Concorso INPS– resoconto emozionale di una Scarpasciuota

Concorso INPS– resoconto emozionale di una Scarpasciuota

Fa caldo a Roma, nonostante siano le 6:30 del mattino, le strade che attraverso a piedi sono ancora coperte dall’ombra e ogni tanto soffia una leggera brezza. Mi mantengo ottimista, dovrò camminare per quasi 5 chilometri, zaino in spalla in quella che considero la Città Torrida più che la Città Eterna, per raggiungere la stazione di Tuscolana dove grazie ad una coincidenza troverò il regionale che mi condurrà a Fiera di Roma. Lì, insieme ad altri 6.000, parteciperò alla prima e seconda prova del concorso Inps.

È la seconda volta, in poche settimane, che percorro questa strada e anche se ricordo ogni piccolo dettaglio, decido per sicurezza, di non affidarmi completamente alla mia memoria e rischiare di mancare, per qualche strano motivo la coincidenza con il treno. Per questo, anche questa volta, decido di affidarmi, seppur svogliatamente, al navigatore.

Durata del tragitto: 45 minuti, ma non mi preoccupo, il mio è un passo svelto e in media riesco sempre a guadagnare 15 minuti sul tempo previsto. Attraverso e taglio in due strade, parchi e quartieri, mi lascio alle spalle il Pigneto, silenzioso come non mai per le mie orecchie e per il mio immaginario. Superato il ponte mi accorgo che manca davvero poco alla mia destinazione e come previsto dalla mia tabella di marcia, sono in largo anticipo.

Giunto in stazione il treno non è ancora arrivato, intanto sulla banchina del binario 5 c’è già una gran moltitudine di persone, per lo più viaggiatori diretti a Fiumicino. Loro non parlano, sono le 7 del mattino e nessuno ha voglia di dire niente, ma le grandi valige con le rotelle sono estremamente eloquenti e testimoniano la loro imminente partenza. Nell’attesa mi lascio raccontare da quest’ultime le loro possibili destinazioni, immagino i loro itinerari esotici, luoghi dove riposarsi da una vita di stanchezze per poi fare ritorno di nuovo a casa, sgobbare per un altro intero anno senza possibilità di uscita.

Ma tutto dura poco, giusto qualche minuto, il tempo di vedere in lontananza il treno che, in affanno, raggiunge la banchina. Sembra anche lui un essere senziente e sembra che anche lui abbia notato il cambiamento di clima, la leggera brezza di prima non soffia più, ora ha lasciato spazio ad un vento che si fa man mano sempre più caldo.

Alla fermata, intanto, siamo tutti pronti, mentre la voce metallica standard ci raccomanda cautela nella salita, io penso tra me e me che come per tutti i mezzi con le carrozze la regola è sempre e solo una “Non prendere mai le prime in ordine di arrivo! Sono sempre strapiene!”; non faccio in tempo a ripetermelo che sono già sul secondo vagone del treno che, ovviamente, risulta essere strapieno. Il sonno e la stanchezza sono talmente tanti che decido di infischiarmene e tento comunque la sorte, sperando di trovare qualche posto.

Lo trovo quasi a primo colpo. Dovrò stare stretto, in mezzo ad altri passeggeri, ma con buona pace della mia misantropia da viaggio, decido che è sempre meglio dello stare all’in piedi. La carrozza è piena quasi in ogni ordine di posto, ma non è silente come la banchina di pochi minuti prima, è piena di voci e soprattutto piena di accenti e cadenze.

