Anche questo anno si sta avviando verso la conclusione. Qualcuno esclamerà finalmente; altri, invece, incroceranno le dita affinché duri ancora un po’. In ogni caso, è stato un anno complesso, caratterizzato da questa maledetta pandemia che sembra non voler andare via. Altre morti, altri feriti, altre persone che hanno perso il lavoro: insomma, è stata dura per molti. All’orizzonte, però, c’è la speranza rappresentata dai fondi europei. Un’occasione, questa, da non sprecare se davvero abbiamo a cuore le sorti di questo Paese. Non abbiamo granché fiducia nella politica, certo, però saremo contentissimi di essere smentiti.
La nostra banda di scarpesciuote, quindi, nelle prossime due settimane tirerà le somme dell’anno appena “consumato” e volgerà lo sguardo lontano. Chissà quali sogni ci aspettano, quali progetti avvieremo e, soprattutto, chissà quanto batterà il nostro cuore. Sicuramente batterà ancora per questo blog che ci sta regalando tante soddisfazioni e che sta tenendo compagnia a tutti voi. Ce la metteremo tutta, anzi proveremo a fare di più.
La limitazione agli spostamenti ha fatto emergere in maniera preponderante una forma di auto-emarginazione che ha raggiunto l’onore delle cronache qualche anno fa, quando la particolarità della cultura giapponese ne ha messo in risalto le caratteristiche salienti in relazione alla dipendenza da videogiochi e le ha attribuito un nome specifico: la sindrome di hikikomori.
A me però piace contestualizzare il fenomeno nella cornice del Paese in cui abito e perciò mi trovo meglio a parlare di ritiro sociale: un particolare insieme di pensieri, atteggiamenti e caratteristiche di personalità che portano la persona a scegliere una vita con interazioni sociali pari a zero, al massimo mediate da una qualche forma di gioco online. Ma procediamo con ordine e partiamo con una premessa: questa particolare forma di stare al mondo non è un qualcosa del tipo “ce l’ho/non ce l’ho” ma, al contrario, rappresenta un continuum, uno spettro, qualcosa di paragonabile all’abbronzatura: c’è chi torna dal mare più abbronzato e chi meno, e poi c’è chi decide di farsi le lampade tutto l’anno per mantenere sempre un colore della pelle più bruno; per cui sappiate che è molto probabile che, leggendo questo articolo, penserete di essere socialmente ritirati perché, specie in quest’ambiente pandemico, penserete di avere tutte le caratteristiche del caso ma non è così, o almeno non per tutti, spero.
Da bambini sarà capitato a tutti di avere un compagno di classe molto silenzioso e riservato, magari è capitato proprio di essere quel bambino o quel ragazzo. Bene, questi bambini, per loro indole, non amano conversare sebbene sia forte il loro desiderio di socializzare benché, magari, abbiano interessi fuori dal comune o preferiscano ascoltare piuttosto che conversare o, ancora, siano più bravi ad esprimersi attraverso il gioco, il disegno, la scrittura o altre forme di comunicazione non prettamente verbale. Succede molto spesso che questi bambini associno questo tipo di pensieri ad una particolare sensibilità verso le emozioni altrui e proprie, la qual cosa giustifica la loro poca loquacità, visto che danno un peso specifico alle parole maggiore del 70% delle persone ossia diverso dalla norma. Questi bambini, che diventeranno ragazzi prima e adulti poi, esprimono la coerenza del loro modo di essere scegliendo accuratamente le amicizie sulla base di una profonda risonanza con le persone con cui scelgono di condividere il tempo senza rinunciare a conoscere nuove persone per cui non decidono di circondarsi di una cerchia ristretta di persone a propri.
Succede spesso, tra gli adulti e figurarsi tra i bambini, che una persona introversa e di poche parole venga scambiata per qualcuno supponente, che non parla con tutti perché non dà retta al prossimo e quindi si tende a stimolare la dialettica delle persone che non parlano, nel migliore dei casi. In altre situazioni, vuoi per malintesi vuoi per genuina cattiveria, una persona fa una battuta sull’introversione manifestata da un’altra persona e gli altri tendono a confermare tale visione perché fa da spiegazione ad atteggiamenti altrimenti non spiegati. La persona introversa, proprio perché sensibile e con tutte quelle caratteristiche di cui sopra, viene sopraffatto dalla vergogna e vorrebbe sparire da lì.
