amici? Quante risate. Viaggi a novembre? Perché no. Come ho già ribadito più volte, questa epidemia deve essere un’occasione per riflettere. Ognuno dovrebbe porsi le proprie domande, individuare le proprie mancanze. Non importa se procurate o no da questo periodo. Credo sia più importante approfittare di questo stop generale per non farsi trovare impreparati quando sarà possibile riempire di nuovo ogni vuoto.