Sono quasi tutte cadenze meridionali quelle che riesco a percepire, la stragrande maggioranza è calabrese e siciliana. Le percepisco distintamente, tutte parlano del concorso: un groviglio di voci ed esistenze, quasi tutte piccolo borghesi, sono tutte qui per il concorso INPS. Hanno trovato, lungo il tragitto, altre voci affini, accomunate, per di più, dal recente destino e così si confrontano nelle loro aspirazioni e nelle loro preoccupazioni, o addirittura, si raccontano. Provo ad ascoltarle tutte, ne sono attratto e non riesco a farne a meno. Qualche d’una parla delle materie d’esame, ma qualche altra comincia a parlare di altro ed è così che vengo attirato dalle voci di 4 ragazze che sono sedute vicino a me. Si sono conosciute in treno, dicono di essere calabresi e siciliane, ma nessuna di loro vive più nelle rispettive regioni. Per lavoro hanno tutte abbandonato le proprie città per altre. Ragionano tanto sulle prove di oggi, commentano (non senza qualche pregiudizio) l’impreparazione che, a loro dire, alcuni candidati hanno esternato sui diversi gruppi Facebook e Telegram. Le trovo quasi antipatiche, lontane da qualsiasi condizione di comunanza e solidarietà che ci dovrebbe unire, i loro discorsi risultano insensibili e a tratti qualunquisti. Una di loro dice “Tanto si sa  che alla fine dei giochi passano il turno i più ignoranti, quelli che tutte queste cose non le sanno!”. Ma il tempo di una fermata e i discorsi ritornano su di un altro binario. Adesso si raccontano i loro viaggi per arrivare puntuali a questo appuntamento. Tutte hanno dovuto prendere diversi mezzi e si sono dovute appellare, anche loro, a Santa Coincidenza, protettrice di tutti i viaggiatori. Sono viaggi di sacrificio, improvvisati alla buona e meglio, come i tanti che adesso in questa carrozza si raccontano e si parlano per poi non parlarsi mai più.

Intanto il treno è arrivato alla nostra destinazione e le carrozze, come per incanto, si svuotano. Una nutrita folla è lì ad attenderci, saremo in 6.000, 3.000 questa mattina e 3.000 questo pomeriggio. Ci guardano e si riconoscono. Mentre riparo sotto l’unica striscia di ombra possibile lo stesso groviglio del treno di dialetti e cadenze si libera nell’aria calda di Roma. C’è chi si incontra dopo 10 anni, come per due palermitani che colgono l’occasione per salutarsi e c’è chi invece ripete le ultime nozioni. Io tra i due schieramenti rappresento la maggioranza (silenziosa), non incontro nessun amico di vecchia data e non ho mai creduto ai ripassi dell’ultimo momento, così mi siedo a terra e decido di leggere le ultime pagine del romanzo di Erofeev, dopotutto quale momento migliore per leggere un poema ferroviario, se non questo.

Ma la mia solitudine dura poco, una voce da dietro mi chiama, mi rivolge alcune domande e gli rispondo come posso. È un ragazzo calabrese, mi rivolge alcune domande sulle modalità della prova, così gli racconto dell’andamento della prova di ieri (lunedì 18 luglio, nda). Mi accorgo che in queste occasioni basta davvero poco per entrare confidenza con gli altri e ci vuole ancor meno tempo per trovarsi a raccontare delle proprie esperienze. Capisco in breve tempo che sono in molti ad essere laureati in giurisprudenza e in economia, mentre sono pochi quelli che come me provengono dal mondo delle scienze sociali. Durante la chiacchierata viene fuori che è da una settimana che percorre lo stivale avanti e dietro per partecipare a diverse prove e selezioni. Lavora a Trento, ma è dovuto venire a Roma per la preselettiva, poi ha raggiunto Cosenza per un altro concorso ed infine è ritornato a Roma per queste due prove, prima di dover risalire nuovamente a Trento per lavoro.

Mentre mi racconta dei suoi viaggi, ripenso anche alle testimonianze raccolte qualche settimana prima, racconti che differiscono per le latitudini, ma non certo per i metodi. Quella volta erano stati i viaggi di una ragazza che in Sardegna aveva dovuto raggiungere Cagliari, prendere un aereo e poi svariati treni, o del siciliano che da Milano, dove lavorava, aveva preso il treno delle 5 per venire a fare le prove o della calabrese che da Catanzaro aveva dovuto fare diverse tappe per raggiungere Roma.

Sono le storie di questa generazione, in larga parte meridionale, impegnata in mille lavori e lavoretti, che si muove lungo la penisola, con poco preavviso, per partecipare a qualsiasi concorso. Una generazione che vede nel lavoro statale la sicurezza e la stabilità, antidoti contro ogni forma di precariato a cui è costretta.