Adesso, un singolo avvenimento del genere non basta a far sì che si scateni una reazione di avversione totale al mondo sociale ma, se le occasioni sono tante, se quello che si pensava un talento viene costantemente deriso per un periodo di tempo, se praticamente il mondo sociale ti dà conferma del fatto di essere inadeguati alla relazione interpersonale in più occasioni (e la suscettibilità verso ciò che si percepisce come una forma di rifiuto da parte del mondo sociale aumenta progressivamente) e se a tutto questo si aggiungono elementi contingenti, oggettivamente neutrali e casuali di tipo personale, come un trasloco, o ambientali, come una pandemia, viene a crearsi la miscela giusta che rende più che concreto il sentimento di inadeguatezza e che talvolta si accompagna a del risentimento verso quel mondo sociale che ti ha rifiutato. Con un macigno del genere sulle spalle l’unica strada percorribile diventa il ritiro in sé stessi e il commiato al mondo circostante, proprio come fanno quelle persone che, consapevoli che la loro morte è vicina a causa di un tumore in fase terminale ad esempio, tendono ad isolarsi, talvolta con metodi diretti e apparentemente maligni.
In questi casi l’emarginazione è una scelta: la scelta di chi viene sopraffatto dall’estrema sensibilità verso le emozioni e, grazie ad una miscela di eventi recanti imbarazzo e casuali, preferisce isolarsi dal mondo ed interagirvi, nel migliore dei casi, attraverso un avatar o comunque lo schermo di un pc.
Per molti, oserei dire per la quasi totalità di noi, questi 366 giorni appena trascorsi sono stati molto difficili e ci hanno messo di fronte a notevoli difficoltà. Un anno in cui abbiamo dovuto affrontare disgrazie d’ogni genere e districarci tra mille peripezie. Proprio per questo in ogni discorso, pensiero o semplice appunto che riguardava il 2020 gli abbiamo dato seguito con i più differenti dispregiativi. Un anno sfortunato, maledetto, sciagurato, strano, dannato. Ma per molti di noi questo è stato anche un anno “non vissuto”, in cui non è “cambiato niente”, quasi come se ci fosse stato un congelamento della vita. È mia intenzione in queste brevi parole affrontare proprio questa definizione, ma procediamo con ordine.
Nella memoria collettiva il ricordo di quanto avvenuto nei mesi scorsi e per questo mi servirò di questa freschezza ed elasticità collettiva per dimostrare quanto segue.
Erano i primi giorni di aprile e tutta l’Italia si stava lentamente riprendendo dal fortissimo crochet che dai primi di marzo ci aveva chiuso all’angolo e ci aveva costretto a familiarizzare con termini quali coronavirus, pandemia, lockdown e così via. Giorni in cui la paura dei singoli si era trasformata in coraggio collettivo. Avevamo riscoperto i primi spazi domestici a noi sconosciuti fino allora, i balconi, e avevamo passato gran parte delle nostre giornate lì, riscoprendoci cantanti, patrioti, ma soprattutto avevamo riscoperto la natura.
Così, mentre gran parte dell’azione antropica si stava ritirando sotto i colpi dei DPCM, la natura stava rinascendo proprio nel suo momento migliore dell’anno: la primavera. L’assenza di traffico e smog aveva portato a un notevole miglioramento della qualità dell’aria e gli stormi in cielo e gli alberi in fiore dimostravano un’altra energia rispetto al solito. Le nostre città hanno assistito a questo miracolo stagionale con estremo stupore. Lo stesso stupore aveva pervaso le strade di Atripalda, invasa com’era delle stesse sensazioni e dagli stessi umori.
Spettatori incolumi di tutti erano i pochi e timidi passanti, impegnati nello svolgimento delle piccole commissioni quotidiane. La città che fino a qualche giorno fa si era mostrata silente ed immutata, celava nei suoi angoli più coperti il frutto di un lavoro di trasformazione continuo e costante che la natura stessa stava operando in quei giorni.
Il cambiamento era avvenuto sotto gli occhi di tutti e sotto l’attenzione di nessuno, in maniera costante. Persino la pavimentazione del centro storico si era trasformata, tra i lisci sampietrini dei vicoli era cresciuta, prima timidamente, poi con maggior rigore l’erba, lasciando così al verde una delle rare vittorie in mezzo all’oceano di grigio che ci circonda quotidianamente. Al posto della strada, un piccolo prato, tra i palazzi e le auto, era rinato.
