La vita è tutto un equilibrio sopra la follia. Mai parole più vere furono scritte.
Se nell’arco della propria vita ognuno di noi non si affidasse all’equilibrio, potete starne certi, saremmo un popolo di pazzi evidenti.
Equilibrio. Non è una parola di uso molto comune. Eppure, l’equilibrio corrisponde a quella cosa, o concetto che dir si voglia, che cerchiamo in ogni modo di tenere stretta a noi.
Doveri, regole, buoncostume? Ecco, la questione è tutta qui. Non è che l’equilibrio sia poco diffuso, semplicemente gli diamo nomi diversi. Esso corrisponde a quell’insieme di comportamenti che l’uomo apprende sin da piccolo, con cui viene educato affinché sia conforme alla società a cui è destinato. Insomma, tutto quello che è bene fare per essere considerato normale.
Forse la parola equilibrio si usa poco perché, seppur in fisica indichi lo stato di quiete di un corpo, nell’immaginario collettivo viene associato alla precarietà. Equilibrio è l’acrobata che cammina su una corda a braccia larghe e può cadere da un momento all’altro. Equilibristi siamo tutti noi che ogni giorno camminiamo sulla corda sfilacciata di una società che pretende tanto e da poco o niente indietro. Insomma, l’equilibrio è un nervo scoperto che è bene non fare vedere.
Il presente che ci troviamo a vivere rende l’idea. Reduci da una pandemia inaspettata e che ancora ci accompagna, si sono presentati la guerra, l’ennesima crisi di governo, la crisi energetica e chi più ne ha più ne metta. Tutte problematiche a cui aggiungere le proprie difficoltà personali.
In questo calderone di insensatezza e scelleratezza, come si può pretendere di non essere pazzi? Sì, perché pazzi lo siamo già tutti. Per questo all’inizio ho parlato di evidenza. Noi siamo bravissimi a nasconderla. La pazzia di ognuno di noi è un po’ il segreto di Pulcinella: tutti sappiamo di esserlo, a volte scappa un “marò, sto uscendo pazzo”, ma poi si torna a ricoprire il ruolo di taciti soldatini. E poi nella propria solitudine si piange, si prova rabbia sin nello stomaco. Quante volte reprimiamo i nostri istinti? Il “no, non si può fare” è all’ordine del giorno. Un’autoflaggelazione a cui ci sottoponiamo per sottrarci al giudizio. Intanto, ad ogni no, una parte di noi muore: quella più libera, innocente.
A volte provo un po’ di invidia per i pazzi evidenti, quelli che hanno scelto di star fuori da questa società insensata, quelli che parlano ad alta voce per strada e temi possano farti qualcosa “perché so pazzi”. Spesso hanno un’aria allegra, spensierata, un po’ infantile. Forse a cadere da quella corda, non ci si fa poi così male.
“Alcune parti della nostra Storia definiscono chi siamo. Ma le sfumature e l’umanità vanno perdute nelle enciclopedie” Etna – Cyclopedia Exotica
Guardandomi indietro mi rendo conto di aver trascorso molti fine settimana della mia adolescenza in una piazza di Napoli, insieme agli amici dell’epoca, e c’era una cosa che mi sorprendeva sempre, ovvero come un semplice luogo potesse essere un punto d’incontro per quei ragazzi e ragazze che si definivano alternativi. Si definivano così per contrapporsi ai cosiddetti cuozzi, altrettanti ragazzi e ragazze che si identificavano in un gruppo con l’obiettivo di essere sempre all’ultima moda, o per meglio dire “quelli fighi”; e così ero sorpreso come attraverso queste categorie sociali venivano a crearsi delle differenze e l’identificazione del diverso già in un periodo dove conoscersi era importante. Oggi quando si parla di diversità, possiamo fare riferimento a tante varianti: genere, religione, cultura, orientamento politico o sessuale e chi più ne ha più ne metta.
Un occhio di riguardo
Un’occhio. Due occhi. Quale potrebbe mai essere la differenza? Nella società moderna immaginata da Aminder Dhaliwal, esseri umani e ciclopi convivono tra le pagine di “Cyclopedia Exotica”. Ma come si può immaginare, ciò che è “diverso” da noi un po’ spaventa; ed è proprio ciò che l’autrice cerca di spiegare sulle pagine della sua graphic novel e con l’intreccio delle storie dei vari protagonisti, echi di personaggi mitologici. La narrazione inizia con il primo numero di Playclops (una sorta di Playboy per ciclopi, nda), dove in copertina si trova Etna, acquistato dall’aspirante modella Latea; qui già un primo confronto tra i personaggi, da una parte si ha la prima modella ciclope che ha posato la prima pietra per l’accettazione della diversità e dall’altra un personaggio che vive in una società già più tollerante e che sembra essere “l’evoluzione sociale” di Etna. La figura di Etna ricorda Donyale Luna, la prima modella di colore a posare per le riviste e che è stata anche la pionera per l’accettazione da parte della società per le minoranze.