Il tempo dei racconti dura poco, i cancelli si aprono, riusciamo solo ad augurarci buona fortuna. L’ingresso, come sempre è traumatico, quel poco di personalità tipica di qualsiasi ambiente urbano è completamente spazzata via. Cominciamo a passare tra metri e metri di nastro di delimitazione e insceniamo percorsi cervellotici come in aeroporto, mentre di fianco i responsabili della sicurezza ci richiamano alla serietà e all’ordine (temono infiltrazioni da un altro concorso). Passiamo un primo gate dove ci richiedono l’autorizzazione, raggiungiamo un padiglione dove ci consegnano una nuova mascherina e dove ci obbligano a posare tutti gli accessori che potrebbero essere d’intralcio ad un regolare svolgimento della prova. Anche qui siamo soggetti ad una serpentina snervante dove alla fine ad attenderci ci sono tre operatori muniti di metal detector è l’ultimo step per accedere ai padiglioni in cui svolgeremo la prova. È l’emblema del Non – Luogo, un’esercitazione celata ed inconsapevole alla burocrazia e alla spersonalizzazione.

Entrando nel padiglione di appartenenza mi ritrovo a dare le mie generalità ad un’ultima operatrice, la stessa mi darà un codice di accesso con cui poi potrò svolgere la prova. Superato quest’ultimo ostacolo i responsabili d’aula mi indirizzano al mio posto, mentre dall’alto e dai lati una voce ci scivola addosso raccomandando a tutti di usufruire dei servizi in questo momento perché in seguito non sarà più possibile. La cadenza è estenuante, si ripete spesso durante la lunga attesa.

Arriva, infine, il momento della prova, il silenzio è totale, l’agitazione e il panico di migliaia di persone è palpabile. Di tanto in tanto il rumore di qualche sedia spezza la monotonia, ma non c’è rumore che tenga, sono tutti intenti a sperare che la prossima risposta sia quella giusta e che con il suo punteggio possano raggiungere il tanto agognato esame orale, perché in fondo il concorso ci mette davanti alle nostre paure, a noi stessi e al nostro presente precario.

(Non) Lavorare stanca!

(Non) Lavorare stanca!

Il 2021 si è concluso da qualche giorno e, a differenza degli altri anni, l’aria euforica e carica di aspettative dell’ultimo dell’anno non ci ha messo molto a dissiparsi. Una celerità del genere non l’avevo mai vista, nemmeno durante gli ultimi giorni di nebbia, prima dell’arrivo del grande freddo.

La cosa, però, non ci ha colto di sorpresa, non più di tanto! A dimostrazione della mia tesi c’è proprio la tematica che in queste settimane abbiamo deciso di affrontare. Nelle nostre recentissime e fugaci conversazioni ci siamo ritrovati a percepire indistintamente l’atmosfera che regna incontrastata da settimane: un profondo senso di stanchezza si è fatto strada in questo brevissimo 2022.

Di sicuro ha giocato un grande ruolo il perdurare della pandemia, ma credo che per molti quest’ultima condizione rappresenti la (in)giusta chiosa a situazioni di estrema difficoltà già precedentemente esistenti.

È il caso di molti di noi, che anche in questo 2022 saremo costretti a recitare il nostro solito copione: quello di dannati della terra (e delle aree interne), di precari perenni.

Un copione di una storia già vista, una storia che non ci ha mai abbandonato e che comincia a farsi ogni giorno sempre più pesante. Cambiano le ambientazioni in cui siamo costretti a rappresentare la nostra quotidiana tragedia sociale, ma non certo l’andamento delle nostre esperienze.

Una riflessione trita e ritrita, anche questa, che continua a farsi sentire ogni volta che mi tocca subire la mia dose quotidiana di televisione. Così mentre mi ritrovo a pranzo con la mia famiglia, il solito servizio del tg di La7 in cui si snocciolano i dati dell’Istat sul relativo tasso dell’occupazione giovanile mi rammenta che il dato è in crescita – di lunedì il tasso è sempre in crescita – per poi andare in caduta di mercoledì, soprattutto se fuori piove e le temperature sono rigide, per poi risalire, ottimisticamente, venerdì. Lo schizofrenico bipolarismo dei servizi di questo genere mi costringono a passare la restante parte del pranzo con lo sguardo rivolto all’opposto dello schermo e mi costringono a consumare, rabbiosamente, quello che resta nel mio piatto. La masticazione si fa più fitta e aggressiva, mentre le immagini a corredo del servizio inquadrano qualche strada trafficata e commerciale di una grande città a caso, i numeri continuano a cadere dall’alto non tenendo conto dell’incredibile mole di contratti a tempo determinato, dell’infinita sfilza di partite iva aperte e del fatto che sempre più giovani decidono di abbandonare anzitempo il mercato del lavoro.