Per qualche giorno lo stupore dei passanti, compreso il sottoscritto non è stato poca cosa. Lo stesso stupore di quei giorni mi ha invaso mentre mi ritrovo qui davanti alla tastiera cercando di parlare del cambiamento. In molti, tra amici e conoscenti li ho sentiti ripetere che dell’anno trascorso la cosa peggiore è stato la condizione di congelamento in cui abbiamo vissuto e per settimane mi sono interrogato a riguardo. Ma proprio ripensando a questo piccolo avvenimento mi è stato possibile comprendere come anche nella realtà più immobile tale condizione è essa stessa apparente.
Il vicolo del centro storico dove per un breve periodo ha fatto la sua comparsa un inaspettato prato.
Così anche noi in questo anno appena trascorso siamo cambiati non poco e abbiamo vissuto moltissimi cambiamenti. Come per la nascita del prato urbano dovremmo imparare ad osservare e a leggere le nostre strade, le nostre piazze e le persone che le attraversano. Quello che questo 2020 ha fatto emergere è che le città sono ancora il motore di tutto, sia delle nostre disuguaglianze, ma anche delle innovazioni e delle trasformazioni che avvengono continuamente e che appunto avremmo dovuto imparare a leggere proprio grazie a quest’anno così difficile.
Dovremmo imparare ad osservare un po’ più spesso quello che ci circonda per sentirci almeno un po’ cambiati dal passato, non è un compito facile, ma nemmeno impossibile.
Una pandemia mondiale e tu che, tra lenzuola sempre troppo pesanti per me, ridevi. Pensavi che avrei dovuto smetterla con i b-movie americani, di quelli che danno la domenica pomeriggio dove gli abitanti di una città con due case ed un fast-food si mettono ai ripari da alieni con la testa gigantesca.
Ed invece guardaci ora, rigorosamente da lontano. Probabilmente è la prima volta che non ci vediamo e non è colpa di qualche mia cazzata. In realtà, oltre a tutte le romanticherie, mi manca la tua pelle. E credo che neanche un bonus da 1.000 miliardi, Salvini che te possino, possa colmare questa mancanza (oppure giusta rinuncia per evitare di occupare un posto in ospedale da coglioni). Forse in questi mesi ho capito che ad un certo punto vale soltanto il tempo vissuto insieme a “te”.
Poi se ci penso un po’, mi manca cercare l’ispirazione ovunque. Questo maledetto virus ha rapito l’ovunque e chissà dove l’ha nascosto, probabilmente nelle rinunce che non riusciamo ad accettare perché troppo egoisti. Ed io che credevo che tutto fosse lì, bastava un passo e potevamo essere ovunque. Ma lo libereremo, prima o poi, e forse non saremo gli eroi biondi della Disney, ma son convinto che sporchi di birra e briciole di patatine riusciremo ad evolverci, a rinunciare a spostarci per spostarci più forte domani (sì, è una mezza citazione di Conte, anche perché io sono una bimba di Conte).
Gli occhi dei camerieri. Sì, mi mancano. Io che inizio a sudare freddo perché non ho deciso ancora con cosa strafogarmi e mi sento colpevole di procurare loro un ulteriore motivo per spararci in fronte. Si trattava di una “cosa semplice”, ma sì, “ci mangiamo una cosa veloce” ed invece all’improvviso abbiamo svaligiato i supermercati di lievito di birra e sentirci fighi per aver impastato una pizza che poi neanche la forma (quindi pensate che supereroi i camerieri e gli chef che insultiamo per un’attesa in più oppure per un pizzico di sale in meno).
E, infine, mi mancano le mie mani sporche d’inchiostro e polvere. Mettermele in bocca e pensare perché il cattivo in un film impiega sempre troppo tempo per uccidere il buono. E poi per fantasticare su come sarebbe bello il mondo se tutto finisse ora, scendere in piazza a bruciare l’Amuchina e riacquisire la fiducia nel prossimo e non vederlo più come un potenziale attentato alla nostra incolumità. Però ci tocca resistere, e non so se queste mancanze ci hanno reso migliori. Sento che siamo ancora troppo egoisti, me compreso, anche se ieri, mentre mi recavo a lavoro, ho visto un bambino indossare la mascherina e aiutare, a voce, il nonno ad indossarla meglio: forse laddove noi abbiamo fallito, ci penseranno i piccoli.