Se con Etna e Latea l’autrice mostra e ci immerge in una sorta di evoluzione temporale per l’accettazione della minoranza, con il rapporto di coppia di Tim e Pari ci porta ad un livello totalmente diverso; sono una coppia mista, dove Tim è un “due-occhi” (come ci descrive l’autrice, nda) e Pari è una ciclope. Anche qui si può riscontrare una dualità particolare poiché Tim rappresenta lo stereotipo del “fortunato”, colui che ha vissuto in una società che lo accettava, mentre dall’altra abbiamo Pari che richiama quella parte di minoranza che deve costantemente mostrare il suo valore; con la figura della ciclope vediamo il tema delle minoranze con un buon lavoro ma privi di un modello da seguire, quindi Pari vive una crisi d’identità poiché essendo anche madre di due bambini (una due-occhi e un ciclope) non sa se dedicarsi alla propria carriera o solamente alla famiglia. E su questo pure ci sarebbe da parlare!
Crisi d’identità e accettazione del sé
Se prima abbiamo visto il rapporto tra individuo e società, in questa parte dell’articolo si andrà per il rapporto con il sé. L’autrice non si è risparmiata sulle tematiche e con Pol e Bron ci porta ad una visione più intima dell’individuo; Pol è un ciclope che ha avuto una vita difficile ma nonostante ciò si è sempre messo in gioco, cercando di raggiungere i suoi obiettivi e senza troppe problematiche nonostante la sua giovane età ma la prematura calvizia. Mentre Pol è l’identificazione dell’accettazione del sé, poiché ha passato la sua vita ad amarsi, la figura di Bron è di tutt’altro avviso. Bron è la crisi d’identità fatta persona, ha passato la sua vita vedendosi costantemente in svantaggio e al contrario di Pol si è impegnato per cambiare e somigliare ai “due-occhi” più che cercare una sua strada; il ciclope nel non accettarsi arriva ad operarsi all’occhio, un’operazione che all’inizio sembra renderlo felice ma che si rivolta contro e portandolo in una situazione dove la sua identità è in bilico tra i due mondi: essere ciclope o un due occhi. Bron vive la sua identità da ciclope come un’ostacolo alla sua felicità tanto che arriva a denigrare “L’occhio di Suzy” , un libro per bambini che racconta dell’identificazione e appartenenza; il rapporto tra il ciclope e il romanzo è anche un tentativo da parte dell’autrice di parlare del tema delle storie, di quelle storie che raccontiamo a noi stessi e che ci vengono raccontate ma che contribuiscono alla nostra definizione. Ma un incontro fortuito porta l’insicuro Bron ad accettarsi e ad identificarsi con la sua origine, riportandolo alla sua infanzia e ad una nuova lettura del libro che ha tanto evitato. Piccole curiosità I nomi utilizzati dall’autrice per i suoi ciclopi (e non solo) fanno tutti parte (o quasi) della mitologia greca. Una piccola nota va alla ciclope Etna, chiamata come il vulcano presente sull’isola della Sicilia e secondo la mitologia è lì che risiedevano i ciclopi; così oltre ad essere un omaggio alla nostra amata isola, Etna riesce ad essere anche una sorta di “genitrice” dell’identità ciclopica all’interno del fumetto. Per chi fosse curioso di conoscere meglio le storie scritte da Aminder Dhaliwal, il fumetto è edito in Italia da Edizioni BD.
“Vi siete mai domandati come mai le scimmie, quando imitano gli umani, battano le mani e ridono a più non posso?”
Jean-Paul Malfatti
“Non vi sono miracoli, né eccezioni alle leggi di natura.”
Stephen Hawking
Aprite le gabbie, procuratevi una bella ragazza e un gorilla per i vostri esperimenti casalinghi, sgranate gli occhi, ammirate Lugosi e, soprattutto, preparatevi per la pizza (quella da mangiare con sprezzo del pericolo).
Contiene il film completo nella versione italiana, un trailer omaggio, una pizza giapponese e un breveaudio su Bela Lugosi a cura di Carlo Lucarelli (consigliatissimo).