A quasi un anno dell’insediamento del governo Draghi, il governo dei “migliori”, mi rendo conto che la tacita complicità dei media resiste, che raccontano di un paese che rinasce e di un PNRR che si attende come manna dal cielo, ma che attualmente risulta essere poco più che un documento di 237 pagine, in cui la parola giovani compare esattamente 123 volte e ogni volta risuona sempre più vuota e più banale.

La sensazione che si ha ogni volta che si legge la parola giovani all’interno delle missioni è quella di una pezza di appoggio o, in molti casi, di soggetti passivi che per l’ennesima volta dovranno subire la politica di turno.

Dopo anni ci ritroviamo a subire ancora, ed in parte è colpa nostra, le azioni altrui.

Le accettiamo, lasciandoci andare a qualche mugugno sommesso, nei luoghi di lavoro dove il contratto è sempre troppo basso e le ore sono sempre troppe, nei luoghi pubblici e istituzionali della politica, dove l’arte dell’avere sempre ragione e demandata ai soliti imbecilli di turno che brandiscono la parola rivoluzione pur essendo i principali difensori dello status quo e degli interessi personali, nei luoghi di confronto che si trasformano sempre più in luoghi di consumo e sempre meno di confronto, nelle nostre realtà domestiche sempre più logore e depresse.

Intanto i giorni passano e in strada l’aria gelida mi sputa in faccia tutta la sua violenza, ricordandomi che siamo solo all’inizio dell’anno. Un amico, incontrato per caso, mi saluta e mi confessa la sua incredibile stanchezza. Da qualche anno ha aperto una piccola attività, ma le difficoltà si fanno sempre più grandi e i guadagni sempre più esigui. In quei pochi attimi mi accorgo di quanto ci è comune questo destino e di quanto è altrettanto comune questo stato d’animo.

Ma, in fondo, voglio ripartire dal clima euforico che di solito si diffonde alla fine dell’anno e proprio da questo voglio conservare una sola cosa, la speranza che prima o poi tutta questa stanchezza collettiva porti a qualcosa di nuovo, ma soprattutto ci spinga ad agire realmente, perché ad un certo punto dovremmo pur stancarci di essere stanchi.

Bilancio di fine anno di un scarpa sciuota

Bilancio di fine anno di un scarpa sciuota

Un dicembre così piovoso e così rigido non lo ricordavo da tempo e, onestamente, faccio ancora fatica a crederlo tale. Le basse temperature che in questi giorni sono piombate così violentemente sulla Valle del Sabato hanno avuto l’ingrato compito di ricordarci che il mese di dicembre, in fondo, è l’anticamera dell’inverno. Potrebbe sembrare poca cosa, ma per un avellinese dicembre rappresenta un allarme importante: significa, infatti, che bisogna prepararsi a tre mesi di freddo intenso, vento impetuoso, abbondanti piogge e qualche sporadica nevicata. Ma significa soprattutto dimenticare i luoghi cittadini.

Anche se considero fortemente interessante affrontare il rapporto che intercorre tra avellinesi e il mese di dicembre, ritengo più calzante riflettere su quanto l’ultimo mese dell’anno spinga ad una fetta più ampia di popolazione globale ad attraversare alcuni momenti emozionali particolari.

Volendo mantenere la riflessione sul piano culturale e confessionale potremmo dire che a dicembre si celebra la nascita di Cristo, ma se ci abbandoniamo a riflessioni più materialistiche quello che di più suscita emozioni è la considerazione che un altro anno volge al termine.

Ci ritroviamo, volontariamente o meno, a ripensare a quello che è stato il nostro anno appena trascorso. Insomma dicembre è tempo di bilanci. In queste ultime settimane anche noi provvederemo a fare lo stesso e di conseguenza anche il sottoscritto proverà a redigere un bilancio personale sociale.

