La sicurezza di rapportarsi con il mondo circostante

La sicurezza di rapportarsi con il mondo circostante

La sicurezza in psicologia è un concetto fondamentale. In realtà, la parola sicurezza ha un significato molto ampio quando si parla della prima infanzia; con l’avanzare dell’età, invece, la sicurezza diventa un qualcosa di sempre più specifico fino ad arrivare a rappresentare quella sensazione di stare in un ambiente senza pericoli, o che i pericoli presenti sono facilmente affrontabili. Insomma fino ad assumere il significato condiviso da tutti noi.

SICUREZZA E MONDO CIRCOSTANTE

La sicurezza di relazionarsi con il mondo circostante è la chiave di lettura attraverso la quale viene analizzato il modo di crescere dei bambini di una delle più accreditate teorie psicologiche dello sviluppo individuale: la teoria dell’attaccamento. Il “padre” di questa teoria è John Bowlby, egli ha ritenuto opportuno approfondire le motivazioni dei neonati alla base della loro ricerca di vicinanza rispetto agli adulti che si prendono cura di lui, soprattutto la madre. Ciò in quanto lo studioso aveva notato che esse vanno oltre la semplice ricerca di cibo. Il legame che unisce madre e figlio neonato, infatti, parte dalla ricerca di cibo e si articola verso una ricerca di protezione, serenità e calore affettivo. Un famoso esperimento che fa capo a questa teoria vedeva un cucciolo di scimmia posto davanti alla scelta di ricevere cibo da un manichino metallico o da un altro manichino ricoperto da una pelliccia simile alla sua: gli sperimentatori osservarono che il cucciolo preferiva nutrirsi dalla “madre artificiale” che gli restituisse calore oltre che cibo, validando l’ipotesi per cui alla base del legame madre – figlio, denominato per l’appunto attaccamento, ci sia la ricerca di una sensazione complessa, frutto dell’unione di più fattori che si potrebbe riassumere nella sicurezza.

Il legame di attaccamento tra madre e figlio, dunque, è la base da cui ogni individuo inizia a costruirsi ciò che in futuro riterrà essere la sensazione di sicurezza. Ma come avviene questa costruzione? Va sottolineato, innanzitutto, che, come per ogni cosa che concerne la mente umana, la questione è molto complessa in quanto l’attaccamento di un figlio non è rivolto solo alla madre ma anche al padre e, in generale, a tutte le figure adulte che si prendono cura di lui. Questa evenienza spiega la varietà di atteggiamenti e di comportamenti che il neonato, il bambino, l’adolescente e l’adulto metteranno in campo per esprimersi a partire dall’iniziale attaccamento che percepiscono dalle figure di accudimento.

COME SI COSTRUISCE LA SICUREZZA

Proviamo quindi a spiegare la costruzione della sensazione di sicurezza. Abbiamo detto che il bambino si lega a chi si prende cura di lui mediante l’attaccamento; visto che si sta parlando di relazioni tra esseri umani, questa serie di comportamenti di ricerca messi in atto dal bambino riceveranno delle risposte da parte dei genitori. La risposta dei genitori determinerà lo stile di attaccamento che il bambino svilupperà verso ciascuno dei due genitori a partire dal legame di attaccamento che lo unisce ad essi; questo per farla breve, perché in realtà il bambino sviluppa uno stile di attaccamento verso chiunque si prenda cura di lui, quindi anche zii, nonni e chi più ne ha più ne metta ma qui, per esigenza di spazio e anche di chiarezza, conviene riferirci allo stile di attaccamento verso i genitori (anche perché è quello che determina maggiormente lo sviluppo del bambino e dell’adulto che sarà).