“…ora ascoltate. Io vi ho detto di ascoltare! […] Non è la fine del mondo gente, è soltanto la fine del giorno”.
In questo preciso periodo storico, in cui non ci sentiamo al sicuro da nessuna parte, mi fa particolarmente piacere proporre la visione di un film davvero adatto a stimolare la vostra… tranquillità. Quando i mass media e la comunicazione possono diffondere paure e pandemie di varia natura (a volte solo come definizione; e no, non sono un negazionista, anzi…) ci sono io qui a rendere tutto più leggero e rassicurante.
Siete più felici ora? Ricordate: essere curiosi è quasi sempre costruttivo. Buona lettura e, spero, buona visione.
Ah, dimenticavo, visto che vi voglio bene e so che siete dei pigroni nell’articolo vi ho riportato il film completo in italiano. Ma, se volete e potete, cercatelo in lingua originale/sottotitolato per capire alcune sfumature che è stato impossibile riportare in italiano.
…perché è bello vivere al tempo della pandemia.
PONTYPOOL
ANNO: 2008
DURATA: 94 min
GENERE: Thriller, Dramma… quasi Horror, a volte splatter
REGIA: Bruce McDonald
SCENEGGIATURA: Tony Burgess
PRODUZIONE: Canada
CAST PRINCIPALE: Stephen McHattie, Lisa Houle, Georgina Reilly, Hrant Alianak, Rick Roberts, Daniel Fathers, Beatriz Yuste, Tony Burgess
TRAMA (GIUSTO IL MINIMO SINDACALE)
Grant Mazzy (Stephen McHattie) è uno speaker radiofonico a fine carriera. Viene assunto, dopo l’ultimo licenziamento, da un’emittente radiofonica locale della piccola Pontypool in Ontario. Durante una delle sue provocatorie trasmissioni mattutine inizia a ricevere alcune chiamate da ascoltatori allarmati da strani assembramenti di persone in stato catatonico. Grant insieme agli altri che si trovano all’interno della stazione radio inizieranno a indagare su questo strano fenomeno. Ma poco alla volta gli avvenimenti inizieranno a trasformarsi in qualcosa di decisamente più preoccupante.
APPROFONDIMENTI E CURIOSITÀ (MENO DEL MINIMO SINDADACALE)
Pontypool è un film a basso budget ma ad alto tasso di originalità. Un qualcosa che si avvicina al ‘geniale’, aggettivo che comunque è sempre meglio usare con parsimonia.
Di ‘virus-movie’ ne sono stati prodotti fin troppi ma al film in oggetto piace travestirsi da questo genere cinematografico. L’agente patogeno e la cura – in quest’occasione – sono decisamente interessanti, estrosi, profondi e, cosa molto importante, sui generis.
Il regista canadese Bruce McDonald (Hard Core Logo, Sola nella Trappola) riesce con grande mestiere a completare la missione di trasportare lo spettatore, attraverso una bella dose da cavallo di disagi e claustrofobia, verso una progressione di eventi carichi di sani dubbi e di probabili terribili consapevolezze. Ed è questo uno dei tanti punti di forza di Pontypool (Pontypool – Zitto… o muorititolo italiano).
Molto buona la regia e superlativa la fotografia del per me sconosciuto Miroslaw Baszak.
A voi basterà resistere solo a qualche macchia confusionaria della sceneggiatura e ad alcune “divertenti divagazioni” per approdare in una landa in cui si percepisce come la comunicazione (non solo quella generata dai mass media) possa creare distorsioni e danni. Un’ultima specifica: vi aspettano diversi finali, ognuno con una o più interpretazioni; quindi approcciate come si deve ai titoli di coda e al loro corollario.
FILM COMPLETO (SE IL SINDACATO E LA PIRATERIA INFORMATICA VOGLIONO)
https://youtube.com/watch?v=tc4fE_UBoKg
VISIONI (S)CONFINANTI, ALTERNATIVE O RANDOM (SENZA DIRLO AL SINDACATO)
28 giorni dopo (2002, Danny Boyle), L’esercito delle 12 scimmie (1995, Terry Gilliam), Ultimo rifugio: Antartide (1980, Kinji Fukasaku).
Qui di seguito, con un font microscopico per non spargere la voce, due tra i miei film preferiti di sempre:
L’ultimo uomo della terra (1964, Sidney Salkow) e The road (2009, John Hillcoat). Amen.
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