BILANCIO PERSONAL – SOCIALE DI ANDREA FAMIGLIETTI

«Dal diario di Andrea Famiglietti…»

L’anno che ormai volge al termine è stato un anno estremamente intenso. Pienamente consapevole della centralità che il lavoro assume nelle nostre esistenze, non posso far a meno di partire da quella che è stata la mia prima vera novità: dopo 5 anni di lavoro precario ho deciso di non “lavorare più”. Il mese di marzo è stato l’ultimo mese in cui ho ufficialmente svolto un lavoro dipendente. Un salto nel vuoto che si è dimostrato emozionante all’inizio, noioso in seguito e spaventoso all’ultimo. Un salto e una scelta che non ho compiuto da solo, stando ai numerosi articoli pubblicati, visto che la percentuale di giovani che in questi due anni di pandemia ha deciso di licenziarsi o di interrompere ogni rapporto di lavoro precedente è paurosamente elevata.

Una solitudine rumorosa, mi verrebbe da pensare. Ma resta comunque una scelta che è servita a prendere in mano la mia vita, non senza una certa difficoltà. Ho vissuto mesi di mancanze, tra tutte la più assurda è stata rappresentata dalla routine e dall’abitudinarietà delle azioni che si compiono durante i giorni lavorativi. Pratiche in cui ci rifugiamo per sentirci più al sicuro, protetti dall’incessante scandire del tempo e dall’imprevedibilità dei giorni che man mano si fa sempre più paurosa.

L’impossibilità ad avere il diritto a un presente e un futuro dignitoso ed indipendente e dover far ricorso, ancora e soprattutto, all’unico sistema di welfare funzionante in Italia, la famiglia.

La consapevolezza di essere costretti a vivere in una realtà in cui il tempo libero deve essere consumato e subordinato ad un prezzo si è fatta più evidente e più pesante. Così il grado di indipendenza economica minima, precedentemente posseduta, è pressoché scomparsa e mi sono ritrovato a vivere rarissimi momenti di socialità.

Ma tutte le mancanze sono state bilanciate dai numerosi impegni e dagli obiettivi che ho dovuto rincorrere. Lo studio per l’insegnamento, le collaborazioni con nuovi enti per continuare a progettare e soprattutto la registrazione dell’associazione per continuare ad operare e, finalmente, lavorare sul territorio. Sono questi i contrappesi ad una situazione estremamente difficile che ancora oggi mi fa paura.

Non sono stati mai momenti dolci quelli trascorsi, quasi tutti sono stati accompagnati da fatica e nervosismo, ma voglio sperare che in un futuro non molto lontano ogni nostra azione, ogni nostro sacrificio, possa ritornare anche solo come insegnamento.

Adesso dovrei concludere questo bilancio con un giudizio, ma so per certo che c’è una scappatoia, una via d’uscita che ognuno di noi prende in analisi per non doversi abbandonare ad un giudizio drastico e definitivo dell’anno appena trascorso…

LA LISTA DEI BUONI PROPOSITI DELL’ANNO PROSSIMO

– Abbattersi di meno alle difficoltà che affronto;
– Non rinunciare mai ad una passeggiata all’aria aperta;
– Continuare a non volgere lo sguardo altrove quando le cose mi sembrano ingiuste;
– Riuscire ad andare allo stadio almeno una volta (sperando che i biglietti non costino troppo);
– Vedere l’Avellino in serie B(è più una speranza irrealizzabile che un buon proposito);
– Imparare a suonare alcuni pezzi di Leonard Cohen sull’Ukulele;
– Rallentare il passo in strada;
– Prendere più spesso la bicicletta;
– Non accettare più lavori a 600 euro al mese per 40 ore settimanali;
– Non sottomettersi ad altri bullshits jobs (che Graeber mi perdoni);
– Andare almeno una volta al mare;
– Bere una birra in meno di quelle che vorrei bere;
– Superare almeno una volta un concorso pubblico statale per vedere cosa si prova;
– Non accumulare più di 20 libri non letti;
– Lamentarsi ogni tanto anziché ascoltare solo gli altri che si lamentano;
– Sentirmi meno precario;
– Andare in montagna;
– Fare ricerca sul campo;
– Dare una speranza a chi ne ha bisogno;
– Aiutare di più gli amici;
– Accettare di farsi aiutare dagli amici quando sono in difficoltà;
– Essere meno permaloso;
– Non prendere in giro chi indossa la canottiera anche d’estate;

continua…

Solo un grande sasso: storia di un precario e di un fiume

Solo un grande sasso: storia di un precario e di un fiume

Mentre fisso la schermata del mio PC, in un insolito momento di silenzio assoluto, ho cominciato a prestare attenzione a tutti i segnali che il mondo esterno continua ad offrirmi. L’autunno alla fine è giunto, inesorabile, come sempre.