Si è detto, quindi, che il bambino sente il bisogno di esprimere il proprio attaccamento verso le figure di accudimento non solo quando ha fame e vuole mangiare. Nei primi mesi di vita egli “chiama” i genitori quando ha sonno perché ha bisogno di chi lo aiuti a dormire, quando scopre qualcosa di nuovo nel mondo che lo circonda perché vuole che qualcuno gli spieghi quello che sta percependo (il che, tradotto nel modo di percepire un neonato da parte degli adulti, significa “quando vuole giocare”); insomma, pare che i bambini abbiano la naturale predisposizione a ricercare la vicinanza di qualcuno che si prenda cura di loro perché, in un certo senso, sanno di non essere in grado di soddisfare esigenze basilari per la vita come il sonno o la fame. Queste sensazioni, quando arrivano, sono percepite come delle minacce alla propria esistenza e l’allattamento materno, il prendere un bambino in braccio per cullarlo affinché si calmi, si addormenti o prenda il latte fanno sparire queste sensazioni sgradevoli, sostituendole con sensazioni piacevoli quali la sazietà o l’addormentamento, ad esempio. Il bambino, dunque, si sente grato verso chi l’ha “salvato” dalla minaccia della fame o del sonno; il caregiver di turno, poi, si rivolge al bambino con una serie di emozioni verso di lui che accompagnano l’atto di fornire sostentamento: il sostegno quindi è di tipo sia strumentale che affettivo. Lo sguardo, il modo di tenere in braccio il bambino, la capacità di distinguere un pianto da fame da uno da sonno da un capriccio, il coinvolgimento e la libertà concessa quando si gioca insieme, perfino il modo con cui gli si cambia il pannolino, tutte queste azioni sottendono uno scambio di emozioni per l’adulto. Per il bambino, invece, questo serve a imparare a “sentire le emozioni e gli affetti“, a distinguerli ed a rispondere nell’interazione con un altra persona.

In altre parole, lo stile di attaccamento è determinato da tutti i fattori che ci sono all’interno della relazione che viene a crearsi tra infante e caregiver. Questo, poi, sarà alla base dello sviluppo di tutti i comportamenti successivi in una sorta di concatenazione che andrà avanti all’infinito. Da una premessa del genere è semplice osservare che esistono tanti stili di attaccamento quante relazioni caregiver – bambino, premessa l’unicità di ciascun individuo. D’altra parte, noi esseri umani abbiamo anche molte cose in comune tra tutti noi e quindi, anche nel caso dell’attaccamento, è stato possibile risalire a delle categorie che racchiudono 3 principali stili di attaccamento. Anche in questo caso, un esperimento ci può permettere di capire meglio di cosa sto cercando di parlare: vorrei parlare della Strange Situation, una procedura sperimentale che studia l’interazione tra caregiver e bambino dell’età di un anno.

Questa procedura è stata pensata dalla studiosa Mary Ainsworth per studiare i vari stili di attaccamento che possono verificarsi tra madre e figlio. L’esperimento prevede varie fasi; nella prima vengono fatti entrare madre e figlio in una stanza in cui ci sono due sedie e dei giocattoli, viene quindi chiesto alla madre di fingere di leggere una rivista mentre il bambino viene lasciato libero di esplorare l’ambiente, giocare e coinvolgere il genitore. Nella seconda fase entra in stanza un estraneo che prima dialoga con la madre, poi cerca di coinvolgere il bambino in un gioco comune; in seguito, la madre viene fatta uscire dalla stanza così da osservare quello che il bambino fa per ricercare la figura di attaccamento. Il genitore viene quindi fatto rientrare così da osservare se il bambino ricerca conforto e come questo gli viene offerto e, in caso contrario, si studiano le varie possibile reazioni. A questo punto il genitore viene nuovamente fatto uscire, lasciando stavolta il bambino solo nella stanza; qui si osserva il modo del bambino di far fronte alla difficoltà e, in caso di eccessivo disagio mostrato, viene interrotta la procedura; se la procedura può andare avanti, viene fatta rientrare l’estranea per osservare se il bambino è in grado di utilizzarla come surrogato della figura di attaccamento momentaneamente assente. Infine, viene fatto entrare il genitore facendolo fermare davanti la porta d’ingresso per notare come il bambino ricerchi le sue cure ed il suo affetto.