IL DOTTOR MIRACOLO
TITOLO ORIGINALE: Murders In The Rue Morgue ANNO: 1932 DURATA: 72’ GENERE: Mistery REGIA: Robert Florey SOGGETTO: Edgar Allan Poe (racconto Murders In The Rue Morgue), Robert Florey (adattamento) SCENEGGIATURA: Tom Reed e Dale Van Every, Ethel M. Kelly (non accreditato) PRODUZIONE: Stati Uniti d’America CAST PRINCIPALE: Bela Lugosi, Sidney Fox, Leon Ames, Bert Roach, Betty Ross Clarke, Brandon Hurst
TRAMA (GIUSTO IL MINIMO SINDACALE)
Parigi, metà Ottocento. In città arriva il circo e, insieme ai pagliacci, i leoni e tutto il resto, arriva anche il Dottor Miracolo. Quest’ultimo, un iconico Lugosi in versione mad doctor, inizia a giocare con sangue, donne e gorilla per dare origine al suo personale… miracolo.
APPROFONDIMENTI E CURIOSITÀ (MENO DEL MINIMO SINDACALE, GIUSTO PER GIRARCI INTORNO)
Perché cimentarsi con questa visione in bianco e nero datata 1932? Procedo in ordine sparso e nella mia comodissima versione a “lista”:
Il direttore della fotografia è Karl Freund, uno che all’epoca faceva la differenza. Un altro dei tanti maestri tedeschi fuggiti a Hollywood a insegnare il Cinema a quei buzzurri di americani pieni di soldi;
Bela Lugosi, seppur con il suo classico portamento caricaturale e teatrale, supera di gran lunga la sua precedente interpretazione in Dracula (1931, Tod Browning). E che sia chiara una cosa: Dracula il Vampiro (1958, Terence Fisher) della Hammer è un film di un altro livello, decisamente migliore rispetto allo storico film di Lugosi (senza offesa per la storia);
Il soggetto è tratto da un racconto di Edgar Alla Poe e, come capitava sempre, alla fine della narrazione originale ne è rimasta davvero poco (Roger Corman docet). Il racconto, pubblicato nel 1841, s’intitola The Murders in the Rue Morgue. È considerato la prima storia poliziesca in letteratura, ma solo se vogliamo sprofondare nell’oblio lo scrittore norvegese Mauritz Hansen e il suo romanzo del 1839, Mordet på Maskinbygger Roolfsen (L’assassinio del macchinista Roolfsen);
Decisamente interessanti la svolta sci-fi del film rispetto al bellissimo racconto originale e l’aspetto vagamente espressionista del girato. In pratica, il gorilla ubbidiente e la tecnica ricordano l’immortale Il gabinetto del dottor Caligari (1920, Robert Wiene). Come già detto, Freund faceva la differenza. Le bellissime atmosfere di questo lungometraggio sono merito suo;
Il Dottor Miracolo è uno scorcio interessante sulle produzioni dell’epoca, soprattutto quelle un po’ più ricche della Universal;
Curiostià: senza svelarvi troppo, il finale rocambolesco del film anticipa di un anno il filmKing Kong (1933, Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack);
Il film è divertente nel suo essere una messe di idee “pazzesche” e un po’ naif. Approcciatelo senza temere che sia noioso.
VISIONE (S)CONFINANTE (STAVOLTA SOLO UNA)
PIZZA TIME, SOLO PER I PIÙ CORAGGIOSI: UN OLTRAGGIO ITALO-GIAPPONESE
Si resta per amore
Per tutte le sue varianti
Nei paesi muti si resta per amore
Paesi muti, non silenziosi
Che pure il silenzio può essere poesia
Ma un paese muto non sospira neanche
Non dorme
Semplicemente non esiste
E allora solo l’amore può farti rimanere
Può farti credere che nei vicoli ci sia ancora un piccolo rumore da cogliere
Un fruscìo, un lamento, un gemito
Il paese muto ti parla
Devi avere buon orecchio
Devi essere predisposto
All’ascolto
E all’amore
Paesi muti
Irpinia 2022
Nonostante la digestione del cibo ingurgitato tra Pasqua e Pasquetta sia ancora difficoltosa, abbiamo deciso di ritornare in campo con una nuova tematica da affrontare nelle prossime settimane.
In questi giorni – in realtà in questi anni – spesso abbiamo discusso sui motivi per cui scappare dai piccoli centri in cui siamo nati. Tuttavia, non ci siamo quasi mai soffermati a riflettere su cosa potremmo fare per restare. Non siamo del tutto convinti, infatti, che le cause della fuga e gli eventuali motivi per restare coincidano.
E non siamo nemmeno convinti, infine, di aver fatto il massimo per creare nella nostra terra le condizioni ideali per fermarci – almeno fisicamente – laddove da piccoli giocavamo a pallone e sognavamo di diventare persone migliori.
Nelle prossime settimane, dunque, proveremo a mettere nero su bianco tutto quello che vorremmo affinché non andare via diventi una valida alternativa alla ormai “banale” fuga al Nord o addirittura all’estero.
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