I segni ci sono tutti, annunciano il cambiamento dell’ambiente e tutti se ne rendono conto: l’aria, improvvisamente più fresca spinge i pochi passanti mattutini a cercare un posto al sole, lo stesso sole che fino a qualche settimana fa evitavano con cura. Il suono delle rondini è scomparso e l’aria in cielo sembra essere più sgombra del solito. Ma c’è una cosa che non è mai scomparsa ed è destinato a non cambiare mai: il suono del fiume.

Sono ormai trent’anni che vivo con questo, non mi abbandona mai, né di estate né di inverno. Quasi sempre lo stesso anche nei giorni di pioggia. E pensare che per anni ho cercato in tutti i modi di attenuarlo, ammansirlo ed in certo qual modo ci sono riuscito.

Nessun tentativo di cementificazione, sia ben chiaro, ma un semplice processo di abitudine che ha avuto per protagonisti il mio orecchio e il mio cervello. Ma ecco, capita che qualche giorno in cui il silenzio si fa predominante che i sensi ritornano sensibili a quel suono, lo rendono percepibile, addirittura lo amplificano.

Un susseguirsi di riflessioni accompagnano questo strano risveglio. L’ultimo mi ha fatto pensare ai piccoli ciottoli che portati dalla corrente si continuano ad avvicendare lungo il percorso e vengono trasportati dalla sorgente fino alla foce, passando per un’infinità di città, paesi, agglomerati urbani e abitazioni. Lungo tutto il percorso vengono a contatto con un numero immenso di vite ed esperienze e influenzano un numero, altrettanto immenso, di esistenze.

Un ciottolo in balia delle onde può essere uno strano pensiero, se non lo si legge sotto un’altra ottica. Infatti lo si potrebbe rapportare a quella che è la nostra condizione.

Capita più spesso di quanto si creda di chiedersi di noi, come quel piccolo sasso, dove siamo diretti, da dove siamo partiti e quale sarà la nostra destinazione.

SOLO UN GRANDE SASSO – DOVE STIAMO ANDANDO?

C’è un minimo comun denominatore che accomuna la nostra infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza: la scuola. Passiamo gran parte della nostra giovane vita in balia di istituti in cui cercare di immagazzinare un numero spropositato di nozioni, senza comprenderne il senso.

Impariamo formule, composti, capitali, date, coniugazioni, declinazioni e via dicendo. Impariamo tutto senza battere ciglio. Impariamo, appunto, non comprendiamo. Immagazzinare il tutto per poi superare le verifiche e raggiungere, per merito di una somma aritmetica, la tanto agognata sufficienza e se va bene qualcosa in più.

Ci hanno detto che in questo modo stiamo acquisendo il metodo (quale metodo chissà) per poter affrontare dignitosamente la vita di tutti i giorni. E così per alcuni comincia la lunga trafila nel mondo del lavoro, per altri la giovinezza si allunga ulteriormente con l’università. Il desiderio, nemmeno tanto esplicito, quello di acquisire maggiori competenze e altro metodo (sempre in agguato, ma mai dichiarato).

Ci ritroviamo così, finalmente pronti per il mondo del lavoro, peccato che quest’ultimo non è pronto per tutti noi. E allora via con infiniti corsi di formazione, via di formazione permanente perché bisogna aggiornarsi e differenziarsi, bisogna essere sempre più unici per un sistema che ti getterà senza troppi complimenti in un contesto dove le parole d’ordine sono sempre le stesse, flessibilità e sottopaga.

Impossibilitati ad avere una giusta dimensione arriviamo a fare i conti con quella che è la nostra esistenza precaria e ci ritroviamo come quel piccolo sasso, portato a spasso dalla corrente, a chiederci “dove stiamo andando?”.