Questa procedura è stata creata per leggere i comportamenti del bambino in una situazione di stress controllato al fine di analizzarne le risposte. Si è notato che, nonostante l’immensa varietà di reazioni osservate, esse possono essere raggruppate in quattro tipi fondamentali: ci sono bambini che protestano alla separazione dal genitore ma dopo un po’ si calmano, riescono ad utilizzare l’estraneo come surrogato della figura di attaccamento e, al ricongiungimento con il genitore, accettano di buon grado le coccole riuscendo a placare l’angoscia; altri bambini prendono le distanze dal genitore e sembra non si angoscino, rimanendo indifferenti anche alla presenza dell’estraneo; altri ancora protestano in modo inconsolabile e nemmeno il ricongiungimento con il genitore sembra calmarli; altri, infine, non sanno cosa fare, si bloccano davanti al genitore perché non sanno che tipo di reazione aspettarsi da quest’ultimo. Quest’ultimo tipo di reazione permette di osservare uno stile di attaccamento disorganizzato in quanto il genitore appare al bambino come imprevedibile e quindi non sa se lo coccolerà o lo maltratterà; la protesta inconsolabile denota uno stile di attaccamento insicuro ambivalente: il bambino è pervaso da un’angoscia di separazione così forte da impedirgli di beneficiare del ricongiungimento se non dopo molto tempo. Il bambino indifferente viene classificato come avente uno stile di attaccamento insicuro evitante vista la sua reazione che denota una strategia di evitamento dell’angoscia, considerata come insopportabile al punto da non poterla vivere. Il primo stile di attaccamento descritto, invece, si riferisce allo stile sicuro: il bambino denota degli atteggiamenti tipici della sua età, protesta alla separazione dal genitore ma è in grado di accettare le rassicurazioni in quanto riesce a prevedere cosa aspettarsi da quel genitore, evenienza che negli altri casi non si realizza.

CONCLUSIONI

La sicurezza di interagire con il mondo circostante con la consapevolezza di sapere cosa aspettarsi da esso, quindi, parte dalle primissime interazioni tra il bambino e le sue figure di accudimento. Un bambino sicuro nell’interazione con tutte le sue figure di accudimento sarà un adolescente capace di orientarsi con maggiore sicurezza nell’interazione con i pari età e un uomo che avrà buone possibilità di sviluppare dei modelli di azione sul mondo più stabili, un uomo sicuro di sé. Ciò che accade durante l’infanzia, tuttavia, non determina immutabilmente le persone che si sarà da adulti: la vita è un continuo proporsi di eventi ma, come si dice, chi ben comincia è a metà dell’opera.

Perdersi e ritrovarsi grazie alle mappe

Perdersi e ritrovarsi grazie alle mappe

C’è un orario che in estate aspetto con più impazienza degli altri ed è quando l’orologio segna le 19. Credo che sia l’orario migliore della giornata e poco conta il luogo in cui mi ritrovo ad aspettarle, può essere in montagna o al mare, sarà sempre l’ora giusta per rifiatare dell’incredibile calura giornaliera. L’avevo pensato anche durante quest’ultimo 15 agosto, quando io e la mia amica Alessia eravamo appena rientrati in auto. Avevamo fatto un’incredibile scorta di bottigliette di acqua tiepida in un piccolo bar, lungo quella che aveva tutto l’aspetto di essere la strada principale di Casalbore. Dietro di noi la torre normanna era ancora baciata dal sole, mentre la luce dolce del tramonto scendeva lungo tutto la strada.

Un incredibile spettacolo stava sancendo la conclusione di quel pomeriggio, insolito, passato a passeggiare e a riscoprire i borghi dell’estrema Irpinia e che annunciava la nostra intenzione di rientrare a casa. In auto avevo pensato che come spesso accade in queste situazioni mi ritrovo ad essere il passeggero designato al difficile compito di navigatore.  La storia inizia sempre nella medesima maniera, l’autista di turno pronuncia sempre la stessa frase, talvolta anche un po’ seccata:

«Viri no poco ncoppa a Google Maps che ti dice!» che per i non indigeni irpini la si potrebbe tradurre più o meno così «Prendi il navigatore di Google e capisci dove stiamo andando! Ma soprattutto controlla che quella che stiamo percorrendo è la strada giusta».

Una richiesta che ai più potrebbe non destare nessun problema, ma che al sottoscritto, soprattutto dopo questa estate, ha creato non poche difficoltà. Il motivo? Ho letteralmente fatto perdere moltissimi conducenti e amici e non riesco a spiegarmi il perché.

Ovviamente, anche questo 15 agosto non ha fatto eccezione e dopo alcuni momenti di drammatiche imprecazioni e litigi tra me e il navigatore siamo riusciti a ritrovare la strada di casa.

Ma non sono qui per parlare del mio pessimo utilizzo delle mappe GPS, anche perché non riesco ancora a spiegarmi perché senza di esse riesco ad orientarmi discretamente. Quello di cui invece vorrei parlare è di come ogni mappa con cui entriamo in contatto riesce a raccontarci molto di più di quello che leggiamo apparentemente su di essa. Ma soprattutto per dimostrare che nelle nostre quotidianità mappe e mappature sono più presenti di quanto si possa credere. Facciamo, infatti, affidamento a queste per comprendere gli spazi e luoghi nei loro valori sociali, oltre che geografici. Ecco due piccoli esempi.