Intanto la corrente continua a limarci, smussando tutti gli spigoli, rendendoci sempre più piatti, trasportati non del tutto consapevoli della prossima destinazione, possiamo solo sperare che il prossimo luogo dove ci porterà sarà l’ultimo e sarà il più bello, il posto ideale dove vivere in pace la nostra esistenza.

Potrebbe andare peggio di così, potrebbe piovere…

Potrebbe andare peggio di così, potrebbe piovere…

È forse vero che il tempo ci condiziona nell’animo e nel pensiero? In risposta a questo quesito potrebbe giungere in soccorso una vecchia ricerca, credo che fosse dell’Istituto Gallup, che dimostrava la correlazione tra l’affluenza al voto e i fattori metereologici. Sembrava, infatti, che in alcuni casi, l’affluenza fosse direttamente proporzionale al meteo: così se il giorno delle elezioni, il cielo risultava essere sgombro di nuvole e il sole riscaldava le ossa infreddolite dall’inverno dei cittadini chiamati alle urne, il numero dei votanti aumentava senza particolari difficoltà. Viceversa, se si palesava una giornata piovosa, l’affluenza calava irrimediabilmente.

Una statistica che mi ha sempre lasciato perplesso e il più delle volte mi ha spinto a cedere e ad esclamare all’idiozia.

TUTTA UNA QUESTIONE DI METEO 

Ripenso spesso a questo studio quando incrocio lo sguardo di alcuni miei amici, o quando mi ritrovo a parlare con loro. Ci ripenso spesso, perché, come l’ultimo dei disperati che non ha altro a cui aggrapparsi, anche io, spero che il loro volto e il loro animo sia frutto di improvvise perturbazioni metereologiche.

Hanno l’espressione stanca e il corpo piegato su di sé, come se fosse stato costretto ad indicibili privazioni. La voce spesso spezzata, monotona segnala un’assenza preoccupante. Rivolgo così, un ultimo disperato sguardo al cielo, in cerca di qualche nuvola di pioggia, ma nulla.

Forse non è la pioggia la causa scatenante delle loro emozioni.

Sono molteplici i modi per accorgersene, il più interessante è quando arriva la notizia della pubblicazione delle graduatorie di un qualche concorso. Si risvegliano e fanno partire decine di messaggi e di comunicazioni. Sono attimi di straordinaria palpitazione e di disperata speranza.

Allora non è la pioggia.

L’euforia si esaurisce presto e si infrange lungo le barriere alzate dagli sbarramenti di punteggio. Lasciano spazio, nuovamente, a desolazione e depressione. Non resta allora che ritornare con il capo chino sui libri, in attesa di un nuovo concorso, quello buono, quello capace di risolvere con uno schiocco di dita tutti i problemi esistenziali di un’intera realtà.

Si dividono in due folte schiere: la prima composta da coloro che escono prematuramente dal mondo del lavoro per dedicare tempo ed energie nello studio in funzione dei concorsi pubblici. La seconda formata da quelli che si arrangiano, come possono, svolgendo lavori stagionali o precari, sottopagati, massacranti e deprimenti.

I numeri eloquenti lo dimostrano. Recentemente la Fondazione Feltrinelli ha diffuso un’infografica tutt’altro che rassicurante. L’Italia è un paese dove la disoccupazione degli under 35 si attesta al 23% e dove su 8 milioni di lavoratori totali, 3 sono rappresentati da quelli che vengono definiti irregolari e 5, invece, svolgono lavori precari, involontari o con forte disagio salariale.

Ma non sono solo i numeri, sono come sempre le esistenze a destare preoccupazioni. Le due precedenti schiere vivono le stesse emozioni e conquistano la sera con lo stesso animo consumato da malesseri e stanchezze.

Controllo un’ultima volta il cielo scorgendo qualche tipo di perturbazione, ma ancora niente. Eppure in questi casi mi ritorna in mente quella epica scena di Frankenstein Junior in cui il protagonista, impegnato in un ingrato compito, insieme ad Igor, si ferma ed esclama:

«Che lavoro schifoso!»
E di tutta risposta Igor risponde:
«Potrebbe esser peggio, potrebbe piovere!»

Allora forse è vero che è tutta una questione metereologica.