MARZO 2021 – LA MAPPA DEL DIVIETO

Partiamo dalla fine. Eravamo già preparati a quello che lo scorso marzo ci avrebbe regalato, o meglio credevamo di esserlo. La nostra seconda primavera pandemica sarebbe iniziata nel segno dei colori, un sistema che avevamo ereditato negli ultimi mesi del 2020, quando avevamo visto l’Italia dividersi in differenti zone colorate.

Avevamo atteso l’arrivo della primavera con questa strana consapevolezza, che nel corso dei mesi ci aveva spinto a trovare delle soluzioni per non perdere il contatto con il mondo esterno. Eravamo pronti e avevamo costruito le nostre soluzioni per orientarci e vivere in mezzo alle numerose zone di colore che ci venivano affibbiate, ma non avevamo fatto i conti con le politiche del governatore De Luca. L’introduzione urgente di tre ordinanze ci avevano gettato nella depressione più totale: oltre la limitazione negli spostamenti le giornate di marzo sono state accompagnate dal suono che facevano le nostre piazze vuote.

Una delle tre ordinanze sanciva la chiusura temporanea di tutte le piazze, spiazzi e parchi cittadini, al fine di evitare ogni forma di assembramento. Il suono dell’ordinanza era un’incredibile aria composta dal vento gelido di marzo sul nastro segnaletico usato per delimitare tutto.

Un suono non lasciato inascoltato. Un numero spropositato di servizi giornalistici realizzati dalle televisioni locali ha documentato il silenzio assordante delle piazze principali delle nostre cittadine e con esse l’urlo nero di dolore dei tanti anziani cittadini costretti al nulla.

La chiusura delle piazze non ha portato solo disperazione e depressione, ma anche la nascita di piccole soluzioni emergenziali: le strade secondarie e i vicoli più nascosti si sono trasformati in patria di passeggiatori eversivi che hanno, in questo modo, riscoperto luoghi e larghi secondari, da sempre sacrificati in nome del centralismo urbano, e hanno potuto ricostruire, anche se per qualche attimo, quella socialità perduta.

ARGINE – MAPPE GENERAZIONALI

La seconda ed ultima storia prende il via dalla, recentissima, ricerca sociale in cui sono impegnato insieme a due amici e colleghi. La ricerca nasce dalla necessità di raccontare e comprendere meglio una delle realtà più complesse ed inascoltate della città, ovvero i giovani. Per mesi abbiamo ascoltato tantissimi giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni con l’obiettivo di comprendere la concezione e la considerazione che quest’ultimi hanno della propria realtà urbana.

Un lavoro complicato e anche molto stancante che ci ha visto attraversare le diverse stagioni e diversi ambienti, ma che soprattutto ci ha fatto incontrare un numero incredibile di ragazze e ragazzi che avevano e hanno, tutt’ora, molto da dire. Sia ben chiaro, non affronterò nessun argomento rilevante relativo la ricerca, ma partirò dall’impressione personale che queste discussioni hanno prodotto nel sottoscritto e che sicuramente approfondirò.

Ascoltando le molteplici testimonianze una cosa mi ha colpito: i luoghi di aggregazione e socializzazione che elencavano erano completamente differenti dai miei e da quelli della mia generazione.

Un bel risveglio il mio, non c’è dubbio. Ma soprattutto una nuova consapevolezza quella del sottoscritto che le mappe emotive e mentali che costruiamo durante la nostra vita cambiano continuamente. Sono bastate due differenti generazioni di adolescenti per comprenderlo.

Vivere in un mondo in continua trasformazione ci costringe ad adattare, ricostruire e ridefinire i nostri luoghi, ma soprattutto ci porta a riscrivere i significati ad essi connessi. Per la mia generazione, un luogo centrale come la villa comunale era il punto di ritrovo per eccellenza e le nostre mappe (simboliche e mentali) partivano tutte da questo punto.  Agli antipodi le ragazze e i ragazzi più piccoli di questi anni hanno costruito una geografia urbana diametralmente opposta quella precedente. Hanno dimostrato, così facendo, che è possibile costruire una nuova mappa della città non necessariamente partendo dal centro. E voi che mappa usate?